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LAVORO: LA SFIDA DELLA MOBILITÀ CHE UN GOVERNO DAL FIATO CORTO NON RACCOGLIE

Sulle politiche del lavoro il Pd oggi è afono, assente in tutte le sedi che contano, incapace di riempire il vuoto progettuale del M5S, il quale invece detiene tutte le cariche rilevanti – Il rischio è che quel vuoto sia riempito dalla Cgil, col suo progetto regressivo di ritorno all’ingessatura delle strutture produttive

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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi, pubblicata su
Italia Oggi il 30 luglio 2020 – In argomento v. anche La politica del lavoro necessaria per uscire dalla crisi [1]
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Italia allo sbando sulle politiche per il lavoro. L’ultima riforma targata M5s? «La ciliegina sulla torta è stata l’assunzione di migliaia di navigator senza la formazione specifica necessaria e soprattutto senza la necessaria organizzazione. I quali, come era da attendersi, non hanno aiutato nessuno a trovare lavoro, ma hanno assorbito tutte le risorse disponibili per le politiche attive del lavoro». Così Pietro Ichino, giuslavorista, considerato il padre del Jobs act, ex parlamentare del Pd. E che idee ha il Pd? «Sul lavoro oggi è afono, non appare in grado di riempire in alcun modo il vuoto culturale e progettuale del M5S. Così si rischia che il vuoto lo riempia la Cgil». Che ha già ben chiaro l’obiettivo: «Ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori». Ichino in questi giorni è impegnato in giro per l’Italia per la presentazione del suo ultimo libro (L’intelligenza del lavoro [2], ed. Rizzoli): un libro in cui si parla innanzitutto dell’“intelligenza individuale” di cui i lavoratori devono disporre per usare il mercato del lavoro a proprio vantaggio, soprattutto nella crisi gravissima che stiamo attraversando, e poi dell’“intelligenza collettiva del lavoro”, cioè del ruolo di un sindacato che sappia fare il mestiere che gli è richiesto nel sistema delle relazioni industriali del XXI secolo.

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Il Consiglio UE riunito per la decisione sul Recovery Fund – Luglio 2020

Domanda. Tra le riforme che l’Italia dovrà presentare a Bruxelles, dopo aver ottenuto il finanziamento del Recovery Fund, c’è ancora una volta il lavoro. Perché l’Europa ci chiede l’ennesima riforma del lavoro?
R.
Quella che abbiamo fatto tra il 2012 e il 2015 è un’armonizzazione della disciplina italiana del rapporto di lavoro rispetto a quella degli altri partner europei. Quelle che ancora mancano all’appello sono la riforma del sistema della contrattazione collettiva, con lo spostamento verso la periferia del baricentro del sistema, che è compito soprattutto delle parti sociali, sindacati e imprenditori; e la riforma dei servizi al mercato del lavoro.

D. Ma quest’ultima non è già contenuta nel Jobs Act, in particolare nel decreto legislativo n. 150 del 2015?
R.
Sì, ma quella era una riforma che aveva la pretesa di anticipare – sulla base di un accordo tra Stato e Regioni – la riforma costituzionale, che tornava ad attribuire una competenza primaria allo Stato centrale in materia appunto di servizi al mercato del lavoro e in particolare di formazione professionale. Poi la riforma costituzionale è stata bocciata, e gran parte di quel disegno è rimasto inattuato.

[4]D. Se è per questo, anche il governo Conte I ci ha messo del suo per smontare quella parte della riforma.
R.
Sì: la scelta di togliere l’assegno di ricollocazione ai disoccupati ordinari e riservarlo ai soli percettori del reddito di cittadinanza, che sono gli ultimi a poterne utilmente fruire, ha praticamente azzerato questo strumento nuovo, che non ha fatto in tempo neanche a essere sperimentato. Poi la ciliegina sulla torta è stata l’assunzione di migliaia di navigator senza la formazione specifica necessaria e soprattutto senza la necessaria organizzazione. I quali, come era da attendersi, non hanno aiutato nessuno a trovare lavoro, ma hanno assorbito tutte le risorse disponibili per le politiche attive del lavoro.

D. Lei sta descrivendo un sistema paese che, sulla politica del lavoro, è allo sbando, o sbaglio?
R.
Non vedo, né nelle forze di maggioranza, né in quelle di opposizione, alcuna consapevolezza del male gravissimo che affligge il nostro mercato del lavoro: la mancanza di servizi scolastici e di formazione professionale capaci di rispondere alla domanda di lavoro qualificato e specializzato espressa dal tessuto produttivo. Nel primo capitolo del libro che lei ha citato all’inizio mi propongo di mostrare che la domanda di lavoro in Italia è debole, sì, ma noi non riusciamo a rispondere neppure a quella che c’è.

D. Lo sostengono anche gli industriali. Cosa non va?
R.
Nel nostro Paese la produttività ristagna, e con essa la crescita economica, perché non siamo capaci di incentivare, orientare e sostenere efficacemente lo spostamento dei lavoratori dalle aziende poco produttive a quelle più produttive. Che ci sono, eccome, ma non trovano le persone dotate delle professionalità necessarie.

