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UN LIBRO SUI MAGGIORI GIURISTI ITALIANI DEL LAVORO DEL ‘900

Godiamoci questi “medaglioni” che Umberto Romagnoli ci ripropone, anche se con qualche incongruenza tra loro, e con i graffi che essi contengono: tutto sommato, forse fanno bene anche alla salute di chi li riceve – Certamente fanno bene alla franchezza del dibattito e al buon umore dei lettori

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Recensione del libo di Umberto Romagnoli,
Giuristi del Lavoro del Novecento italiano – Profili, Ediesse, 2018, pubblicata sulla rivista Lavoro Diritti Europa nel dicembre 2019 – In argomento v. anche il libro Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana. Teorie e vicende dei giuslavoristi dalla Liberazione a oggi [1].
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[2]Accolgo volentieri l’invito del Direttore di Diritti, Lavoro, Europa a recensire il libro nel quale Umberto Romagnoli ha raccolto i propri scritti dell’ultimo trentennio dedicati ai giuslavoristi italiani maggiori del secolo scorso (Giuristi del Lavoro del Novecento italiano – Profili, Ediesse, 2018, pp. 334, € 18), convinto come sono della grande importanza – soprattutto per la generazione più recente di studiosi – della conoscenza dell’evoluzione del pensiero dei fondatori della nostra materia per la comprensione del diritto del lavoro di oggi.

Sono rari i libri di buona fattura che consentono di rivisitare la storia del pensiero teorico nella nostra branca del diritto, che è una delle più giovani. Torna dunque a maggior merito di U.R. l’aver arricchito questo non affollato scaffale delle nostre biblioteche con un libro di scrittura raffinata e straordinariamente ricco di contenuti interessanti, a tratti discutibili ma mai banali. Le sue pagine guidano il lettore alla conoscenza da vicino di una serie di personaggi-cardine della storia del nostro diritto del lavoro – e non soltanto del nostro –, dai pionieri Lodovico Barassi, Francesco Carnelutti, Giuseppe Messina ed Enrico Redenti, che nella prima metà del secolo scorso hanno tenuto a battesimo il “virgulto ribelle” nascente dal grande tronco del diritto civile, a quelli che hanno rifondato il diritto del rapporto individuale e il diritto sindacale dopo la caduta del regime corporativo: Francesco Santoro Passarelli, Luigi Mengoni, Federico Mancini, Gino Giugni, Giuseppe Pera, nonché Giorgio Ghezzi, col quale U.R. ha scritto e più volte aggiornato un noto manuale. L’ultima parte del libro è dedicata infine a quelli, della generazione che andò in cattedra negli anni ’80, cui un destino maligno troncò prematuramente la vita: Gaetano Vardaro, Massimo D’Antona, Marco Biagi, Mario Giovanni Garofalo e Massimo Roccella.

Con la sensibilità di oggi, l’elenco colpisce per la rigida uniformità di genere, che richiama le atmosfere rétro di certe assise vaticane. L’uniformità avrebbe potuto essere rotta coll’aggiungere a queste quindici la figura di Luisa Riva Sanseverino, che nella nostra accademia svolse un ruolo importante, e non sufficientemente studiato, nella non facile transizione dal ventennio corporativo alla nuova stagione segnata dalla Costituzione repubblicana: stagione della quale è stata tra i maggiori protagonisti negli anni ’50 e ’60. Forse ciò che U.R. le rimprovera è proprio il fatto che la sua sia stata una delle pochissime cattedre di diritto corporativo istituite in quel ventennio e sopravvissute al cambio di regime; ma si può obiettare che proprio questo fa di Luisa Riva Sanseverino una figura molto importante nella storia della materia e fa dei suoi libri e saggi una fonte preziosissima per la comprensione di quel che è accaduto nel passaggio senza soluzione di continuità dall’ordinamento corporativo a quello post-corporativo.

