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DICIANNOVE ANNI DALL’ASSASSINIO DI MARCO BIAGI

Fu ucciso, come Massimo D’Antona, perché c’era chi considerava la pretesa di allineare l’Italia a uno standard di civiltà del lavoro europeo fosse un delitto gravissimo – Pure oggi c’è chi lo pensa, anche se per fortuna oggi non c’è più chi lo considera punibile con la morte

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Ricordo di Marco Biagi pubblicato dall’Agenzia di Stampa AdnKronos il 19 marzo 2021, nel diciannovesimo anniversario dell’assassinio – In argomento v. anche la mia intervista pubblicata dalla stessa Agenzia il 19 marzo 2018 [1]
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Il luogo dell’assassinio, sulla porta della casa, in via Valdonica a Bologna

Fra un anno saranno venti da quel 19 marzo. E sembra ieri: la telefonata del direttore del Corriere della Sera sconvolto, che alle otto di sera mi chiede – anzi, mi impone, mostrandomi io molto riluttante – di scrivere entro due ore un commento [3] adeguato all’enormità dell’evento. Ricordo che lo scrissi piangendo. Piangevo di dolore non solo per l’amico carissimo con cui avevo condiviso strettamente fino a quel giorno sia l’impegno didattico in università sia quello editoriale, ma anche e forse ancora di più per l’abisso di barbarie che stava travolgendo il nostro Paese a causa della drammatizzazione insensata di una questione di politica del lavoro. Tre anni prima era stato assassinato Massimo D’Antona, reo di collaborare con il ministro dei Trasporti nel tentativo di mettere ordine nelle relazioni sindacali del settore del trasporto aereo che parevano impazzite. Sia pure in modo diverso, ciascuno con il suo patrimonio politico-culturale, ciascuno nel campo in cui gli era stato chiesto di collaborare con il Governo, entrambi si proponevano di riallineare il nostro Paese rispetto a uno standard di civiltà del lavoro europeo. Ma in Italia c’è chi questo lo considera un abominio. Ancora oggi. Anche se, per fortuna, oggi nessuno ritiene più che si tratti di un delitto per il quale debba applicarsi la pena di morte.

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