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PD-M5S: LA SVOLTA CHE CONTA È SUL RAPPORTO CON LA UE

Di fronte al rischio di un Governo dominato dalla Lega, organicamente legata a Putin e impegnata nella sua stessa battaglia per la disgregazione dell’UE, credo che sia stato giusto scommettere sulla genuinità del drastico mutamento di linea del partito fondato da Grillo sul processo di integrazione europea

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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su
Italia Oggi il 6 settembre 2019 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico Il M5S e lo spartiacque politico fondamentale [1]
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[2]La vera convergenza programmatica tra Pd e M5S non si consuma tanto sul terreno dell’appartenenza alla sinistra, ma sulla partecipazione al processo di integrazione europea. Ne è convinto Pietro Ichino, giuslavorista, considerato il padre del Jobs Act, più volte parlamentare, nel 2007 tra i fondatori del Pd. Sulle prossime mosse del nuovo esecutivo sul lavoro Ichino dice: “La cosa più probabile è, per fortuna, che la riforma del 2015 non venga ulteriormente manomessa, e che invece si determini una forte convergenza sulla riduzione del cuneo fiscale e previdenziale sulle buste-paga”. E il salario orario minimo? “Per fare questa riforma è indispensabile un passaggio che per entrambi i partiti è un rospo difficilissimo da ingoiare: quello degli enormi squilibri regionali, i quali fanno sì che uno standard retributivo minimo fissato in termini nominali, quale che ne sia il livello, sarà inevitabilmente troppo alto per il Sud, o troppo basso per il Nord [3]“.

Domanda. Professor Ichino, il Conte bis ha giurato. Che governo è, anche alla luce del programma? È possibile dire che sia di sinistra?
Risposta.
Si può anche sostenerlo, come lo sostiene Massimo D’Alema. Ma in questo modo non si coglie il significato essenziale dell’operazione politica da cui questo governo nasce.

D. Che cosa intende dire?
R. Intendo dire che, se le cose stessero come dice D’Alema, ciò che sta accadendo nel Movimento 5 Stelle sarebbe una conversione da partito di destra, che si allea con la Lega di Salvini, a partito di sinistra, che si allea con il Partito democratico. A me non sembra che stia accadendo questo.

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La collocazione del M5S all’indomani delle elezioni del marzo 2018

D. Che cosa sta accadendo, invece, secondo lei?
R. La svolta del M5S a cui stiamo assistendo, che il Capo dello Stato Mattarella ha voluto verificare in modo molto approfondito nei giorni scorsi, consiste nell’abbandono della posizione originaria tendente a far uscire l’Italia dall’euro e quindi dalla UE: ricorda la proposta del referendum per l’uscita dal sistema della moneta unica? Mi rendo ben conto delle infinite perplessità che si possono nutrire circa la sincerità e solidità politica di questa svolta; ma di fronte al rischio della vera e propria catastrofe che si profilava all’orizzonte a Ferragosto credo che sia stato giusto scommettere su questa conversione del Movimento fondato da Grillo.

D. Quale catastrofe?
R. La prospettiva catastrofica sarebbe stata duplice. Innanzitutto, lo scioglimento anticipato delle Camere avrebbe portato con tutta probabilità a un Governo guidato da Salvini e dominato dalla Lega, cioè da un partito che oggi è organicamente legato a Putin e impegnato nella sua stessa battaglia per la disgregazione dell’UE.

D. Professore, si assume lei la responsabilità di quello che dice…
Certo che me l’assumo.

D. L’altro rischio di catastrofe?
R. Il solo fatto di elezioni anticipate a metà o fine ottobre avrebbe significato l’impossibilità per l’Italia di adempiere il proprio obbligo nei confronti della UE di approvare la Legge Finanziaria entro la fine dell’anno. Se a questo aggiungiamo l’isolamento totale in cui Salvini ha cacciato il nostro Paese in seno alla UE, dunque la severità con cui la nostra inadempienza e la nostra inaffidabilità sarebbero state considerate dalla nuova Commissione guidata da Ursula Van Der Leyen, ci rendiamo conto che ce ne sarebbe stato più che a sufficienza per far salire lo spread oltre ogni limite di guardia. E a quel punto non sarebbe stato possibile attivare alcun “governo Monti” capace di salvarci dalla sfiducia dei mercati.

D. Intende dire che è il rischio di quella catastrofe a rendere accettabile una coalizione tra PD e M5S?
R. Sì. A condizione, ovviamente, che nell’ottica dell’evitare la catastrofe questa coalizione sia utile e non controproducente. Ciò dipende essenzialmente dalla solidità e irreversibilità della svolta del M5S. All’indomani delle elezioni del marzo 2018, rispetto allo spartiacque pro-UE/no-UE, con la proposta del referendum per l’uscita dell’Italia dal sistema dell’euro il M5S si collocava esplicitamente e nettamente sul versante no-UE: il che spiega perché allora – al contrario di quel che ora sostiene D’Alema – qualsiasi ipotesi di coalizione Pd-M5S fosse impensabile.

