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I 50 ANNI DELLO STATUTO DEI LAVORATORI: FACCIA A FACCIA BAVARO/ICHINO

Un confronto non diplomatico sui meriti e i demeriti della legge n. 300/1970: i diritti fondamentali della persona in fabbrica, la forzatura parlamentare sull’articolo 18, la questione della rappresentatività dei sindacati, le vere ragioni dell’astensione Pci, il monopolio del collocamento rafforzato e i servizi al mercato del lavoro dimenticati

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Faccia a faccia tra il prof. Vincenzo Bavaro, professore di diritto del lavoro nell’Università di Bari, e Pietro Ichino, a cura di Antonio Carioti, pubblicato sull’inserto
La Lettura del Corriere della Sera il 16 maggio 2020, nel cinquantesimo anniversario dello Statuto dei Lavoratori, 19 maggio 2020 – In argomento v. anche l’editoriale pubblicato da il Foglio il 1° maggio, L’intelligenza del lavoro [1], e i Tre colloqui sulla storia del diritto del lavoro [2] promossi da Adapt tra fine marzo e metà aprile – V. inoltre gli interventi svolti in Senato da Paolo Nerozzi, Tiziano Treu, Pietro Ichino. Maurizio Castro e Maurizio Sacconi [3], allora ministro del Lavoro, in occasione del quarantesimo anniversario dello stesso Statuto, il 20 maggio 2010.
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A cinquant’anni dall’approvazione dello statuto dei lavoratori, la legge 300 del 20 maggio 1970, rievochiamo quella svolta ed esaminiamo gli attuali problemi dei rapporti tra aziende e dipendenti con due studiosi di opinioni diverse: Vincenzo Bavaro, membro della Consulta Giuridica della Cgil, e Pietro Ichino, ex parlamentare del Pd e di Scelta Civica.

Che cosa significò, mezzo secolo fa, l’entrata in vigore della legge?

[4]VINCENZO BAVARO – Lo statuto dei lavoratori viene subito dopo l’autunno caldo del 1969, stagione d’intense lotte sindacali, e ne raccoglie le principali istanze. Da una parte stabilisce tutele individuali: garantisce l’esercizio delle libertà di opinione in fabbrica, limita rigorosamente le perquisizioni, vieta le schedature dei dipendenti, fino allora usuali in molte aziende, vieta atti discriminatori, rafforza le garanzie contro i licenziamenti immotivati con l’art. 18 e la tutela reintegratoria. Dall’altra sostiene questi diritti promuovendo l’attività sindacale in ogni luogo di lavoro, tenuto conto che in precedenza essa aveva incontrato ostacoli di ogni tipo dove non prevista da contratti collettivi.

[5]PIETRO ICHINO – Lo statuto, a dispetto di alcune critiche, era una legge molto ben scritta: a differenza  di quelle attuali, esemplare per semplicità e chiarezza. Il testo, stampato in milioni di copie, potè essere letto e capito da tutti, anche dai meno istruiti. Questo consentì di cambiare la cultura del lavoro nel Paese, rendendo dovunque effettivi diritti fino allora tenuti fuori dalle fabbriche. Oltre al recepimento delle norme contrattuali di sostegno al sindacato nei luoghi di lavoro, cui ha già accennato Vincenzo Bavaro, venne riconosciuto il «diritto alla riservatezza» – la privacy anglosassone – del lavoratore, espressione che venne usata qui, in questo significato tecnico, per la prima volta nella legislazione italiana. Infine, con l’articolo 18, venne introdotta una disciplina della stabilità ispirata al regime della job property tipico del pubblico impiego: la reintegrazione del dipendente licenziato con una motivazione, sul piano disciplinare o economico-organizzativo, ritenuta dal giudice insufficiente. Si tratta dell’aspetto dello Statuto a mio avviso più discutibile, che infatti è stato ultimamente oggetto di incisive modifiche.

Per quale ragione?