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Di ciascuno dei quindici giuslavoristi considerati l’Autore individua con acume la peculiarità del contributo dato al progresso del settore, senza mai cadere nella stucchevole laude rituale cui tende il precetto de mortuis nihil nisi bene. Al contrario, in alcuni casi la penna del professore bolognese riesce a essere anche graffiante, quando non feroce, come in molti passaggi dello scritto che apre la serie, dedicato a svalutare drasticamente il contributo dato alla nostra materia da colui che ne è considerato il primo teorico, Lodovico Barassi (in un saggio successivo la vis polemica si spinge a qualificarlo come un “borghese piccolo piccolo”: p. 130); altrove riesce a essere spericolatamente irridente, come nel passaggio nel quale svaluta Giuseppe Pera indicandolo come “il giurista della Lucchesia” e accusandolo di “semplicismo culturale” per aver egli preteso di risolvere “anche l’antagonismo tra le classi in una manifestazione particolare dell’insopprimibile contrasto tra gli egoismi degli uomini: homo homini lupus” (pp. 213 e 214).

Insomma: questo è un libro che, pur parlando di diritto, non rischia di annoiare il lettore, che sia o no addetto ai lavori. Lo si legge piacevolmente anche per la nota brillantezza della scrittura di U.R.: elegante e sempre ricca di metafore e allusioni. Talvolta anche troppo, al punto da produrre un certo straniamento nel lettore rispetto al tema trattato, costringendolo a tornare indietro per decifrare l’intreccio dei significati evocati.

Nella premessa al volume lo stesso Autore precisa, a proposito del trentennio durante il quale gli scritti qui riproposti hanno via via visto la luce: “non sono mica sicuro che li riscriverei tutti tali e quali” (p. 16). Con ciò avvertendo onestamente il lettore anche di alcuni attriti o non perfette congruenze che possono rilevarsi tra singoli passaggi di scritti lontani tra loro molti anni. Ma più che da queste veniali incoerenze – rilevabili nelle opere di qualsiasi studioso, che si siano accumulate nell’arco di diversi decenni – l’attenzione del lettore attento ed esperto della materia è attirata invece da una sorta di “giallo” concettuale che nel libro non trova la soluzione.

Ho già accennato alla stroncatura impietosa che U.R. propone dell’opera di Lodovico Barassi, reo di aver fondato la prima costruzione sistematica del nascente diritto del lavoro sull’istituto civilistico del contratto, ovvero di un atto di autonomia negoziale privata individuale, a questo addirittura osando intitolare la propria opera maggiore, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano (Milano, prima ed. 1901, seconda ed. 1915-1917): è il contratto bollato da Marx come “la foglia di fico che nasconde la vergogna della dittatura del padrone sull’operaio”. La svalutazione radicale dell’opera di Barassi non può stupire, essendo compiuta dall’Autore che tra i giuslavoristi della generazione postbellica, pur appartenendo alla stessa scuola accademica di Federico Mancini, fu il primo a teorizzare esplicitamente, fin dalla metà degli anni ’60, la natura non contrattuale del rapporto di lavoro (La prestazione di lavoro nel contratto di società, Milano, 1967), sostenendo la diretta ricollegabilità della disciplina applicabile al rapporto stesso al mero fatto della “doppia alienazione” del prodotto e dei mezzi di produzione, e non alla struttura della prestazione lavorativa voluta dalle parti col contratto. Il lettore si attenderebbe però che analoghi strali U.R. riservasse a Francesco Santoro Passarelli e a Luigi Mengoni, negli scritti rispettivamente a loro dedicati, dal momento che furono proprio questi due, dopo la caduta dell’ordinamento corporativo e con esso dell’a-contrattualismo di ispirazione germanica, gli autori principali della ricostruzione del diritto del lavoro post-bellico in chiave schiettamente contrattualista e nell’alveo dei principi generali del diritto civile dei contratti. Ma dare dei “borghesi piccoli piccoli” pure a Francesco Santoro Passarelli e a Luigi Mengoni è un po’ troppo anche per la penna graffiante e irriverente di U.R.: i due vengono dunque salvati dall’obbrobrio, coll’osservare che entrambi ricostruiscono il diritto del lavoro “in chiave pluralistica”, cioè “valorizzando i corpi intermedi”, ovvero il sindacato, e legittimando il conflitto collettivo, rivendicando da buoni cattolici “la centralità delle esigenze della persona” (pp. 130-131). Non è, però, circostanza di secondo piano il fatto che, tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50, essi lavorino su un materiale legislativo nuovo di zecca che mancava del tutto al Barassi dei primi del secolo: nientemeno che la Costituzione della Repubblica “fondata sul lavoro”, nata dalla convergenza tra le due grandi correnti di pensiero più fortemente venate di una ispirazione sociale, quella cattolica e quella comunista. Anche il Barassi della terza edizione de Il contratto di lavoro, quella del 1949, dà conto di un diritto del lavoro costituzionalizzato, posto prioritariamente a tutela della persona che lavora, e nel quale c’è ampio spazio per un sindacato libero e per il conflitto; ma U.R. non considera questa parte della sua opera, o comunque non ne è indotto a revocare la squalifica radicale inflittagli, per il suo peccato originale di aver preteso di costruire il diritto del lavoro sulla disciplina civilistica del contratto.

