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AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE: LA POLITICA DEGLI ANNUNCI E LA DURA LESINA DELLA RIFORMA

APPUNTI PER UNA TRASMISSIONE TELEVISIVA SUL DECRETO-BRUNETTA: LE APERTURE SU VALUTAZIONE E TRASPARENZA, LE CONTRADDIZIONI TRA IL DIRE E IL FARE DEL GOVERNO, LA PRESA IN GIRO DELLA FINTA CLASS ACTION

Il 13 ottobre scorso ho partecipato a un dibattito a “Porta a Porta [1]” sulla riforma delle amministrazioni pubbliche con il ministro Renato Brunetta, Luca Ricolfi, Enrico Cisnetto e il segretario generale della Cisl Funzione Pubblica Giovanni Faverin. Quelli che seguono sono gli appunti che avevo steso nei giorni precedenti per la preparazione dell’incontro televisivo e dai quali ho attinto gli argomenti svolti nel dibattito. Un articolo tratto da questi appunti è in corso di pubblicazione sul numero di novembre di Mondoperaio.

            1. – La parte migliore della legge Brunetta, quella sulla valutazione indipendente e la trasparenza totale delle amministrazioni pubbliche  è tratta dal disegno di legge n. 746/2008 del Partito Democratico, che conosco bene perché ne sono stato estensore e primo firmatario, insieme all’intera Presidenza del Gruppo e ad alcune altre decine di senatori democratici: progetto che, a sua volta, nasce dai disegni di legge presentati nella legislatura precedente da Antonio Polito al Senato e da Lanfranco Turci alla Camera, dopo la pubblicazione del mio libro del 2006. Nel disegno di legge originario del Governo, che pure è stato presentato al Senato un mese dopo la presentazione di quello del PD (esso porta infatti il numero 847/2008), di questi due principi non c’era traccia; ma io riconosco al ministro Brunetta il merito di essersi adoperato con determinazione, nel corso della discussione al Senato, perché venissero accolti questi due pilastri del nostro progetto. Poi, quando il Governo ha dovuto approvare il decreto di attuazione, Brunetta ha incontrato delle forti resistenze: soprattutto Tremonti gli ha messo dei grossi bastoni tra le ruote. Ne sono derivati, proprio sul terreno della valutazione indipendente e della trasparenza, degli arretramenti e delle lacune, in questo decreto legislativo, che poi in Commissione Affari Costituzionali e Commissione Lavoro al Senato ci siamo sforzati di recuperare, riuscendovi solo in parte.

            Nonostante questi arretramenti e lacune, per questa parte su valutazione indipendente e trasparenza la nuova legge apre degli spazi importanti di mobilitazione, di iniziativa della società civile, delle associazioni degli utenti, della stampa specializzata, di tutti i cittadini, per cambiare progressivamente faccia alle nostre amministrazioni e soprattutto al loro rapporto con gli utenti.

Valutazione indipendente significa che per ogni comparto ci dovrà essere un organo che rileva gli indici di efficienza e i risultati: tempi di attesa, quantità di pratiche eseguite, durata dei procedimenti giudiziali, e così via. Questo deve consentire di fissare ai dirigenti degli obiettivi specifici, misurabili, oggettivi; e di chiedere loro conto dei risultati, sostituendo il  dirigente che si rivela incapace. Certo, sarebbe stato molto meglio se al vertice del sistema di valutazione ci fosse stata quella Autorità davvero indipendente che noi proponevamo, a garanzia dell’indipendenza anche degli organi periferici di valutazione. Qui c’è stata proprio una vistosa marcia indietro nel decreto, rispetto a quanto lo stesso ministro Brunetta aveva ipotizzato in un primo tempo (nella bozza di decreto che era stata fatta circolare in aprile si prevedeva proprio l’Autorità indipendente). Nel decreto che è stato emanato è prevista una commissione centrale che avrà meno poteri e meno autonomia di quanto avrebbe dovuto; e gli organi di valutazione, che vengono indicati nel decreto come “indipendenti”, lo sono soltanto a parole: in realtà sono ancora scelti dalle Direzioni generali e da essi sostanzialmente dipendenti. Vedo poi un difetto del decreto nel suo porsi ancora sostanzialmente sulla linea del monopolio pubblico della valutazione. Doveva invece essere valorizzato il contributo che su questo terreno può dare la società civile, le associazioni come Cittadinanzattiva, Civicum e altre simili. In realtà, chiunque incrocia una pubblica amministrazione nella vita di tutti i giorni esprime una valutazione sul servizio ricevuto: l’insieme di queste valutazioni costituisce dunque un “tesoro nascosto”, un immenso giacimento di informazioni sul funzionamento delle p.a., a cui dovremmo attingere sistematicamente. Il decreto non prevede invece alcun coinvolgimento della cittadinanza, degli utenti, nella composizione e nel funzionamento degli organi di valutazione.

