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LA LIBERTÀ DELLA RICERCA E LA NECESSITÀ DELLA VALUTAZIONE

L’articolo 33 della Costituzione, se fosse stato in vigore nel ‘600, avrebbe protetto Galileo contro l’Inquisizione che gli vietava di studiare il moto dei pianeti intorno al Sole, ma non lo avrebbe protetto contro un rifiuto del Papa di finanziare quegli studi


Botta e risposta tra
Giuseppe Mingione, professore di analisi matematica presso l’Università di Parma e Andrea Ichino [1], professore di Economia del Lavoro presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, innescato dall’articolo di quest’ultimo sul quotidiano Il Foglio del 19 febbraio, Perché la rivolta dei ricercatori contro la valutazione è sbagliata [2]: ivi il primo di una catena di link ad altri suoi interventi precedenti sullo stesso tema

 

[3]

Il professor Giuseppe Mingione

GIUSEPPE MINGIONE SU WWW.ROARS.IT [4]

L’articolo di Andrea Ichino, apparso sul Foglio il 19 febbraio scorso [2], suscita non poche perplessità e, a tratti, rammaricato stupore. Il punto più discutibile del contributo di Ichino riguarda una sua concezione, secondo la quale professori e ricercatori non dovrebbero essere liberi di fare ricerca su quello che interessa “solo a loro”, ma dovrebbero invece condurre le loro ricerche su tematiche che interessano alla gente, perché è la gente che paga i loro stipendi con le tasse. Questo argomento, che proposto al lettore medio in questi termini è ovviamente semplicistico, è però abbastanza populista da trovare periodicamente considerazione, e persino approvazione, presso certi pubblici a volte distrattamente liberisti, per usare una semplificazione terminologica.

Questo argomento, in realtà, è confutato da qualche secolo di ricerca scientifica. Non si contano infatti i casi in cui importanti innovazioni, con conseguenze decisive sulla vita quotidiana, sono avvenute casualmente per serendipity, o per collegamenti inaspettati tra campi distanti e a prima vista solo teorici, spesso generati dalle strambe curiosità di qualche singolo. D’altra parte, la locuzione curiosity-driven research non è stata coniata a caso, e descrive quella ricerca di base che ai docenti è dato diritto/dovere di compiere seguendo le loro inclinazioni e curiosità intellettuali. L’impresa scientifica ha sempre funzionato su questo patto fiduciario e, bisogna ammetterlo, con un certo successo. Dal punto di vista storico poi, la ricerca ha sempre preso le mosse da problemi di interesse quotidiano. Ma è stato solo il dipartire da essi, con la costruzione di edifici teorici astratti e apparentemente poco concreti, che ha permesso di scoprire approcci diversi e più potenti, e di tornare ai problemi originali con una maggiore ricchezza di idee e di strumenti concettuali, e infine di affrontarli con successo. L’importanza di questo processo, complesso e stratificato, e quindi non riassumibile in un ciclo di valutazione burocratica e ministeriale di pochi anni, ci viene tristemente confermata proprio in questi giorni.

Nell’ultimo mese e mezzo abbiamo assistito a una esplosione di instant paper dedicati ai coronavirus che erano invece stati precedentemente meno considerati. Come mai? Facile rispondere. Adesso, ma solo adesso, interessano all’uomo della strada. Peccato che ci si arrivi un po’ tardi. Se questi virus fossero stati studiati di più prima, anche solo per mera curiosità, oggi sapremmo come affrontarli meglio, li conosceremmo di più, e maggiore conoscenza genera, come noto, meno panico. Per ulteriori dettagli si veda anche l’ottimo articolo di Luca Carra e Sergio Cima pubblicato su Scienzainrete il 21 febbraio scorso. E’ buona pratica, insomma, esplorare le direzioni suggerite dalla curiosità personale, anche se apparentemente lontane dalle applicazioni concrete. Dinanzi a una realtà più vasta e ricca di sorprese di quello che possiamo immaginare, è nostro dovere non essere arroganti, cioè non credere di sapere a priori cosa interessi davvero o meno.

Andrea Ichino pare vedere con preoccupazione un ritorno al principio costituzionale secondo cui “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. A dire il vero, non risulta che questo principio sia mai stato abrogato. In termini più o meno simili, esso vale in tutti i paesi dotati di un sistema universitario degno di questo nome, a partire dagli Stati Uniti, dove i fondi di ricerca sono assegnati dalla National Science Foundation previa valutazione fatta da panel di studiosi, non di studenti. L’improbabile eliminazione del suddetto principio di libertà – quello sì – segnerebbe l’uscita dell’Italia dalla comunità scientifica internazionale. Comunità nella quale la ricerca italiana è, nonostante sottofinanziamenti e baronie, molto ben collocata secondo ogni rilevazione basata su dati freddi piuttosto che su aneddoti social o di settore.