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Luigi Mengoni

La realtà è che il contributo per il quale Francesco Santoro Passarelli e Luigi Mengoni sono ricordati come due pilastri della cultura giuslavoristica post-bellica non è tanto il riconoscimento del ruolo dei corpi intermedi e del conflitto, quanto il rigore, la coerenza e la sapienza giuridica con cui hanno ripreso quella stessa costruzione del diritto del lavoro come branca del diritto civile, della quale Barassi, con materiali necessariamente molto più poveri, aveva gettato le fondamenta mezzo secolo prima. Proprio loro furono, nella nuova stagione, i primi alfieri di quella corrente contrattualista che alla metà degli anni ’50 prese nettamente il sopravvento sulla corrente a-contrattualista di matrice corporativa e di ispirazione germanica ([1] [5]).

A quello scontro e al suo esito U.R. non fa alcun cenno. Ciò non può essergli rimproverato, perché questo suo libro non ha alcuna pretesa di costituire una trattazione organica di storia del pensiero giuslavoristico, bensì soltanto una raccolta di scritti, ciascuno dedicato a uno dei protagonisti. Resta però, vistosa e non spiegata dall’A., l’incongruenza del trattamento riservato a Lodovico Barassi con quello riservato a chi nella nuova stagione ha proseguito sulla strada da lui aperta all’inizio del Novecento.

[6]In qualche misura il problema si ripropone nello scritto dedicato a Federico Mancini – nella foto qui a sinistra -, che nella nuova stagione fu il primo giuslavorista “puro” (Santoro Passarelli e Mengoni “nascevano” come civilisti) a battersi apertamente per la concezione contrattualista del rapporto di lavoro (La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957). Qui si apre un altro interrogativo, sul quale sarebbe interessante che U.R. offrisse qualche informazione di prima mano: vicinissimo a Mancini, per la comune appartenenza alla scuola bolognese, legato a lui da una stretta amicizia personale e anche dalla partecipazione comune a un’impresa politico-culturale di notevolissimo rilievo quale fu il commentario bolognese dello Statuto dei Lavoratori edito da Zanichelli, come si è detto U.R. si colloca però, rispetto allo spartiacque contrattualismo/a-contrattualismo, su un versante dottrinale opposto a quello di Mancini. Sarebbe interessante avere da lui qualche notizia diretta intorno alle discussioni su questo punto con F.M. e più in generale in seno al quartetto degli Autori di quel commentario. Oggi si tende a sminuire la portata della contrapposizione tra le due correnti dottrinali: si tende a pensare che l’avvento dello Statuto dei Lavoratori, con la sua ventata di profonda innovazione, abbia finito col mettere d’accordo tutti gli appartenenti all’ala sinistra dell’accademia giuslavoristica, quale che fosse la loro “fede” riguardo al discrimine dominante nel ventennio precedente; ma per convincersi che quel discrimine aveva conservato gran parte del suo rilievo basti pensare al peso dominante che negli anni ’70 e poi per buona parte degli anni ’80 ebbe la nuova corrente a-contrattualista inaugurata da U.R. con la sua monografia già citata del 1967, cui negli anni ’70 aderirono Luigi Mariucci, Oronzo Mazzotta, Fabio Mazziotti e numerosi altri. Ancora negli anni ’80, del resto, la costruzione della subordinazione come effetto diretto di un dato di fatto (la c.d. “doppia alienazione”) veniva diffusamente contrapposta alla tesi secondo cui la qualificazione del rapporto va operata sulla base della struttura della prestazione effettivamente voluta dalle parti nel contratto: tesi che solo intorno alla metà di quel decennio prevalse nettamente nella giurisprudenza della Corte di Cassazione.