PIETRO ICHINO – Il disegno di legge governativo, elaborato da Gino Giugni, limitava la reintegrazione ai casi di licenziamento discriminatorio o per rappresaglia antisindacale, mentre prevedeva un indennizzo rafforzato per gli altri casi di irregolarità. Senonché un emendamento del Pci estese la possibilità della reintegrazione a questi altri casi, rendendo così il giudice del lavoro arbitro finale delle scelte di gestione aziendale: norma sbagliata, perché in un’aula giudiziale non si può valutare la previsione dell’imprenditore su ciò che porterà o non porterà un guadagno o una perdita. In positivo, invece, va aggiunto che lo Statuto conteneva in nuce, nell’articolo 28, una riforma del processo del lavoro, che venne poi  portata a compimento nel 1973 assicurando tempi rapidi alle cause del lavoro e conferendo ai magistrati gli strumenti necessari per rendere effettivi i diritti garantiti dallo statuto stesso: questa avrebbe meritato di essere assunta come modello per una riforma generale del processo civile.

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L’Unità del 15 maggio 1970

Perché il Pci nel 1970 si astenne nella votazione finale sullo statuto dei lavoratori, anche se il suo emendamento sui licenziamenti era passato?

VINCENZO BAVARO – Dalle ricerche storiche emerge che la ragione principale della critica del Pci riguardò la divaricazione tra le tutele garantite ai lavoratori di imprese con più di 15 dipendenti e il trattamento degli addetti di aziende escluse dall’applicazione dell’articolo 18: un argomento che mi pare ancor più valido oggi. Inoltre i comunisti avrebbero voluto un pieno riconoscimento del diritto di sciopero anche per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, il cui regime era allora diverso da quello del settore privato. Alcune perplessità furono sollevate per il fatto che le rappresentanze sindacali aziendali erano vincolate al collegamento organizzativo con i sindacati confederali (in particolare, Cgil, Cisl e Uil), incanalando così il movimento dei consigli di fabbrica verso una maggiore capacità organizzativa politico-sindacale.

E il nodo dell’articolo 18?

VINCENZO BAVARO – Va ricordato che il Pci aveva approvato la legge del 1966 che introduceva l’obbligo di giustificare il licenziamento, mentre avevano votato contro le destre e alcuni esponenti della Dc legati alla Cisl, secondo i quali si trattava di materia di pertinenza della contrattazione collettiva e non di legge. La scelta contenuta nello Statuto di allargare la tutela reintegratoria a tutte le ipotesi di licenziamento ingiustificato era figlia del principio sancito quattro anni prima. Che l’illegittimità derivasse da un atto discriminatorio o dall’insussistenza delle ragioni addotte sul piano organizzativo, per coerenza logica e politica richiedeva di essere sanzionata con il ripristino del rapporto interrotto abusivamente.

PIETRO ICHINO – La legge 604 del 1966 manteneva però distinto il licenziamento discriminatorio o per rappresaglia, considerato nullo, dal caso del difetto di motivazione, per il quale la sanzione prevista era un indennizzo. Quanto all’astensione del Pci sullo statuto, allora lavoravo alla Fiom-Cgil e ricordo bene come ci si arrivò. Il Pci era premuto da forze radicali, nate dal Sessantotto e dall’autunno caldo ma presenti anche nella Cgil, che imputavano alla nuova legge il disegno di ingabbiare le lotte operaie. [7] Nel partito Pietro Ingrao [nella foto qui a destra – n.d.r.] era in sintonia con queste pulsioni movimentiste, mentre Giorgio Amendola [nella foto sotto – n.d.r.] difendeva l’impianto fondato sulle sezioni sindacali aziendali, organi delle confederazioni nei luoghi di lavoro, e sulle commissioni interne. Nel 1972 le due anime del partito avrebbero finito col trovare un compromesso, quando i consigli di fabbrica eletti dai lavoratori furono riconosciuti come strutture di base del sindacato unitario abilitati alla contrattazione, inglobando però le vecchie commissioni interne, che rappresentavano la vecchia “aristocrazia operaia” e che non venivano azzerate. Sta di fatto che nel 1970, prima che si raggiungesse quel compromesso, le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) previste dallo [8] statuto dei lavoratori erano organi del sindacato, che trovavano la propria legittimazione nel rapporto con le strutture confederali, mentre il movimento dei consigli di fabbrica considerava decisiva solo l’investitura dei delegati dal basso: quando il guscio delle Rsa non era stato ancora riempito con i consigli dei delegati, e dunque tra la realtà del movimento e il contenuto della legge c’era ancora una notevole divaricazione, l’astensione in Parlamento del Pci serviva a mantenere aperto il dialogo tra l’anima amendoliana e quella ingraiana.

