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PREFAZIONE A “L’INTELLIGENZA DEL LAVORO”

Tre idee che coltivo da tempo e che mi sembra possano combinarsi bene tra loro, come pezzi di un unico puzzle: ne sono sempre più convinto, anche se il vento qui da noi soffia in tutt’altra direzione – Che siano idee un po’ controcorrente, del resto, non è una novità nella mia vita di studioso dei problemi del lavoro

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Estratto dalle pagine 9-13 de
L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore, Rizzoli, 2020, pp. 260 – L’indice, le recensioni, documenti e immagini sono reperibili attraverso la pagina web dedicata al libro [1].
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Ai professori universitari che compiono il settantesimo anno, e che si avvicinano dunque alla pensione, è uso antico che gli allievi dedichino una raccolta di saggi, chiedendo ai colleghi cultori della stessa materia di contribuirvi. Ai miei, però, ho chiesto di non farlo. Perché ormai siamo in troppi a compiere settant’anni e il nostro numero va aumentando di anno in anno: come il gettito dei contributi previdenziali dei lavoratori in attività non basta più a mantenere il numero soverchiante dei pensionati, allo stesso modo la produzione dei professori del settore rischia di non bastare più ad assicurare gli «scritti in onore» di ciascuno degli anziani. Mi è parso meglio, dunque, festeggiare il traguardo raggiunto con un solo saggio, scritto da me.

[2]Ho deciso di dedicarlo a tre idee che coltivo da tempo. Tre idee che mi sembra possano combinarsi bene tra loro, come pezzi di un unico puzzle e delle quali sono sempre più convinto, anche se il vento, qui da noi, soffia in tutt’altra direzione. Che siano idee un po’ controcorrente, del resto, non è una novità nella mia vita di studioso dei problemi del lavoro.

La prima idea è questa: la vera protezione delle persone che lavorano, o vorrebbero lavorare e non ne trovano il modo, dovrebbe consistere nello spianare e nel dotare della segnaletica necessaria i percorsi che conducono alle molte centinaia di migliaia di posti disponibili nel tessuto produttivo del nostro Paese, ma che in genere rimangono scoperti. Sono veri e propri enormi giacimenti occupazionali che oggi restano inutilizzati. La seconda idea è che nel mercato del lavoro non siano soltanto gli imprenditori a selezionare e ingaggiare i propri collaboratori, ma accada pure sempre più diffusamente l’inverso: che siano cioè i lavoratori a scegliere e «ingaggiare» l’imprenditore ritenuto più capace di valorizzare il loro lavoro; nelle situazioni di crisi aziendale lo fanno talvolta anche collettivamente. E dovrebbero essere messi nella condizione di farlo sempre più spesso, anche non in situazioni di emergenza.

La terza idea è che, per poter aumentare la concorrenza tra gli imprenditori in questo vero e proprio «mercato dell’intrapresa» e poter sfruttare fino in fondo le opportunità che dalla loro concorrenza scaturiscono, occorre una nuova «intelligenza del lavoro»: una capacità che i lavoratori devono saper esercitare sul piano individuale, ma anche su quello collettivo, di conoscere e capire in tutti i suoi aspetti il mercato del lavoro, in modo da poterlo utilizzare efficacemente a proprio vantaggio. C’è dunque bisogno di un sindacato capace di assumersi questo ruolo come mestiere.

Di intelligenze del lavoro, del resto, possono essercene più d’una e molto diverse tra loro. Per questo è indispensabile un vero pluralismo sindacale: cioè un sistema di relazioni industriali nel quale non soltanto organizzazioni diverse, ma anche modelli alternativi di sindacalismo e di partecipazione nelle imprese possano confrontarsi e competere, in una cornice di regole che garantiscano a lavoratori e imprenditori un’ampia libertà di scelta. Regole che al tempo stesso permettano al modello che raccoglie il maggior numero di adesioni di operare efficacemente. Può sembrare un’ovvietà, ma non lo è: l’ordinamento italiano pone dei «paletti» molto stretti, che costringono i sindacati a recitare tutti, più o meno, lo stesso copione tradizionale o copioni non molto dissimili tra loro.