La battaglia nel vivo della società civile, su questo punto, sarà dunque più difficile; ma dobbiamo comunque impegnarci a condurla capillarmente, fino in fondo. E lo strumento fondamentale per questa battaglia è la trasparenza, l’accessibilità illimitata delle informazioni. Vediamo dunque più da vicino questo secondo punto molto importante.

            Trasparenza totale significa che d’ora in poi chiunque ha diritto di accesso a tutte le informazioni sull’organizzazione e il funzionamento di un’amministrazione pubblica, salvo quelle che vengano espressamente qualificate come riservate. Avremo diritto di conoscere tutto anche delle prestazioni di lavoro, delle retribuzioni, delle promozioni, dei trasferimenti, dei tassi di assenze di ciascun ufficio (esclusa, ovviamente, la natura delle infermità che avranno determinato le singole assenze). E soprattutto delle valutazioni. È finita l’epoca in cui a ogni richiesta di informazioni poteva essere opposta la privacy. È lo stesso principio di full disclosure, trasparenza totale appunto, che in Svezia si applica da trent’anni, al quale negli Usa e in Gran Bretagna si è arrivati più recentemente con due leggi che recano lo stesso nome: Freedom of Information Act. È importante che tutta la  società civile impari a usare fino in fondo questo principio: si apriranno spazi nuovi di intervento e di controllo per le associazioni degli utenti, la stampa specializzata, i ricercatori universitari; e questo aiuterà a rendere più credibili le valutazioni degli organi indipendenti: perché la conoscibilità dei dati su cui si fondano renderà controllabili e verificabili quelle valutazioni.

 

2. – Vedo invece una pesante contraddizione tra la prima e la seconda parte del decreto. La logica della prima parte è questa:
    – si fissano ai dirigenti obiettivi precisi, misurabili, specifici, oggettivi, il cui raggiungimento possa essere controllato con precisione attraverso il sistema degli organismi indipendente di rilevazione e valutazione;
   – quindi ai dirigenti si impongono non procedure da rispettare, ma obiettivi da raggiungere;
   – in questo modo si ottiene che la dirigenza pubblica sia costretta a riappropriarsi di tutte le prerogative che sono proprie dei dirigenti delle aziende private, e a usarle efficacemente per raggiungere gli obiettivi: altrimenti il dirigente pubblico viene rimosso.

Ora, invece, nella seconda parte la legge interviene in modo molto penetrante a limitare l’autonomia negoziale e gestionale dei dirigenti, a dettare procedure, regole minuziose di comportamento, o regole minuziose per la contrattazione collettiva. Se si torna a regolare per legge, in modo rigido, tutta questa serie di materie, in questo modo i dirigenti pubblici si deresponsabilizzano. Queste materie dovrebbero invece essere lasciate alla loro discrezionalità, ferma restando la loro responsabilità per il raggiungimento dei risultati, che d’ora in poi dovranno essere commisurati a obiettivi specifici, misurabili, oggettivi.

Occorre sottoporre i dirigenti a un rigoroso controllo dei risultati, non al rispetto di procedure.

            Per esempio, sulla gestione dei premi: ogni comparto dell’amministrazione presenta una situazione diversa, problemi di applicazione diversi. Una regola rigidamente uguale per tutti i comparti e tutte le situazioni, per l’assegnazione dei premi, ancora una volta deresponsabilizza i dirigenti e può creare situazioni assurde. È compito della dirigenza trovare di volta in volta il modo migliore, in relazione alle circostanze particolari. La mia proposta originaria era nel senso che venissero esclusi per legge dagli aumenti contrattuali e dall’erogazione dei premi non dei singoli dipendenti individuati dal dirigente, ma tutti i dipendenti delle strutture individuate dagli organismi indipendenti di valutazione come gravemente inefficienti o in situazione di grave eccedenza di organico; e che invece le risorse per i premi venissero poste a disposizione delle strutture più virtuose, quelle con gli indici di performance migliore. Questo avrebbe incentivato al tempo stesso il superamento, dove possibile, delle situazioni di grave inefficienza, e, dove questo si rivela impossibile, il progressivo svuotamento dei rami secchi e delle sacche di overstaffing, con trasferimento del personale nelle strutture dove esso può essere meglio valorizzato.