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Il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi

D. Il presidente di Confindustria Bonomi chiede una riforma degli ammortizzatori sociali che favorisca proprio quella mobilità che manca della forza-lavoro.
R.
Fa bene a chiederla. Ma dobbiamo avere ben chiaro il problema cruciale del nostro Paese: che è il difetto di capacità di attuazione concreta delle scelte compiute dal Parlamento e dal Governo. Pensiamo sempre di risolvere i problemi a colpi di nuove norme in Gazzetta Ufficiale, mentre il vero problema è l’incapacità di implementazione: nel campo del lavoro le nostre strutture amministrative mancano pressoché totalmente del know-how indispensabile per coniugare il sostegno del reddito a chi ha perso il lavoro con i servizi adatti per ritrovarlo e con l’applicazione della necessaria condizionalità.

D. Le chiedo: qual è, concretamente, la politica del lavoro che potrebbe contraddistinguere la proposta del nostro governo?
R.
Investire molto su un programma pluriennale di potenziamento dei servizi al mercato del lavoro fondato sulla creazione di un management formato sul campo mediante stages presso i migliori servizi del nord-Europa, l’attivazione di grandi servizi di orientamento scolastico e professionale personalizzato, aperti al pubblico in luoghi ben visibili in tutti i centri cittadini, il rilancio del contratto di ricollocazione come servizio a tutti i disoccupati in difficoltà e al tempo stesso come metodo di cooperazione tra servizio pubblico e operatori privati del settore, il monitoraggio capillare della qualità della formazione professionale, la concentrazione dei finanziamenti sulla sola formazione che funziona.

D. Come si controlla la qualità della formazione professionale?
R.
Rilevando a tappeto il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi: lo si può fare agevolmente istituendo una anagrafe della formazione e incrociandone i dati con quelli delle Comunicazioni Obbligatorie al ministero del Lavoro, delle iscrizioni agli albi ed elenchi professionali, delle iscrizioni alle liste di disoccupazione. È esattamente quello che era previsto negli articoli da 13 a 16 del decreto legislativo n. 150 del 2015, di cui parlavamo prima.

[6]D. Se non ha una politica del lavoro il M5S, il Pd cosa fa?
R.
Oggi sembra non averne una neanche il Pd. In materia di politiche del lavoro è afono, assente da tutti i luoghi che contano; e non appare in grado di riempire in alcun modo il vuoto culturale e progettuale del M5S. Così si rischia che il vuoto lo riempia la Cgil.

D. A che cosa si riferisce?
R.
La Cgil una sua strategia ben precisa ce l’ha: è quella sintetizzata nella sua Carta dei diritti fondamentali delle lavoratrici e dei lavoratori, che prevede tra l’altro il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e addirittura la sua estensione a tutte le imprese, con l’abolizione della soglia dei 15 dipendenti, e il ripristino della vecchia norma sul mutamento delle mansioni. Ora la richiesta della Cgil è che, quando cesserà il blocco attuale dei licenziamenti, per arginarli venga operato appunto il ripristino dell’articolo 18.

D. Lei pensa che la ministra Catalfo possa accogliere questa richiesta?
R.
Non sarebbe la prima volta. Il governo ha già mostrato di essere propenso a dar retta alla Cgil, prima con le norme del decreto Di Maio che hanno reintrodotto la causale per i contratti a termine e imposto restrizioni irragionevoli al lavoro in somministrazione; e da ultimo con la norma sulla proroga ope legis dei contratti a termine.

D. Ma il Pd consentirebbe questo smantellamento totale del Jobs Act?
R.
Dobbiamo sperare di no. Perché sarebbe l’esatto contrario di quello che occorre all’economia italiana: invece che favorire e sostenere la mobilità della forza-lavoro dalle aziende deboli a quelle forti, torneremmo a ingessare le strutture produttive. E a tener lontani gli investitori stranieri.

D. Anche Bruxelles, probabilmente, avrebbe qualche cosa da ridire.

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Mark Rutte, premier olandese

R. Certo: sarebbe paradossale che l’Italia, prima ancora di definire seriamente il contenuto concreto del suo Piano Nazionale delle Riforme, incominciasse proprio con l’azzeramento di quanto ha fatto per ottenere il sostegno della BCE e della Commissione tra il 2012 e il 2015, sul terreno dell’armonizzazione del nostro diritto del lavoro con quello dei principali partner europei. Se accadesse qualche cosa di questo genere potrebbe addirittura saltare l’accordo sul Recovery Fund, col voto parlamentare contrario alla ratifica dell’accordo in qualche Paese del nord. E ce lo saremmo meritato. Il guaio è che molti ancora nel M5S, e qualcuno anche a sinistra, non sperano di meglio per rilanciare l’opposizione al processo di integrazione europea. Non si rendono conto che oggi l’Italia è sulle sue gambe solo perché è dentro la UE e il sistema dell’euro.

D. Comunque, il blocco dei licenziamenti e la Cig incondizionata prima o poi devono finire. Lei cosa propone per far fronte a una crescita esplosiva della disoccupazione?
R. Innanzitutto un potenziamento della NASpI: si può pensare a un trattamento di disoccupazione integrativo a carico dell’impresa che licenzia, pari al 15 per cento dell’ultima retribuzione, per i primi 12 mesi. Così si aumenta al 90 per cento la copertura complessiva e al tempo stesso si incentiva l’impresa a cooperare per la ricollocazione della persona licenziata. Poi occorre reintrodurre l’assegno di ricollocazione per chi non trova la nuova occupazione entro due o tre mesi. Con la clausola che chi non lo stipula perde il sostegno del reddito: la condizionalità funziona così.

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