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IL “CHILOMETRO ZERO” E LA COMMUNITY SUPPORTED AGRICOLTURE

Le osservazioni critiche circa la ripetibilità dell’esperienza dell’azienda agricola bolognese e la risposta di Arvaia: quello cui apparteniamo è un modello diffuso nel mondo: si chiama CSA-Community Supported Agricolture

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Lettera di Gianmario Nava pervenuta il 22 aprile 2020, in riferimento a quella del 15 precedente di Andrea Guadagni [1] – Segue la risposta di quest’ultimo
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[2]Gentile Professore, ho letto la sua risposta a Andrea Guadagni che propone l’esperienza della cooperativa agricola “suburbana” nella quale lavora la figlia.

Devo dire che se non si rimettono i piedi per terra si continuerà una sorta di disputa ideologica dalla quale non vedo come possa uscire qualcosa di buono, tanto meno nel senso delle intenzioni del lettore e della figlia che non mi sono affatto estranee.

Non ha senso dire che la cooperativa è “indipendente dalle leggi di mercato”. La prima legge di mercato è che non si può produrre in perdita, la seconda è che si devono trovare clienti disposti a pagare un prezzo remunerativo per i prodotti, la terza è che le rendite di posizione ci sono e sono inevitabili salvo mitigarne gli effetti.

Ora la cooperativa si avvale di tutte e tre queste regole, sono bravi ed hanno fidelizzato i clienti al punto di farli partecipare al rischio di impresa e di fargli pagare gli eventuali extracosti del loro particolare modo di produrre. In più possono sfruttare la posizione dei loro terreni, pregiati in quanto vicino ad una città e magari irrigui e di buona qualità agronomica; condizioni queste che non tutti i terreni agricoli – ed anzi una minoranza – possono vantare in Italia e nel mondo. Il loro è un buon modo di lavorare, hanno buoni prodotti, buoni clienti, buoni terreni.

Altri devono trovare soluzioni diverse per terreni diversi e colture diverse, non sono soluzioni migliori in assoluto e sopratutto non sono peggiori solo perchè non corrispondono alla soluzione trovata dalla cooperativa nelle sue particolari condizioni e che vive anche perchè è vicina ad una città pienamente inserita nel mondo globale.

L’ecologia ci insegna che tutte le nicchie ecologiche possono essere e di fatto sono occupate, l’economia dice la stessa cosa delle nicchie economiche ma le regole ecologiche o economiche di mercato sono uguali per tutti i soggetti all’interno dell’ecosistema.

Sogno il momento nel quale si arriverà ad avere una visione più realistica (olistica?) della realtà. Cordialità

Gianmario Nava

[3]LA RISPOSTA DI ANDREA GUADAGNI

Caro Gianmario, Pietro Ichino mi ha fatto conoscere la sua mail e mi ha invitato a rispondere. Parliamo dunque, più esattamente, di agricoltura supportata dalla comunità (CSA – Community Supported Agriculture). Arvaia è infatti parte di un modello, diffuso in tutto il mondo.

Conoscendo Arvaia le posso assicurare che occorrono i piedi ben piantati per terra per far crescere circa 560 quintali di ortaggi e verdure biologici, tutti naturalmente stagionali, con 50 tipi diversi di ortaggi, distribuiti a 200 famiglie (soci fruitori), per 49 settimane l’anno. Gli agricoltori (soci lavoratori), fra cui mia figlia, sono in cinque.

Neanche a loro piace l’etichetta “km zero” perché è stata variamente svilita come giustamente anche lei e Ichino avete fatto notare. Ma nel caso di Arvaia questa notazione ha senso.

Lei ha accennato al senso e alla ripetibilità dell’esperienza di Arvaia. Questo discorso è piuttosto ampio e andrebbe sviluppato con calma. Le cose non sono così semplici come lei accenna. Però quando nella mail di Arvaia si diceva “indipendente dalle leggi di mercato” si voleva sottolineare che la formula economica e produttiva della cooperativa agricola è effettivamente innovativa. Perché a fronte di un “abbonamento” annuale e a una collaborazione ad alcune fasi produttive come la raccolta delle fragole, i soci ricevono per tutto l’anno ortaggi buonissimi e sani. Mentre gli agricoltori hanno la sicurezza di poter coprire tutte le spese, compresi i propri (modesti) stipendi. Certamente la vicinanza a Bologna è un vantaggio perché è una città aperta a questo tipo di iniziative, ma il Comune – proprietario dei terreni – non fa sconti. Arvaia paga un affitto che è circa il doppio del prezzo, appunto, “di mercato”. E il fatto di dover irrigare con l’acqua potabile e cara dell’acquedotto è un’assurdità causata da lentezze burocratiche e vincoli pregressi che non si riescono a superare.

Quello che lei dice “Sogno il momento nel quale si arriverà ad avere una visione più realistica (olistica?) della realtà” è anche quello che sognano i soci di Arvaia. Certamente con la loro attività – e quella di tutte le CSA – viene fatto un passo in quella direzione. Cordialmente,

Andrea Guadagni

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