Un altro esempio di eccesso di “legificazione” nel decreto Brunetta: in materia di contrattazione collettiva viene dettata una enorme quantità di disposizioni minuziose, che trasformano il contratto collettivo in un passaggio interno di un procedimento amministrativo per la determinazione delle condizioni di lavoro. Ora, è vero che la contrattazione collettiva nel settore pubblico non ha bene meritato nei quindici anni passati; ma il rimedio non è quello disegnato dal ministro Brunetta. A contrattare si è sempre almeno in due; e se si è negoziato male, almeno metà della colpa va imputata al negoziatore pubblico. Il ministro avrebbe potuto ottenere esattamente lo stesso risultato che si propone di ottenere, invece che con la rilegificazione spinta della materia, con l’emanazione in via gerarchica delle stesse disposizioni in forma di direttive molto precise all’Aran e ai dirigenti impegnati nella contrattazione integrativa in periferia.

Se il sindacato subordina la firma del contratto a condizioni che si ritengono inaccettabili, l’impresa privata non firma il contratto; vieta al proprio dirigente negoziatore di firmare. Questo dovrebbe fare anche il ministro (e questo è esplicitamente previsto nell’articolo 13 del disegno di legge del Pd). Non come in questo decreto, dove, per paura che i dirigenti firmino condizioni inaccettabili, si stabilisce per legge, punto per punto, che cosa devono firmare e che cosa no, con regole minuziose e rigide: in questo modo li si deresponsabilizzano. Si perpetua la vecchia nostra cultura amministrativa per la quale il dirigente pubblico non si soffia il naso se non è previsto nella circolare ministeriale.

            Vedo anche una contraddizione fra il decreto e la stessa legge-delega approvata dal Parlamento nel marzo scorso. Questa stabilisce all’articolo 2 lettera a), come primo principio-cardine a cui deve attenersi il Governo nella formulazione del decreto, quello della “convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico con quelli del lavoro privato, con particolare riferimento al sistema delle relazioni sindacali” (con questo, la legge-delega si pone in continuità con le riforme Cassese del 1993 e Bassanini del 1997-1998); e poi, all’articolo 3 lettera a) aggiunge: “… fermo restando che è riservata alla contrattazione collettiva la determinazione dei diritti e delle obbligazioni direttamente pertinenti al rapporto di lavoro”. Come nelle aziende  private, appunto. Ora, invece, come si è visto, nella sua seconda parte il decreto interviene in modo molto penetrante a limitare l’autonomia negoziale dei dirigenti, a dettare procedure, regole minuziose per la contrattazione collettiva, che non hanno niente a che vedere con l’ordinamento applicabile nelle aziende private: questo segna una rottura netta rispetto alla linea di riforma Cassese-Bassanini.

L’eccesso di intervento legislativo, poi, appare evidente nella norma che dispone addirittura il “rinvio” del rinnovo delle rappresentanze sindacali: è, questa, una materia che di per sé non riguarda neppure la contrattazione collettiva, ma soltanto l’organizzazione sindacale, la sua autonomia organizzativa, le sue scelte di autogoverno. Che sia la legge a intervenire su questa materia mi sembra davvero una anomalia grave: e su questo punto hanno pienamente ragione Cgil e Cisl a protestare.