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Il mutamento della posizione del M5S rispetto allo spartiacque pro-UE/no-UE

D. Su che cosa si può fondare la fiducia nella genuinità della svolta dei Cinque Stelle?
R. Alcuni fatti concreti ci sono: innanzitutto la frattura che si è consumata tra loro e la Lega sulla scelta della tedesca Van Der Leyen alla presidenza della Commissione Europea.

D. Un po’ poco.
R. Poi c’è quanto è risultato nei giorni scorsi dalle consultazioni di Mattarella, che su questo punto è stato particolarmente severo e intransigente: ha detto a tutti che o dagli impegni internazionali ci si svincola apertamente, seguendo le procedure necessarie per farlo legittimamente, oppure quegli impegni vanno mantenuti. E che lui non tollererà un governo che continui a tenere il piede in due staffe, come ha fatto quello ora dimissionario. Su questo punto ha avuto impegni espliciti sia da parte del premier Conte, sia da parte di tutti gli esponenti del Movimento che son saliti al Quirinale. Abbastanza, mi sembra, perché si scegliesse questa alternativa di fronte al rischio gravissimo che il Paese sta correndo. D’altra parte, la vicenda incredibile della Brexit spiega molte cose nella svolta del movimento di Grillo: essa apre gli occhi a molti euroscettici sui danni enormi di un ritorno al vecchio modello di sovranità nazionale e alle vecchie frontiere che spezzettavano il nostro continente.

D. È possibile prefigurare non solo un’alleanza in chiave anti-Lega ma una vera e propria convergenza programmatica tra Pd e M5S?
R. Vede, il sentiero su cui l’Italia deve mantenersi, a causa del suo debito pubblico enorme, se vuole mantenere il proprio impegno a partecipare al processo di integrazione europea, è talmente stretto, che già questa scelta comporta una convergenza almeno sulle cose fondamentali di cui il governo deve occuparsi. Dopodiché ciascun partito si batterà per questa o quella misura-bandiera, ma si tratterà sempre di misure di peso marginale rispetto alle opzioni fondamentali. Così stando le cose, la vera convergenza programmatica che conta è quella relativa alla partecipazione o no al processo di integrazione europea [6].

D. Uno dei punti chiave sarà il lavoro. Come si accorderanno su questo terreno il partito del Jobs Act e quello che propone lo smantellamento del Jobs Act?
La cosa più probabile è – per fortuna – che la riforma del 2015 non venga ulteriormente manomessa. E che invece si determini una forte convergenza sulla riduzione del cuneo fiscale e previdenziale sulle buste-paga.
D. Ma c’è anche il tema del salario orario minimo.
R. Qui apparentemente non ci sono divergenze insuperabili tra il disegno di legge Catalfo e i due del Pd, presentati da Laus e da Nannicini. Ma per fare questa riforma è indispensabile un passaggio che per entrambi i partiti è un rospo difficilissimo da ingoiare.

D. Quale?
R. Quello degli enormi squilibri regionali, i quali fanno sì che uno standard retributivo minimo fissato in termini nominali, quale che ne sia il livello, sarà inevitabilmente troppo alto per il Sud, o troppo basso per il Nord. Il rospo che – temo – né Pd né M5S vorranno ingoiare è l’introduzione di un coefficiente che adegui lo standard almeno in relazione alle differenze di costo della vita [7], cioè di potere di acquisto della moneta, tra regione e regione. Che, paradossalmente, sarebbe una misura gradita alla Lega…

D. Il reddito di cittadinanza va preservato?
R. Il reddito di cittadinanza non è altro che un rafforzamento e ampliamento del Reddito di Inclusione, misura la cui paternità è interamente del Pd. Alcune cose di questa riforma meritano certamente una messa a punto, ma i due partiti non avranno, credo, difficoltà ad accordarsi in proposito.

D. Poi c’è il tema delle pensioni, con “quota 100”.
Qui non vedo all’orizzonte la possibilità di attriti tra i due partiti della nuova maggioranza. Contrariamente a quanto sbandierato da Salvini, “quota 100” non è affatto una contro-riforma pensionistica, ma soltanto una deroga temporanea alle regole della riforma Fornero [8], destinata a durare soltanto per tre anni. Per nostra fortuna, dunque, gli effetti gravemente negativi di questa misura sul nostro bilancio sono destinati a essere rapidamente riassorbiti. Basterà che le forze politiche della nuova maggioranza non mettano le mani su questa materia, perché le cose si rimettano a posto da sole.

D. Già, ma a teorizzare la necessità di “superare la riforma Fornero” ci sono anche Cesare Damiano e tutta LeU.
R. Cesare Damiano e LeU devono ancora spiegare agli italiani che cosa ci sia “di sinistra” nel consentire ai sessantenni di oggi di andare in pensione prima a spese dei loro figli e nipoti, che in pensione rischiano di andarci a settant’anni o di non andarci del tutto. I 2400 miliardi di debito che abbiamo caricato sulle spalle delle nuove generazioni non sono abbastanza? Il problema, oggi, semmai, è di far fronte alla riduzione della popolazione, in ragione di 300.000 italiani in meno ogni anno, che vuol dire – se il trend non cambia – sei milioni in meno tra vent’anni. Basta molto meno di questa riduzione del 10 per cento della popolazione per mandare a gambe all’aria qualsiasi sistema pensionistico.

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