Si dice che statuto da un lato divise i lavoratori tra garantiti e non garantiti; dall’altro impose troppi vincoli alle imprese, intralciando lo sviluppo. Sono rilievi fondati?

VINCENZO BAVARO – Il primo rilievo è fondato, il secondo no. Le tutele dei diritti individuali di libertà valgono per tutti, ma l’articolo 18 e le norme di sostegno e promozione dell’attività sindacale si applicano solo nelle aziende medio-grandi, con più di 15 dipendenti. Riguardo all’aspetto sindacale, la differenza si poteva giustificare, in quanto regole del genere non si adattano bene alle piccole imprese, anche se spesso la contrattazione, oggi, le estende anche alle realtà di dimensioni ridotte. Ben più importante è la disparità in fatto di tutela dal licenziamento, che senza dubbio crea una separazione tra i lavoratori. Sulla questione si è pronunciata una sola volta, nel 1990, la Corte costituzionale giustificando il regime differenziato con le caratteristiche peculiari delle piccole aziende, quali la maggiore fragilità economica e il rapporto strettamente fiduciario vigente tra datore di lavoro e dipendenti. A me sembrano argomenti discutibili, ma il fatto che la divisione tra i lavoratori c’è sempre stata, fino ad ora, ci aiuta a capire perché non regge la seconda critica mossa allo statuto.

Per quale ragione?

VINCENZO BAVARO – Il primo rilievo è fondato, il secondo no. Le tutele dei diritti individuali di libertà valgono per tutti, ma l’articolo 18 e le norme di sostegno e promozione dell’attività sindacale si applicano solo nelle aziende medio-grandi, con più di 15 dipendenti. Riguardo all’aspetto sindacale, la differenza si poteva giustificare, in quanto regole del genere non si adattano bene alle piccole imprese, anche se spesso la contrattazione, oggi, le estende anche alle realtà di dimensioni ridotte. Ben più importante è la disparità in fatto di tutela dal licenziamento, che senza dubbio crea una separazione tra i lavoratori. Sulla questione si è pronunciata una sola volta, nel 1990, la Corte costituzionale giustificando il regime differenziato con le caratteristiche peculiari delle piccole aziende, quali la maggiore fragilità economica e il rapporto strettamente fiduciario vigente tra datore di lavoro e dipendenti. A me sembrano argomenti discutibili, ma il fatto che la divisione tra i lavoratori c’è sempre stata, fino ad ora, ci aiuta a capire perché non regge la seconda critica mossa allo statuto.