Un altro esempio ancora di eccesso di  legificazione: nell’azione di contrasto all’assenteismo abusivo, un dirigente di azienda privata degno di questo nome sa bene come motivare i  propri dipendenti, come distinguere i malati veri da quelli finti; il consiglio di amministrazione dell’impresa gli chiede conto del tasso di assenze complessivo, non gli dice come fare per mantenerlo a un livello accettabile.  Il ministro Brunetta, invece, in un primo tempo ha pensato bene di risolvere il problema tagliando indiscriminatamente, su scala nazionale, le retribuzioni a tutti i dipendenti pubblici che si ammalano (una scorciatoia sbagliata, sulla quale torno fra breve). Ma, soprattutto, ora il decreto fissa tutta una serie di regole in questa materia, che dovranno applicarsi rigidamente dappertutto; il ministro pretende di stabilire minuziosamente sul piano legislativo che cosa devono fare i dirigenti, quando e come devono intervenire sul piano disciplinare, e così via. Ci mancava solo che stabilisse per legge che devono essere attivati i tornelli di ingresso e uscita in  tutti gli uffici pubblici, e magari anche il tipo di tornelli da utilizzare.

 

            3. – Il  problema cruciale della nostra amministrazione statale è che essa non sa distinguere tra le strutture che funzionano bene, quelle che funzionano mediocremente e vanno stimolate a far meglio, quelle che producono soltanto sprechi; non sa distinguere tra chi lavora bene, chi lavora poco e chi non lavora affatto: o premia tutti allo stesso modo, o, più spesso, tratta tutti male allo stesso modo. Per risolvere questo problema occorre trovare e applicare gli incentivi giusti perché i dirigenti pubblici imparino a fare quello che fanno normalmente i dirigenti di aziende private: cioè appunto valutare, distinguere, e usare correttamente incentivi e sanzioni verso i loro dipendenti.

Per questo occorre, innanzitutto, che il buon esempio venga dall’alto; il ministro Brunetta non ha dato il buon esempio quando, pur nell’intento giustissimo di combattere l’assenteismo, ha tagliato indiscriminatamente le retribuzioni ai malati veri e ai malati finti: sono buoni tutti a risolvere il problema dell’assenteismo in questo modo, eliminando la protezione del lavoratore malato, che costituisce una delle prime conquiste della civiltà moderna del lavoro! Non si possono governare le organizzazioni complesse a colpi di accetta, oppure con metodi terroristici (appartiene al metodo e al linguaggio dei terroristi quel terribile “colpirne uno per educarne cento” che abbiamo sentito dalla bocca del ministro Brunetta qualche mese fa). Ma bisogna evitare anche un altro errore: non si ottiene che la dirigenza pubblica impari a distinguere, e si riappropri delle prerogative a cui ha abdicato nei decenni passati, imponendo regole rigide e minuziose uguali per tutti: così si ritorna al vecchio sistema, nel quale si teneva il dirigente responsabile dell’applicazione di regole e procedure, non del raggiungimento di risultati.

            Il problema cruciale – ed è un problema per la soluzione del quale non  basta certo una legge: occorreranno anni di paziente e sapiente azione di governo – è quello di insegnare alle nostre amministrazioni a distinguere e valutare. Perché non lo sanno fare: o premiano tutti, o, più spesso, trattano tutti male allo stesso modo. Pure il ministro Brunetta cade in questo errore, non solo quando colpisce indistintamente tutti i dipendenti che si assentano per malattia, ma anche quando lancia le sue invettive indiscriminate, come ha fatto ultimamente contro i musicisti e i lavoratori dello spettacolo. Anche il ministro della Funzione pubblica – anzi: lui prima di tutti gli altri – deve imparare a distinguere, per esempio, fra i molti lavoratori dello spettacolo che fanno bene il loro lavoro e i pochi che vivono di rendita. Che pure ci sono, certo; ma non mi sembra un buon modo di governare quello di insultare un’intera categoria. Governare bene un’organizzazione complessa implica saper individuare con precisione chi non fa il proprio dovere e chi no. Non sparare nel mucchio.

 

            4. – Vedo alcune altre incoerenze non marginali tra la filosofia della prima parte del decreto e l’azione concreta del Governo e del ministro Brunetta in particolare:

– con questa legge abbiamo imposto la trasparenza totale alle amministrazioni pubbliche; sarebbe il caso di estendere il principio anche ai parlamentari; ora, in Senato giace, fermo da un anno, il disegno di legge n. 1290/2008 del Partito democratico e del Partito radicale, primi firmatari Ichino Finocchiaro e Bonino, il quale mira a istituire l’anagrafe degli eletti, disponendo che vengano resi accessibili in rete i redditi e i patrimoni, mobiliari e immobiliari, dei parlamentari e dei consiglieri regionali e comunali, e le loro variazioni; perché la maggioranza non consente che questo progetto venga messo  subito all’ordine del giorno, se non altro per un motivo di simmetria con la legge Brunetta?

