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GIUGNI: UN INTELLETTUALE SCOMODO PER TUTTI

DI FRONTE ALL’OPERA STRAORDINARIA DI QUESTO GRANDE INTELLETTUALE, INVECE DI CERCARE DI ARRUOLARLO NELLE PROPRIE FILE, CIASCUNO DI NOI FAREBBE MEGLIO A LASCIARSI METTERE IN DISCUSSIONE DALLE SUE IDEE

Dal resoconto stenografico della seduta pomeridiana del 6 ottobre 2009 (seduta n. 263 [1]) del Senato, dedicata alla commemorazione di Gino Giugni – Il testo dell’intervento è pubblicato anche dal sito lavoce.info [2] 

ICHINO (PD).  Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signor Presidente, oggi abbiamo letto e sentito le commemorazioni dedicate a Gino Giugni da molti esponenti del mondo politico e del mondo sindacale: per esempio dal ministro Brunetta sulle colonne di Libero, dai leader di Cgil Cisl e Uil durante la cerimonia funebre presso al sede del Cnel, e qui al Senato da diversi colleghi. Tutti tendono a sottolineare, della lezione di Giugni, la parte in cui trovano conferma delle proprie posizioni. Forse, di fronte all’opera straordinaria di questo grande intellettuale, faremmo invece meglio tutti, a cominciare dalla parte politica cui appartengo, a cercare con cura, nel suo pensiero, quello che mette in discussione le nostre rispettive posizioni, in materia di politica del lavoro e delle relazioni industriali.