Mi rendo conto di quanto queste idee possano essere considerate inattuali, nella situazione di grave disorientamento politico, culturale ed economico che il nostro Paese sta attraversando. Ma i settant’anni si compiono una volta sola; e non è colpa mia se li ho compiuti in un momento così buio. D’altra parte, è proprio nei periodi più bui che devono germogliare le idee destinate ad animare i tempi migliori.

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Ho curato attentamente di evitare qualsiasi accenno ai temi di diritto del lavoro e del welfare che sono stati a lungo, e sono ancora, al centro delle polemiche politiche, in occasione dei (troppo frequenti) interventi legislativi su questa materia. Non una parola, dunque, in questo libro, su norme vecchie e nuove che abbiano a che fare con licenziamenti, contratti a termine, reddito di inclusione o di cittadinanza. Non perché voglia sottrarmi all’onere di prendere posizione in proposito: lo faccio quotidianamente in articoli e interviste facilmente reperibili sul mio sito web. Ma perché tengo molto a sottolineare che queste pagine non contengono una proposta di riforma legislativa. Il libro intende avere per interlocutore non tanto il legislatore, quanto i protagonisti del mercato del lavoro e dell’intrapresa: i lavoratori e i loro sindacati, gli imprenditori e le loro associazioni, i responsabili e gli addetti ai servizi di informazione e formazione, i professori e tutti coloro che, a scuola o in altri ambiti, hanno il compito di fornire il primo orientamento ai giovani che si accingono ad affrontare il grande e non facile mondo delle aziende.

Dobbiamo smettere di pensare che le risposte ai problemi posti dalla globalizzazione, dall’automazione, dall’intelligenza artificiale, possano consistere nell’ennesima sostituzione di questo o quel comma tra i milioni che riempiono le annate della “Gazzetta Ufficiale”. È una sfida alla quale dobbiamo rispondere soprattutto con un adeguamento della nostra cultura delle relazioni industriali. Più precisamente, coltivando e diffondendo un’intelligenza nuova circa il modo in cui domande e offerte di lavoro sempre più diversificate si cercano, si incontrano e si valorizzano a vicenda in un mondo che diventa ogni giorno più piccolo.

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Devo un ringraziamento non rituale – che non comporta ovviamente alcun coinvolgimento nelle tesi qui sostenute, né responsabilità per gli eventuali errori – ad alcuni colleghi coi quali ho potuto sperimentare da tempo il non facile approccio multidisciplinare ai temi del lavoro e delle relazioni industriali e la ricerca di un linguaggio comprensibile per giuslavoristi, economisti e sociologi del lavoro. Parti non secondarie di questo libro hanno molto beneficiato delle osservazioni critiche e dei consigli di Maurizio Ferrera, Marco Leonardi, Ida Regalia e Michele Salvati, insieme ai quali ho avuto la fortuna di poter lavorare a lungo gomito a gomito nello stesso dipartimento dell’Università degli Studi di Milano; e di Mimmo Carrieri e Lucia Valente, del dipartimento omologo della “Sapienza” di Roma: al primo mi lega un’amicizia e una comunanza di interessi politico-culturali che erano già vive nei primi anni ’80; alla seconda, che non soltanto ha studiato approfonditamente ma ha praticato le politiche del lavoro in veste di assessore della Regione Lazio, devo alcune idee originali in argomento, oltre che diverse informazioni preziose. Un ringraziamento particolare per osservazioni e consigli utilissimi rivolgo anche a Francesco Daveri e a Roberto Ceredi, cui mi accomuna il lavoro per lavoce.info, e a Filippo Teoldi e Chiara Giannetto, che mi hanno aiutato nella raccolta dei dati sulle situazioni di skill shortage presentate nel primo capitolo.

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Per non appesantire il testo, mi sono proposto di ridurre al minimo i riferimenti bibliografici e li ho raccolti alla fine di ciascun capitolo, dove essi compaiono col solo nome dell’autore o autrice e l’anno di pubblicazione. I dati bibliografici completi sono contenuti invece nell’indice degli scritti citati.

P.I.

Milano, febbraio 2020

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