– il decreto Brunetta promuove la mobilità dei dipendenti pubblici e anche dei dirigenti; ma ora l’articolo 9 del d.d.l.  n. 1167, firmato anche da Brunetta, che è all’esame del Senato, reintroduce i compartimenti stagni tra amministrazioni dello Stato, stabilendo che la progressione di carriera dei dirigenti può avvenire soltanto nell’amministrazione di origine e togliendo ogni valore alle funzioni svolte in altre amministrazioni; che senso può avere questo avanti-indietro, se non quello del cedimento alle pressioni revansciste della parte più conservatrice degli apparati ministeriali?

– il ministro ha lanciato per tutto l’anno scorso forti annunci nel senso di premiare i migliori, di voltar pagina rispetto all’appiattimento dei trattamenti, e così via; ma dal sito del ministero della Funzione pubblica si trae che le retribuzioni dei dirigenti, dall’inizio della legislatura sono rimaste tutte perfettamente uguali: 6 politico a tutti! Perché il ministro non ha incominciato a premiare i migliori in casa sua, dove era già suo compito provvedere sulla base della vecchia disciplina, anche senza bisogno di una nuova legge?

– il Governo promette servizi pubblici migliori, ma intanto nel settore della sanità, in un anno e mezzo, abbiamo visto tagli indiscriminati per 5 miliardi e nessun investimento: come è sbagliato dare i premi a pioggia a tutti, allo stesso modo è sbagliato tagliare così, alla cieca, quando sappiamo tutti che esistono centri che erogano servizi eccellenti e centri che producono solo sprechi enormi; stesso discorso per i tagli nel settore scolastico (con l’unica eccezione di una marginale differenziazione introdotta dal ministro Gelmini nel settore universitario);

– il buon esempio dovrebbe essere dato dall’alto: il primo ad applicare il principio di trasparenza totale dovrebbe essere il Presidente del Consiglio; e invece nella legge-delega e nel decreto delegato è stata inserita una bella deroga proprio per la Presidenza del Consiglio: lì, dunque, niente trasparenza, niente libertà di accesso a documenti e informazioni. Capirei se si fosse escluso un articolare ufficio affari riservati, un particolare sottocapitolo di bilancio; invece no: l’intera Presidenza del Consiglio è esente dalla trasparenza, è al di sopra della legge;

– l’anno scorso il Governo ha azzerato le indennità distribuite a pioggia, dicendo che avrebbero dovuto essere redistribuite per premiare il merito; ora risulta che al ministero del Lavoro e della Sanità le indennità sono state ripristinate, ma soltanto per i membri dei Gabinetti dei ministri e per gli autisti. A questi, tutti, senza alcuna distinzione di merito; agli altri dipendenti dello stesso ministero niente: che senso ha tutto questo?

Un’ultima notazione critica. Con decreto a sé stante, il Governo ha varato quella che il ministro Brunetta chiama pomposamente “class action contro le amministrazioni pubbliche non adempienti”. In realtà, il nuovo istituto processuale non ha nulla a che vedere conla class action statunitense, perché non può avere ad oggetto una richiesta collettiva di risarcimento del danno. Spero di sbagliarmi; ma esso avrà scarsissima fortuna: chi mai può essere così ingenuo da spendere tempo e denaro per ottenere che un Tribunale Amministrativo dia un buffetto a un’amministrazione pubblica, “ingiungendole” di fare il proprio dovere?

 

5. – La verità è che l’opera di cambiar faccia alle amministrazioni pubbliche responsabilizzandone i dirigenti verso la cittadinanza è un’opera lunga e difficile, per la quale nessuna legge, per quanto ipoteticamente ben fatta, può bastare; e ancor meno può bastare la “politica degli annunci”. È solo sulla media e lunga distanza che si potranno vedere gli effetti di questa nuova legge; ma in ogni caso essi dipenderanno dalla continuità e coerenza dell’azione quotidiana dell’intero Governo e del ministro della Funzione pubblica in particolare. Il quale, peraltro, ha ultimamente manifestato l’intendimento di candidarsi alla guida del Comune di Venezia: forse ritiene di avere risolto con l’emanazione di questa legge ogni problema, di avere esaurito il suo compito?