PIETRO ICHINO – La mia visione su questo punto è un po’ diversa. La soglia dei 15 dipendenti posta dallo statuto, che abbassava quella di 35 fissata dalla legge 604 del 1966, segnò il confine tra 5-6 milioni di addetti alle imprese medio-grandi, beneficiari del regime di job property che assumeva come modello il rapporto di pubblico impiego, e 4-5 milioni di lavoratori subordinati ai quali veniva accollata tutta la flessibilità di cui il sistema non poteva fare a meno. Secondo Vincenzo Bavaro e molti altri, si doveva estendere l’applicazione dell’articolo 18 a tutti; ma se ad alcuni si garantisce la job property, è inevitabile che ci sia qualcun altro che porta il peso della flessibilità di cui l’impresa ha bisogno. Appunto questo è accaduto nel tessuto produttivo, sia  con l’esternalizzazione di servizi alle piccole imprese appaltatrici, sia mediante l’ampliamento del ricorso al lavoro non stabile:  contratti a termine o rapporti di collaborazione. Il dualismo tra iperprotetti e poco protetti, con l’articolo 18, era prevedibile e inevitabile.

Lei approva il superamento di quel regime operato negli ultimi anni?

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Gino Giugni

PIETRO ICHINO –  Considero molto sensata la riforma attuata fra il 2012 e il 2015, con la legge Fornero e poi con il Jobs Act, che hanno mantenuto la reintegrazione come sanzione contro la lesione dei diritti fondamentali, contro gli atti discriminatori, a tutela di tutti, qualunque sia la dimensione dell’impresa, ma per il resto hanno superato il regime di job property. Le persone non vanno difese dal mercato del lavoro, cioè dal rischio di dover cercare un nuovo impiego. Bisogna proteggerle nel mercato del lavoro, cioè creando forme di sostegno per chi resta disoccupato, sia con un sostegno del reddito adeguato, sia con l’assistenza necessaria per trovare la nuova occupazione. Ingessare i posti esistenti, in un sistema economico che si trasforma a ritmi rapidi, serve a poco. Quando arriva il temporale, il gesso si scioglie e anche la tutela dell’articolo 18 diventa inutile.

[10]VINCENZO BAVARO – Credo che sia improprio parlare di job property, perché l’articolo 18, nella forma attuale dopo la riforma Fornero, ma anche in quella stabilita nel 1970, non stabilisce alcuna proprietà sul posto di lavoro. Se l’azienda va in crisi oppure riorganizza la produzione in modo tale da rendere eccedente una parte del personale, siamo in presenza di una circostanza che giustifica il licenziamento degli addetti. Bisogna però distinguere le situazioni che legittimano la fine del rapporto di lavoro dalla tutela che occorre assicurare in caso di licenziamento ingiustificato. Contesto anche l’idea che l’articolo 18 sia per sua natura una fonte di divisione tra diverse categorie. Sono regole il cui perimetro di estensione è una scelta politica. Si può decidere di applicarle a tutti i lavoratori, a una parte di essi o a nessuno, senza che vi sia alcun impedimento tecnico per ciascuna opzione. Dipende dai valori che si ritengono prioritari. Se al primo posto collochiamo la flessibilità, si può mettere in discussione la reintegrazione in qualsiasi caso. Io considero il diritto a non essere licenziati in mancanza di un giustificato motivo un principio fondamentale, perché tale è considerato dalla Costituzione – in via interpretativa – e da diverse fonti del diritto sovranazionale, prima fra tutte la previsione esplicita contenuta nella Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea. Non c’è nessuna ragione, né teorica né politica, per la quale a questo diritto debba essere assegnato un rango inferiore e quindi una tutela attenuata rispetto a quella reintegratoria riservata a chi viene licenziato per ragioni discriminatorie o per ritorsione antisindacale.

PIETRO ICHINO -Io la vedo in un altro modo. Il divieto di discriminazione e la libertà sindacale si collocano su un piano molto diverso rispetto al principio di motivazione del licenziamento ordinario. Come dice Vincenzo Bavaro, di fatto l’articolo 18 consentiva il licenziamento soltanto quando l’impresa era in crisi. Ma l’aggiustamento degli organici deve poter avvenire molto prima che l’impresa sia sull’orlo del fallimento, e proprio per evitare di arrivarci. All’imprenditore deve essere data la possibilità di avviare l’aggiustamento in previsione di eventi futuri, che in quanto tali non si possono dimostrare in tribunale. Se la previsione di una perdita aziendale futura è soggetta al vaglio  giudiziale, è inevitabile che il risultato nella maggior parte dei casi sia la conservazione del rapporto di lavoro. È giusto che l’imprenditore sia tenuto a motivare il licenziamento, per la trasparenza delle sue scelte, ma far derivare dal dissenso del giudice sulla motivazione la reintegrazione del dipendente significa sostituire il giudice all’imprenditore e in definitiva burocratizzare le scelte aziendali.