La contrapposizione non era del tutto superata neppure all’inizio di questo secolo XXI. Se mi è consentito un ricordo personale in proposito, quando chiesi a Luigi Mengoni il permesso di intitolare al “contratto di lavoro” la parte lavoristica del Trattato di diritto civile e commerciale Cicu-Messineo, che mi aveva affidato, lui mi disse: “Come lei immaginerà, la cosa a me non può che far piacere; ma dispiacerà a molti altri, a cominciare da Romagnoli, che nel suo manuale non nomina neppure il contratto”. Così stando le cose, colpisce che nessun cenno a questo tema cruciale compaia neppure nello scritto di U.R. dedicato nel 2003 a Federico Mancini.

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Gino Giugni e Giuseppe Pera giovanissimi

Due ultimi rilievi, per dovere di completezza della recensione. Nello scritto dedicato a Giorgio Ghezzi, dove si ricorda l’assunzione da parte sua della difesa dei 61 licenziati della Fiat nel 1979, U.R. imputa all’azienda torinese di avere voluto, con una motivazione del recesso “intenzionalmente ambigua”, accreditare nell’opinione pubblica “l’impressione che fossero tutti terroristi”. Non dice, però, che dopo il processo quasi tutti i licenziati scomparvero nella clandestinità: il che induce a pensare – soprattutto in considerazione di quanto accadeva in quegli anni di piombo – che la motivazione addotta dall’impresa a sostegno del licenziamento fosse sostanzialmente molto fondata. Colpisce, poi, a questo proposito, che l’A. non menzioni né nel saggio dedicato a Giuseppe Pera, né nelle sue note biografiche finali, il ruolo che, in quello stesso procedimento davanti al Giudice del Lavoro, questi svolse nel collegio di difesa della datrice di lavoro: ruolo che in quegli anni non veniva protetto da scorte e richiedeva anche coraggio fisico. A dispetto di quanto lo stesso Pera soleva dire di sé stesso: “sono e sono sempre stato un coniglio”.

[8]In un passaggio dello scritto dedicato a Marco Biagi – nella foto qui a sinistra -, infine, U.R. sembra cedere al vezzo diffuso in seno alla sinistra politica sindacale e accademica di cercare di separare il più possibile il giuslavorista vittima delle Brigate Rosse dalla legge scritta di suo pugno e varata dal Governo e dal Parlamento l’anno successivo, evitando di chiamarla col suo nome: quel frutto ultimo del lavoro del giuslavorista assassinato viene declassato ad “avan-progetto di un testo legislativo che conserverà per chissà quanto tempo le caratteristiche di un work in progress” (p. 280). Oggi tutti sanno che i testi sia della legge delega n. 30/2003, sia del decreto delegato dello stesso anno n. 276, sono per almeno nove decimi tratti parola per parola dal draft che, per incarico del ministro del Lavoro Maroni, era stato predisposto da Marco Biagi. La speranza, dunque, è che tra le cose di cui U.R. “non è mica sicuro che le riscriverebbe tutte tali e quali” ci sia anche questa, risalente al 2005.

Questi ultimi rilievi critici puntuali che mi sono permesso di muovere al libro di U.R. non bastano certo per appannare il giudizio complessivo su di esso, espresso all’inizio di questa recensione non per rituale omaggio all’Autore, bensì con piena convinzione: il volume, che si legge con grande piacere e profitto, è di quelli che non dovrebbero mancare nella biblioteca di nessun giuslavorista degno di questo nome. E Umberto Romagnoli è oggi uno dei pochissimi che può farci un dono prezioso come questo.

Godiamoci dunque i “medaglioni” che Umberto Romagnoli ci ripropone, anche se con qualche incongruenza tra loro, e con i graffi che essi contengono: tutto sommato, forse fanno bene anche alla salute di chi li riceve. Certamente fanno bene alla franchezza del dibattito e al buon umore dei lettori.

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[1] Di questa vicenda, che si concretò nel primo congresso della neonata associazione dei giuslavoristi italiani, svoltosi a Taormina nell’aprile 1954, nonché nel convegno promosso a Torino nel novembre dello stesso anno dall’ala a-contrattualista e “istituzionista”, do conto nel primo capitolo de Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana. Teorie e vicende dei giuslavoristi dalla Liberazione al nuovo secolo, Milano, 2008, pp. 22-47. In questo stesso libro sono raccolte le cinque interviste – rispettivamente a Luigi Mengoni, Federico Mancini, Gino Giugni, Renato Scognamiglio e Giuseppe Pera –, delle cui frequentissime citazioni, anche se tutte tranne una prive dell’indicazione della fonte, sono molto onorato e grato a Umberto Romagnoli.

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