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PROBLEMI COSTITUZIONALI IN TEMA DI STANDARD RETRIBUTIVO INDEROGABILE

È difficile giustificare sul piano costituzionale il fatto che i minimi tabellari, assunti dai giudici come parametri per la determinazione della giusta retribuzione, siano espressi in termini nominali e non in termini di potere d’acquisto effettivo, cioè tenendosi conto del costo della vita nella regione 

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Video e testo scritto dell’intervento svolto al XIX Congresso dell’Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale, tenutosi a Palermo dal 17 al 19 maggio 2018 – In argomento v. anche la presentazione del saggio di Tito Boeri, Andrea Ichino ed Enrico Moretti,
Divari territoriali e contrattazione: quando l’eguale diventa diseguale [1], al festival dell’Economia di Trento il 3 giugno 2016

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IL TESTO SCRITTO DELL’INTERVENTO

Vorrei proporre una riflessione su di un concetto-cardine della nostra cultura giuslavoristica, che è oggi al centro del dibattito del nostro congresso: quello di “standard minimo inderogabile”. Per rendere subito evidente il senso della riflessione prendo le mosse da un piccolo episodio di vita vissuta.

Prefettura di Reggio Calabria, visita di una commissione parlamentare di inchiesta sulla criminalità organizzata e in particolare sul fenomeno del lavoro nero. Dopo le prime frasi di circostanza il prefetto entra nel vivo della questione facendo ai parlamentari all’incirca questo discorso: “Non mi sarebbe difficile stanare, se non tutto, almeno l’80 per cento del lavoro nero che si svolge nella provincia; e non mi occorrerebbe neanche inviare ispettori o polizia con le camionette: mi basterebbe incrociare i tabulati dei consumi elettrici con quelli delle contribuzioni Inps. Perché per produrre occorre l’energia elettrica, e le imprese che la forniscono sono più brave a combattere i furti di energia di quanto sia l’Inps a combattere le evasioni contributive; dunque, dovunque si registri una punta di consumo di energia e non una contribuzione previdenziale corrispondente, lì si può star sicuri che c’è un’impresa che lavora al nero. Però, se io facessi chiudere tutte le imprese che lavorano così, sareste voi politici a raccomandarmi di desistere, per non avere le barricate per le strade”. Pensate che a questo discorso i parlamentari rispondano protestando la propria fermezza e invitando il prefetto a far con rigore il proprio dovere? Neanche per idea: i parlamentari ascoltano pensosi; e quando è il loro turno di prendere la parola intervengono su altri aspetti del contrasto alla criminalità organizzata.

L’episodio, che è rappresentativo della rassegnazione dominante nel nostro Paese di fronte al suo 15 per cento stimato di economia irregolare, diffusa soprattutto nel Mezzogiorno, serve a farci riflettere su come opera, in realtà, lo standard retributivo inderogabile, pilastro del nostro ordinamento giuslavoristico: costruiamo questo standard sulla base di tabelle retributive uguali per tutto il territorio nazionale, lo applichiamo in modo da impedire di negoziare livelli retributivi inferiori anche a un sindacato legittimo e “maggiormente rappresentativo”, però coscientemente consentiamo la deroga alla criminalità organizzata. Perché si può stare certi che dove c’è un’impresa che lavora al nero, lì il controllo lo ha in mano la criminalità organizzata, sia essa la mafia, la ‘ndrangheta, o la camorra. Su questo punto occorre una nostra riflessione molto attenta e approfondita.

Una riflessione approfondita merita anche un’altra questione, strettamente collegata a questa: lo standard inderogabile è stabilito in termini di retribuzione nominale, senza alcun riferimento al potere d’acquisto effettivo della moneta. Qui la domanda che dobbiamo porci è: che senso ha, dal punto di vista dei principi costituzionali di uguaglianza e di giusta retribuzione, che gli standard siano stabiliti in termini di retribuzione nominale, quando sappiamo che il costo della vita a Crotone è del trenta o trentacinque per cento inferiore rispetto a Milano? Si obietta che al Sud i servizi sono peggiori, che per curarsi occorre migrare verso gli ospedali del nord; e che un’auto o una lavatrice costano uguale al sud e al nord. D’accordo; ma non così la casa, e non così diversi altri beni di consumo quotidiano. Provate a chiederlo alle centinaia di migliaia di insegnanti che rifiutano fermamente le cattedre offerte loro al nord, osservando che in Sicilia, in Calabria, o in Puglia, con milleduecento euro al mese si vive bene, mentre in Piemonte, o in Lombardia, o in Emilia, si muore di fame. Dunque, quei milleduecento euro, in termini di potere d’acquisto reale, di retribuzione effettiva, valgono di più in Sicilia e in Calabria che nella pianura padana. Io non riesco proprio a vedere che cosa abbia a che fare questa nostra scelta di politica salariale, né con il principio costituzionale di uguaglianza, né con quello della giusta retribuzione.