VINCENZO BAVARO – Non bisogna confondere la giustificazione di un licenziamento con il diritto alla tutela dei lavoratori quando questa giustificazione non c’è. Le sentenze di Cassazione, in netta prevalenza, giustificano il licenziamento non solo quando l’impresa è prossima al fallimento. Ormai da molti anni si tende a considerare motivo giustificato di licenziamento ragioni legate all’innovazione tecnologica oppure esigenze di incremento di produttività; e non solo queste. Qui non stiamo parlando della giustificazione del licenziamento, che il giudice valuta e che riconosce più volte di quanto la neghi. Quello che si discute è la sanzione da applicare quando manca questa giustificazione. D’altronde, coloro che pensano che il giudice non debba esercitare alcuna ingerenza nell’attività aziendale, dovrebbero considerare eccessivo anche l’indennizzo massimo di 36 mensilità previsto oggi dalla legge in caso di licenziamento illegittimo. Potrebbero chiaramente sostenere la dottrina del licenziamento libero; tesi che, in fondo, è nell’animus del pensiero liberista.

PIETRO ICHINO – Le 36 mensilità sono eccessive rispetto a quanto è previsto negli altri Paesi europei. Ma imporre all’azienda un costo economico risponde proprio all’impostazione che ho cercato di esporre prima. L’imprenditore deve essere libero di compiere scelte la cui motivazione, fondata su previsioni soggettive, non è dimostrabile in giudizio, purché sia disposto ad accollarsi un indennizzo, che a ben vedere funge da filtro automatico delle scelte stesse. Il giudice deve controllare il rispetto dei diritti fondamentali della persona, non le ragioni di natura economica, che non è veramente in grado di valutare.

Oggi che l’occupazione è spesso precaria e mal retribuita, che cosa si può fare per garantire i diritti dei lavoratori?

VINCENZO BAVARO – Per i fenomeni di sfruttamento non occorrono nuovi istituti normativi, basta applicare quelli esistenti. Perciò sarebbe utile attribuire al sindacato una funzione di controllo e conferirgli la possibilità di agire direttamente in giudizio per combattere i comportamenti abusivi. Inoltre occorre superare l’eccessiva frammentazione delle situazioni giuridiche, di cui sono espressione i contratti pirata stipulati dai datori di lavoro con organizzazioni sindacali compiacenti. L’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, perciò attribuire titolarità contrattuale ai sindacati maggiormente rappresentativi, potrebbe servire a razionalizzare la situazione. Poi c’è il problema di distinguere tra l’esigenza della flessibilità e l’abuso che spesso se ne fa. Serve un patto tra produttori, in cui le parti sociali definiscano che cosa è il lavoro, cioè quell’attività organizzata dell’impresa e da cui essa estrae valore, e quale statuto assegnargli, con le relative protezioni. [11]Per fare un esempio, deve valere per il ciclofattorino di Foodora, a cui devono essere riconosciuti diritti analoghi a quelli riconosciuti al dipendente delle poste che consegna la corrispondenza.

PIETRO ICHINO – Con lo statuto si commise un errore grave, collocando la protezione del lavoro interamente all’interno dell’azienda. Per quanto riguarda la posizione delle persone nel mercato, la legge del 1970 invece rafforzò il regime di monopolio statale del collocamento, che non  solo non aiutava la ricerca dell’occupazione, ma la ostacolava. Nello statuto manca ogni riferimento al diritto di ricevere una formazione efficace, che metta davvero in condizione di accedere al lavoro. In questo modo il mercato del lavoro si conferma un luogo pericoloso, da cui tenersi il più possibile alla larga.

