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QUANDO LA BUROCRAZIA VALUTA SE STESSA

… e si promuove a pieni voti: la regola della valutazione, introdotta con la riforma del 2009, è vanificata dalla fissazione di obiettivi di comodo, comunque attinenti al volume dell’attività svolta e non ai suoi risultati

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Articolo di Marco Ruffolo pubblicato sull’inserto Affari e Finanza de la Repubblica del 14 settembre 2020 – In argomento v. anche l’articolo di Andrea Ichino ed Enrico Cantoni, Merito: perché non bisogna avere paura della valutazione [1] .
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Marco Ruffolo

Sapete come fa il ministero degli Esteri a verificare in che misura viene raggiunto l’obiettivo di “tutelare gli interessi nazionali nel bacino del Mediterraneo”? Lo fa misurando “il numero di incontri bilaterali con i Paesi di competenza”, nonché “il numero di comunicati congiunti concordati con i principali partner internazionali”. Pensate forse che il ministero della Giustizia,  per misurare l’efficacia dei suoi corsi di formazione e aggiornamento, verifichi quanto effettivamente abbiano appreso i partecipanti al corso? Niente affatto: controlla semplicemente che “il loro grado di soddisfazione” arrivi al 90%. E il ministero della Salute? Pensate che tra i suoi obiettivi ci siano i tempi e la qualità delle prestazioni sanitarie erogate sul territorio nazionale? Nulla di tutto questo. L’obiettivo è un altro: riuscire ad aumentare “la percentuale di documenti a valenza esterna predisposti, rispetto a quelli da predisporre”.

Quando si parla non tanto di quello che lo Stato fa, ma di come valuta il comportamento dei propri uffici, si entra in un labirinto dove l’esigenza di dare servizi utili ai cittadini scompare, sostituita da una sola impellente preoccupazione: eseguire quante più procedure possibili, raggiungere un numero massimo di riunioni, comunicati, documenti. Insomma, non servizi reali ma obiettivi di carta. Poco importa se non serviranno a nulla o quasi.

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Carlo Cottarelli

È quanto emerge da uno studio dell’Osservatorio Conti Pubblici Italiani di Carlo Cottarelli, che ha provato a entrare in quel labirinto cartaceo, pomposamente battezzato “ciclo della performance”: centinaia di pagine che ogni amministrazione pubblica deve preparare tutti gli anni, prima scrivendo entro il 31 gennaio un Piano triennale, con tanto di obiettivi e di indicatori utili a verificarne il grado di realizzazione; poi redigendo entro il 30 giugno una Relazione, che dovrebbe valutare il raggiungimento o meno degli obiettivi. A scrivere questa Relazione sono gli Organismi indipendenti di valutazione (Oiv). Li introdusse la riforma Brunetta nel 2009 con l’intenzione di dare le pagelle a chi ci amministra, ossia premi e penalità a seconda dei risultati raggiunti. Ce n’è uno in ciascuna amministrazione, e viene da essa stessa nominato. Insomma, un gioco che si ripete non di rado nel nostro Paese: i controllati che scelgono i propri controllori.

Ma a rendere ancora più assurdo il sistema, ci pensa la fervida immaginazione di chi è tenuto a indicare nero su bianco gli obiettivi da raggiungere. E’ proprio su questo aspetto che si sofferma lo studio dell’Osservatorio, il quale, dopo aver denunciato i ritardi con cui arrivano i documenti – solo il 69% delle amministrazioni ha presentato il Piano, e solo il 41% la Relazione – punta i fari su quattro ministeri: Giustizia, Salute, Interno e Affari Esteri. Tra i dieci obiettivi della Giustizia, uno solo riguarda in modo preciso la durata media dei processi civili. Il Piano 2020 prevede per il triennio un target medio uguale o inferiore a 376 giorni per i processi di primo grado. Ma ecco la sorpresa: nei due anni precedenti la durata media era stata, secondo il ministero, di 369 giorni nel 2018 e di 359 nel 2019. Insomma, ci troviamo di fronte a un obiettivo che invece di migliorare le cose, tende a peggiorarle. Un obiettivo che l’Osservatorio definisce con elegante eufemismo ”poco ambizioso”.

Per il resto, i traguardi programmati dal Piano si limitano a riguardare il grado di utilizzo di procedure e strumenti, come ad esempio “la percentuale di uffici del Giudice di pace con servizi telematici attivi”. Nessuno però si preoccupa di andare a vedere a che cosa siano serviti quei servizi. La sanità: non uno dei dodici obiettivi del ministero della Salute si propone di ridurre i tempi e di alzare la qualità delle prestazioni erogate. Troviamo invece, tra gli altri target, il numero di “campagne promozionali su specifici rischi e malattie”, o la quantità di “pubblicazioni  scientifiche in ambito medico”. Per promuovere gli interventi in materia di corretta alimentazione della popolazione, ci si preoccupa di andare a vedere – come si è già accennato all’inizio – la “percentuale di documenti a valenza esterna predisposti, rispetto a quelli da predisporre”. E il colmo è che per questo obiettivo il target di adempimento è inferiore al 100%: ossia – conclude l’Osservatorio – “si pianifica che non tutti i documenti da predisporre saranno predisposti!”.

Quando dalla salute passiamo alla sicurezza, il nostro viaggio tra le performance della Pa si fa ancora più complicato, perché il ministero dell’Interno ha pensato bene di affiancare a 21 obiettivi generali ben 137 obiettivi operativi intermedi. Una vera montagna di carta. In questo caso, anche l’Organismo indipendente di valutazione non risparmia critiche nella Relazione sulla performance. Critiche che però misteriosamente scompaiono nel documento finale di validazione. Quello che serve a distribuire i premi di risultato ai dirigenti. Alcuni target, poi, costituiscono dei veri e propri enigmi. Per esempio, per l’indicatore “numero di prodotti antincendio commercializzati controllati”, la soglia-obiettivo prevista è pari a 6: “numero che non si capisce bene a cosa si riferisca”, e con quale livello di partenza si confronti.

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Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio

Il mistero non accenna a diradarsi quando passiamo ad esaminare le incongruenze che riguardano gli Esteri e la Cooperazione internazionale. Qui molti dei 24 obiettivi sono infatti espressi in termini assoluti e non, come ci si aspetterebbe, in percentuale. È il caso del “numero di uffici consolari dotati di strumentazione attiva per la captazione dei dati biometrici per il rilascio del passaporto”, o del “numero di domande di visto trattate dalla rete visti italiana nel triennio successivo”. Cifre che prese da sole non significano assolutamente nulla.

E si arriva infine al modo stravagante con cui gli Esteri valutano la “tutela degli interessi nazionali nel bacino del Mediterraneo”, misurata – come si diceva all’inizio- “dalla frequenza degli incontri bilaterali con i Paesi di competenza e dal numero di comunicati congiunti concordati con i principali partner internazionali”. Ossia, quel che importa è l’attività svolta, non i risultati raggiunti.

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