Viceversa, vedrei una coerenza molto maggiore con entrambi quei principi nella scelta di consentire a un sindacato che abbia i necessari requisiti di rappresentatività, al livello regionale, territoriale o aziendale, di derogare rispetto allo standard nazionale espresso in termini nominali quanto meno nella misura dello scostamento del costo della vita regionale rispetto alla media nazionale.

Osservo, a questo proposito, che in un Paese come il nostro molto lungo, da nord a sud, con costi della vita e livelli di produttività del lavoro notevolmente diversi tra nord e sud – per motivi storici, geografici, culturali, di sviluppo delle infrastrutture, che non è il caso di esaminare qui –, uno standard retributivo unico nazionale espresso in termini nominali produce non soltanto l’effetto di alimentare il lavoro nero nelle regioni più deboli, ma anche un effetto depressivo sulle retribuzioni reali nelle regioni più forti, dove uno standard più basso di quello che potrebbe essere finisce col favorire la rendita da monopsonio dinamico nelle “zone basse” del tessuto produttivo, che ovviamente esistono pure al nord.

Su questo terreno mi sembra molto interessante lo studio che è stato presentato al Festival dell’Economia di Trento l’anno scorso [1] da Tito Boeri, Enrico Moretti e mio fratello Andrea, che mostra gli effetti di una scelta compiuta dalla Germania poco meno di vent’anni or sono, quando, all’esito della riunificazione tra Est e Ovest, si è ritrovata con uno squilibrio grave di produttività, di costo della vita e di livelli retributivi tra il territorio della ex RDT e il resto del Paese. Lì la scelta che venne compiuta fu quella di consentire che il contratto collettivo aziendale non soltanto derogasse al contratto nazionale, anche per quel che riguarda i livelli retributivi, ma addirittura lo sostituisse integralmente. Mi sembra che attualmente in Germania in quasi un terzo delle aziende il lavoro sia regolato da contratti aziendali e non dal contratto nazionale. Ebbene, a meno di vent’anni di distanza è impressionante osservare come questo sistema di relazioni industriali abbia prodotto un riequilibrio sostanziale dei tassi di occupazione e di disoccupazione tra Est e Ovest e un processo di riduzione delle distanze tra i livelli retributivi delle regioni più ricche e quelli delle più povere.

Per concludere sul punto, poiché questo è un congresso di diritto del lavoro, ciò che vi propongo non è affatto di optare senz’altro per una scelta del tipo di quella tedesca, in materia di standard retributivi; bensì, molto più modestamente, di riconoscere che né l’articolo 3 della nostra Costituzione né l’articolo 36 osterebbero a una scelta di quel tipo. Sarebbe già molto.

Infine, solo un accenno a un secondo tema che mi ero proposto di trattare in questo intervento, ma non ho il tempo di trattarlo compiutamente. È il tema dell’incidenza del contenuto assicurativo del rapporto di lavoro sulla “corrispettività” della retribuzione. Gli economisti ci avvertono che il contratto di lavoro non ha soltanto una causa di scambio tra lavoro e retribuzione, ma anche una causa “assicurativa”: con la stipulazione del contratto la persona che lavora non acquista soltanto il diritto alla retribuzione per il lavoro che giorno per giorno svolgerà, ma acquista anche una sorta di polizza assicurativa, che vincola il datore a coprire, entro certi massimali, il rischio di determinati impedimenti al lavoro, primo fra tutti il rischio di malattia. A me sembra che questa osservazione basti e avanzi per spiegare il perdurare dell’obbligazione retributiva durante i periodi di sospensione della prestazione lavorativa dovuti a determinati impedimenti o esigenze: la corrispettività non è un nesso che lega ogni segmento di retribuzione a un segmento di tempo di lavoro, bensì un nesso che lega l’obbligazione retributiva complessiva a un’obbligazione lavorativa complessiva, la quale contempla alcune cause di sospensione senza perdita di reddito.

Del contenuto assicurativo del rapporto di lavoro deve tenersi conto anche in qualsiasi ragionamento circa la giusta retribuzione ex articolo 36 della Costituzione: è evidente, infatti, come – a parità di ogni altra circostanza – a un più robusto contenuto assicurativo possa corrispondere un livello retributivo inferiore, e viceversa.

Donde una conferma dell’importanza che assume l’interlocuzione con gli economisti del lavoro per qualsiasi nostro discorso sul diritto del lavoro. Quando poi si discute di diritto alla giusta retribuzione, questo dialogo è ancor più importante che in qualsiasi altro comparto della nostra materia.

 

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