Però, se scarseggia il lavoro, la formazione non può crearlo dal nulla.

PIETRO ICHINO – L’obiezione può valere per il Sud, dove occorre una politica di attrazione del meglio dell’imprenditoria mondiale. Ma nel Centro e Nord-Italia, alla fine del 2019, sono stati censiti 1.200.000 posti di lavoro permanentemente scoperti per mancanza di persone dotate delle competenze necessarie per occuparli. A ben vedere, in tempi normali, non è il lavoro che manca, ma i servizi necessari per consentire alle persone di accedere ai posti di lavoro qualificato e specializzato che le aziende non riescono a coprire. La vera protezione consiste in una rete capillare di servizi efficaci che consentano alle persone di rimanere al passo con i ritmi elevati dell’innovazione e rispondere alla fame di lavoro qualificato delle imprese. Per esempio, è inutile cercare di imporre al lavoro organizzato mediante le piattaforme digitali gli schemi di disciplina del rapporto del secolo scorso, del tutto incompatibili; mentre è essenziale mettere gli addetti a quel lavoro in grado di  migrare verso occupazioni più redditizie, assicurando loro i percorsi efficaci. Ciò significa rilevare in modo capillare i risultati occupazionali di ciascun corso di formazione finanziato con fondi pubblici, pubblicare il tasso di coerenza che ne risulta e finanziare solo i corsi con un tasso superiore al 75 per cento. Una parte del Jobs Act – il decreto n. 150/2015 – puntava a questo obiettivo, anticipando la riforma costituzionale, ma è poi rimasta lettera morta per la bocciatura di quella riforma.

VINCENZO BAVARO – Il monopolio pubblico del collocamento non esiste più da oltre vent’anni, ma non mi sembra che i tassi di occupazione siano migliorati né che il precariato si sia ridotto. Non chiedo certo un ritorno al passato, ma osservo soltanto che l’unico risultato tangibile è stato l’apertura di spazi di mercato per le imprese private di collocamento. Sono d’accordo sul diritto dei lavoratori alla formazione, ma non credo che migliorare i servizi forniti in quel campo possa bastare a riassorbire la disoccupazione di massa. Quanto ai lavori precari (con contratti fantasiosi come quelli dei ciclofattorini), non comprendo l’argomento secondo cui imporre alle imprese di piattaforma di avere lavoratori regolarmente subordinati possa costituire un costo insostenibile, visti i notevoli profitti che esse conseguono. Riconoscere a un rider lo stesso trattamento spettante a chi effettua altri tipi di consegne mi sembra un fatto di giustizia ed eguaglianza. Peraltro, dov’è finito il rischio d’impresa? È accettabile che lo si scarichi sempre e soltanto sul lavoro attraverso le svariate forme di esternalizzazione e di precariato? Ridurre i costi è legittimo e comprensibile, ma è un obiettivo che deve essere quantomeno condiviso col sindacato mediante intese contrattuali, e non semplicemente consentendo alle imprese di sfuggire alla loro responsabilità economica, prima ancora che sociale.

PIETRO ICHINO – L’attività dei ciclofattorini ha come elemento essenziale la libertà di non presentarsi al lavoro e di non rispondere a una chiamata: un dato incompatibile con l’orario predeterminato del rapporto subordinato tradizionale e la retribuzione oraria fissa. Si può aumentare il compenso, ma esso non può che essere proporzionato alle consegne effettuate. Vietare il cottimo, come ha fatto il decreto Di Maio dello scorso anno,  significa semplicemente vietare quel tipo di organizzazione del lavoro. Per fortuna è stato concesso un anno di tempo prima che la legge entri in vigore e la possibilità di disciplinare meglio la materia in sede di contrattazione collettiva.