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SETTE DOMANDE ALLA MINISTRA DADONE SULLO SMART WORK PUBBLICO

Qual è, settore per settore e regione per regione, la percentuale di dipendenti pubblici la cui funzione si presta effettivamente a svolgersi da remoto? Quanta parte di questa è stata svolta effettivamente? Hanno davvero lavorato da remoto anche gli addetti ai musei, gli uscieri, il personale tecnico delle varie sedi chiuse, gli ispettori?

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Articolo pubblicato sul sito del
Corriere della Sera il 18 giugno 2020 – In argomento v. anche Quello che gli uffici pubblici non hanno ancora imparato [1], i due post di cui ivi si trovano i link  .
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La ministra della Funzione Pubblica Fabiana Dadone

Sul Corriere di oggi la ministra della funzione pubblica Fabiana Dadone [3] si dice “orgogliosa dell’impegno di oltre 3 milioni di dipendenti pubblici” in questi mesi di chiusura fisica di gran parte dei loro luoghi di lavoro. Credo che tutti gli italiani siano orgogliosi della prova di dedizione al dovere e al servizio della collettività che in questo periodo hanno dato i medici e gli infermieri, le forze di polizia e una parte del personale giudiziario, gli insegnanti che hanno proseguito i corsi a distanza arrabattandosi con mezzi propri, e anche i molti addetti a servizi non essenziali, che pure sono riusciti a svolgere il loro lavoro tra mille difficoltà. Ma la ministra non può ignorare che in molti altri casi, invece, questo non è avvenuto. E per lo più non per colpa dei dipendenti. Il dato da lei riportato secondo cui “il 90% nelle amministrazioni centrali, oltre il 70% nelle Regioni” sarebbero stati attivati in forma di smart working significa pochissimo, se è vero che questa modalità di lavoro è stata dichiarata dalle amministrazioni senza alcun controllo, soltanto per giustificare il mantenimento dello stipendio pieno di tutti dipendenti senza distinzioni.

In proposito ci sono alcune domande che molti italiani – e non solo – vorrebbero porre alla ministra.

1. Qual è, settore per settore e regione per regione, la percentuale di dipendenti pubblici la cui funzione si presta effettivamente a essere svolta da remoto (quella che la ministra indica come “smartabile”)? E quanta parte di questa è stata svolta effettivamente? Hanno davvero lavorato da remoto anche gli addetti ai musei, gli uscieri, il personale tecnico delle varie sedi chiuse, gli ispettori delle varie amministrazioni (le cui pratiche risultano a tutti gli interessati essere state invariabilmente rinviate a data da destinarsi)?

2. Quando e come è stato attivato un monitoraggio in proposito da parte del ministero della FP? Possibile che, se davvero anche qui tutti o quasi erano attivamente al lavoro, su ciò che è accaduto nei mesi da marzo a maggio il ministero non sia in grado di fornire alcun dato dettagliato e preciso?

3.Le aziende private scelgono il proprio protocollo tra i vari possibili per il monitoraggio del lavoro da remoto e della sua produttività; quali protocolli hanno scelto le amministrazioni pubbliche? Secondo quale modello? Con quali risultati?

4. Per esempio, nella scuola e nell’università, qual è stata, in ciascuna regione, la percentuale di insegnanti che si è effettivamente attivata e con quali modalità? Che cosa ha fatto realmente – da casa o no – il personale amministrativo e tecnico di scuole e atenei da marzo a oggi? E gli asili-nido?

5. Quante sono le amministrazioni pubbliche che hanno riaperto i battenti soltanto il 1° giugno, in ritardo di un mese rispetto al settore privato, e per di più con ritmi tali da renderle di fatto inaccessibili per la stragrande maggior parte degli utenti (mi riferisco, per fare solo tre esempi, alla Motorizzazione civile, agli uffici del Catasto, alle varie Sovrintendenze)?

6. Quanta parte del lavoro dei giudici e delle cancellerie ha potuto essere svolta effettivamente da remoto? Per la parte restante, qual è stato l’aumento dell’arretrato accumulatosi? E quanta parte – questa domanda vale per tutte le amministrazioni – è stata impedita dall’impossibilità di accesso da remoto ai registri?

7. Ultima domanda, ma non ultima per importanza: piccola o grande che sia la percentuale dei dipendenti pubblici che di fatto durante la pandemia non hanno potuto essere utilizzati, perché non è stata estesa loro per decreto l’applicazione dell’articolo 33 del testo unico per l’impiego pubblico, che prevede per il “personale in situazione di soprannumero” il pagamento della retribuzione all’80 per cento (una sorta di “cassa integrazione”), e il risparmio conseguente non è stato utilizzato per sostenere e premiare chi era davvero in prima linea?

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