     Il primo contributo decisivo che Gino Giugni, con Federico Mancini, ha dato alla maturazione del nostro diritto del lavoro e sindacale si colloca in un periodo nel quale, caduto il regime fascista e passata la bufera della guerra, l’Italia non si era ancora chiarita le idee sul come sostituire l’ordinamento corporativo. Furono Giugni e Mancini a voltar pagina rispetto all’assetto disegnato dall’articolo 39 della Costituzione, ancora essenzialmente fondato sull’idea ‑ legata alla cultura corporativa – della categoria professionale come entità definita dalla legge, alla quale il contratto collettivo avrebbe dovuto adattarsi: era quello che in linguaggio tecnico si chiama un regime di “inquadramento costitutivo”. Furono essi stessi i primi ad affermare invece con forza l’idea che è il contratto collettivo a venire prima della categoria; è il contratto collettivo che deve sovranamente determinare la categoria.
     Forse il ministro Brunetta dovrebbe riflettere più attentamente su questa lezione, prima di emanare un decreto legislativo come quello che egli si accinge a emanare, che in materia di contrattazione collettiva, nel settore pubblico, mira a ristabilire la primazia assoluta della categoria ‑ minuziosamente predefinita dalla legge ‑ rispetto al contratto, svuotando per questo aspetto le prerogative negoziali del management.
     Gino Giugni è convinto, e fin dagli anni ’50 e ’60 sostiene con forza, che non ha senso cercare il diritto sindacale nel diritto statuale scritto: non in un codice civile lontano ormai anni luce dalla realtà del sistema delle relazioni industriali, ma neppure nella norma costituzionale, in larga parte inattuata, comunque troppo vicina, nella concezione della contrattazione collettiva a quella corporativa. Ancor meno ha senso, secondo Giugni, sforzarsi di applicare a questa materia gli strumenti della vecchia dogmatica giuridica. Egli va pertanto alla ricerca del diritto sindacale (ma anche del diritto del rapporto individuale di lavoro) così come esso si invera nella contrattazione collettiva e nei rapporti che essa effettivamente istituisce e governa.
     Da questa visione del diritto del lavoro e del diritto sindacale dovremmo tutti noi legislatori, di centrodestra come di centrosinistra, trarre motivo di autocritica rispetto al modo ipertrofico, intrusivo, onnipervasivo, col quale siamo soliti legiferare in materia di lavoro, “legificando” i rapporti in ogni loro minimo aspetto, in ogni loro piega, e in questo modo comprimendo in misura abnorme ogni spazio non solo dell’autonomia individuale, ma anche dell’autonomia collettiva.
     Precursore nella consapevolezza che la prima fonte del diritto del lavoro e del diritto sindacale va cercata non nei codici, ma nel vivo e nel concreto delle relazioni industriali, Giugni però ha sempre avuto anche una percezione molto lucida dei limiti culturali del movimento sindacale italiano. Credo che le confederazioni sindacali maggiori farebbero bene, proprio in questo momento di commossa riflessione sulla lezione del grande giuslavorista, a meditare su quanto egli ha ripetutamente detto e scritto a questo proposito.
     In un’intervista [3] pubblicata nel 1992 dalla Rivista italiana di diritto del lavoro (che ora può leggersi anche nel libro “Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana” [4], Giuffrè, 2008) egli osserva che “il nostro è un sindacalismo non soltanto di impronta marcatamente conflittuale (e fin qui non ci trovo nulla di negativo, perché tutti i sindacalismi devono essere conflittuali), ma che non ha mai dimostrato una adeguata capacità di gestione delle ‘conquiste’  …  anche la rivendicazione e la susseguente (eventuale) conquista contrattuale assumono importanza non tanto per il loro contenuto intrinseco, quanto per la loro capacità di creare movimento, dunque per la loro suscettibilità di costituire strumento di lotta”. E Giugni prosegue, in quell’intervista: “Certo, anche le grandi riforme hanno contato, per il sindacato, in primo luogo in quanto strumento di mobilitazione. Poi, che funzionino o non funzionino affatto, o addirittura producano risultati opposti a quelli per i quali sono state rivendicate, questo importa poco; anzi: sarà occasione per invitare i lavoratori alla mobilitazione per rivendicare la riforma della riforma.” Per poi concludere (sono ancora parole dello stesso Giugni): “se c’è una speranza che il sindacalismo italiano superi la cultura del rivendicazionismo come puro strumento di agitazione, questa speranza non può che fondarsi su di un consolidamento dell’esperienza della contrattazione collettiva, anche a livello aziendale”.
     Con altrettanta lucidità Gino Giugni coglie, all’inizio degli anni Novanta, i segni dell’incipiente dualismo del mercato del lavoro e del tessuto produttivo: “La legge sui licenziamenti individuali [il riferimento, qui, è alla legge n. 108/1990]  […]  è un piccolo mostro, che realizza in modo modesto l’obiettivo di tutelare i lavoratori delle piccole imprese, ma tutto sommato aumenta la disparità di tutela tra questi e gli altri, rafforzando la tutela nelle imprese medio-grandi più di quanto sia stata rafforzata nelle piccole: che è un vero e proprio atto di ottusità legislativa. […] una riforma più sensata era semmai quella proposta da Mengoni nella relazione al Cnel del 1985, che limitava l’obbligo secco di reintegrazione ai casi di nullità del licenziamento per illiceità dei motivi, lasciando negli altri casi la facoltà di opzione per un congruo risarcimento ‑ mi stanno bene anche le venti mensilità ‑ al posto della reintegrazione” a ciascuna delle parti interessate.
     Il fatto di essere considerato il “padre” dello Statuto dei lavoratori non ha impedito a Gino Giugni di essere fra i primi a cogliere i segni del declino del mondo in cui lo Statuto era nato e a teorizzare la necessità di un adattamento ai tempi nuovi di tutto il diritto del lavoro, compresa la materia dei licenziamenti.
     A conclusione dell’intervista del 1992 Giugni si definisce “uno studioso prestato alla politica”. Per questo ha sempre detto tutto quello che pensava, in materia di diritto e politica del lavoro, senza preoccuparsi della parte o della lobby a cui questo o quello poteva contingentemente giovare; ed esponendosi così ai colpi dei terroristi assassini, che questa libertà temono come la peste. Una grande lezione per tutti i giuslavoristi; e non per loro soltanto. (Applausi dai Gruppi PD, IdV, UDC-SVP-Aut e PdL)