Sulla bibliometria. Si tratta probabilmente dell’unico modo di effettuare valutazioni massive di strutture, dove lo strumento sia disponibile. Permette di prevenire disomogeneità di criteri e casualità di giudizio. Nella prossima valutazione il vincolo bibliometrico, in realtà, non ci sarà. Si lascerà spazio a scelte più soggettive di comitati i cui componenti saranno per di più selezionati essenzialmente tramite sorteggio, e non per il peso del loro curriculum. Ne uscirà a mio parere un’altra valutazione dai tratti discutibili. Nell’ultima valutazione, la bibliometria era stata usata, vero, ma su un arco temporale troppo ristretto. Le pubblicazioni di maggiore importanza risultano quasi sempre le più citate, ma solo dopo un certo numero di anni, necessario alla comunità per assorbirne il contenuto. Gli standard internazionali considerano di solito una decina di anni, non tre o quattro; non si capisce perché in Italia non siano stati seguiti. Personalmente, non ho mai dato troppo peso scientifico alle passate valutazioni, ma non sono il solo.

L’idea iniziale della valutazione della ricerca, era buona. Fatti i primi passi, si è andati molto, troppo oltre, in un tumultuoso crescendo di valutazioni secondarie, di regole e parametri, di lacci e lacciuoli. L’università italiana si ritrova quindi preda di una burocrazia asfissiante e autoriproduttiva, che pretende di regolare ogni singolo attimo della vita professionale di chi ci lavora. Produrre carte, e poi “metterle a posto”, sembra essere la nuova mission. Chi per passione ha scelto di fare ricerca ha bisogno di tempo per pensare, per immaginare, per creare, con libertà e fantasia, anche e soprattutto nelle discipline scientifiche. Attualmente questo tempo viene spesso impiegato a riempire schede e questionari kafkiani, di non si sa quale valore scientifico o evidenza empirica, in uno scenario di incentivi che non avvantaggiano le persone di talento, ma quelle maggiormente versate nella burocrazia creativa. Scomodiamo Giuseppe Verdi: “Torniamo all’antico, sarà un progresso”.

 

[5]LA REPLICA DI ANDREA ICHINO

Leggendo la risposta di Giuseppe Mingione mio articolo sul Foglio del 19 febbraio [2] scorso mi viene il dubbio di non essere riuscito a spiegare chiaramente il mio pensiero. È ovvio che i ricercatori debbano essere liberi di far ricerca sui temi che preferiscono (purché non violino princìpi etici).  E concordo pienamente sul fatto che proprio questa libertà a 360 gradi abbia spesso consentito scoperte scientifiche fondamentali, a volte in modo addirittura casuale.

Se però il ricercatore ha bisogno di fondi di ricerca, non può stupirsi quando chi glieli fornisce vuol sapere se li sta spendendo bene o male. È lo stesso Mingione a citare l’esempio della National Science Foundation negli USA, che non regala fondi a chiunque li chieda e sottopone invece l’erogazione delle risorse ad una attenta valutazione basata anche su revisori anonimi.

Quanto alla Costituzione italiana, l’art. 33, se fosse stato in vigore nel ‘600, avrebbe protetto Galileo contro l’Inquisizione che gli vietava di studiare il moto dei pianeti intorno al Sole, ma non lo avrebbe protetto contro un rifiuto del Papa di finanziare le sue ricerche. I padri costituenti volevano ovviamente impedire il ritorno della censura fascista, ma nulla lascia supporre che essi volessero anche garantire ai ricercatori un finanziamento a piè di lista senza alcuna valutazione del loro operato. Non dimentichiamoci che nell’accademia italiana c’è chi di ricerca proprio non ne fa, né buona né cattiva, e perfino chi l’insegnamento lo lascia fare ai suoi assistenti, pur tenendo per sé l’intero stipendio.

Se siamo d’accordo su questi due punti (ossia (a) i ricercatori sono liberi ma (b) chi li finanzia è altrettanto libero di chiedere conto di quel che i ricercatori fanno con i fondi ricevuti) il problema, come già scrivevo nell’articolo del 19 febbraio, non è se valutare ma come valutare.

Detto questo, concordo pienamente con chi critica l’Anvur e il Miur per l’assurda macchinosità delle procedure e dei vincoli “kafkiani” imposti ai ricercatori nel nostro Paese. Quindi, sia io che Mingione riteniamo che l’attuale sistema di valutazione italiano abbia troppi difetti. Non capisco però se dissentiamo nelle conclusioni da trarre in base a questo giudizio. Per me è il segnale che dobbiamo metterci urgentemente a lavorare per migliorare l’Anvur, oppure per passare ad un sistema come quello USA, consci del fatto che nessun metodo di valutazione è perfetto. Per Mingione, invece, mi sembra (ma spero di sbagliarmi) che l’unica soluzione sia fare una completa marcia indietro come se la sola alternativa fosse tra l’attuale sistema Anvur e l’assenza di una qualsiasi valutazione. Francamente non vedo perché così debba essere. Tornare a un mondo in cui ricercatori possono anche non fare nulla a spese degli altri non sarebbe certamente un progresso. Siamo d’accordo su questo?