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IL CAPITALE UMANO E LA SELEZIONE DEGLI IMPRENDITORI

“Quello che il libro propone è un arricchimento della nozione di mercato del lavoro, la quale si allarga a una sorta di mercato dell’intrapresa, dove a selezionare e ingaggiare sono i lavoratori, anche talvolta in forma collettiva […] Essi posseggono il capitale umano, che non ha un valore più basso del capitale materiale”

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Recensione di Dario Di Vico a
L’intelligenza del lavoro [1], pubblicata sul Corriere della Sera il 20 maggio 2020 – Tutti gli altri documenti, recensioni e interviste relative allo stesso libro sono facilmente raggiungibili attraverso la pagina web dedicata al libro [1].
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Dario Di Vico

Mentre l’Economist dedica la sua ultima copertina alla crisi della globalizzazione Pietro Ichino, che ha sempre amato le corse controvento, esce in libreria con “L’intelligenza del lavoro”, un volume che non solo celebra le virtù della libertà economica e dell’apertura dei mercati ma invita il lavoro e il sindacato a giocare con maggiore convinzione le proprie chance in questo campo. L’autore crede infatti che il lavoro non debba rassegnarsi ad essere “ontologicamente” subalterno e scrive: “I lavoratori dispongono del capitale umano che non ha un valore più basso di quello materiale”. Quindi possono usarlo addirittura per scegliersi l’imprenditore dal quale dipendere ma perché ciò possa avvenire il Paese deve aprirsi totalmente agli imprenditori stranieri. In questo modo la globalizzazione diventa un terreno di gioco che non penalizza il lavoro, anzi ne esalta la possibilità di selezionare il miglior imprenditore possibile per quell’azienda. “Quello che propongo è un arricchimento della nozione di mercato del lavoro, la quale si allarga a comprendere una sorta di mercato dell’intrapresa, dove a cercare, selezionare e ingaggiare sono i lavoratori, anche talvolta in forma collettiva”. Un esempio di come sia possibile e non utopistico che avvenga tutto ciò Ichino lo rintraccia nel voto del referendum di Pomigliano del 2010 quando i lavoratori scelsero Sergio Marchionne e il suo piano industriale per meglio tutelare il proprio posto e il futuro della fabbrica. Al contrario quando i dipendenti dell’Alitalia nel 2008 bocciarono l’intesa con Air France-Klm e preferirono la cordata italiana promossa da Silvio Berlusconi sbagliarono. Avrebbero dovuto scegliere il miglior imprenditore possibile nella grande platea mondiale e non subire il ricatto psicologico dell’italianità, annota Ichino. E di fronte a questo cambio di paradigma cosa deve fare il sindacato? Deve “scrollarsi di dosso l’accusa di essere il freno a mano dell’impresa” risponde l’autore, e guidare gli operai in una scommessa comune. “Deve diventare la marcia in più che consente all’impresa di diventare più produttiva e più redditizia e ai lavoratori di guadagnare di più”.

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