- Pietro Ichino - https://www.pietroichino.it -

A CHE COSA SERVE IL SINDACATO NEL SECOLO DELLA GLOBALIZZAZIONE E DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Il compito principale del sindacato 4.0 non è tanto quello del “guardiano dei diritti”, quanto quello di dare alle persone l’assistenza necessaria perché possano usare il mercato del lavoro a proprio vantaggio e, in azienda, consentire la partecipazione attiva delle persone all’impresa e alla divisione dei suoi frutti

.
Articolo tratto dal quarto capitolo del libro
L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore [1] (Rizzoli, 2° ed. 2021), pubblicato nel Quaderno della Formazione PER n. 4/2021 dedicato al tema del lavoro dopo la pandemia e in corso di pubblicazione sul trimestrale Nuova Atlantide, 2021

.

 

Sommario – 1. Sindacato “anima dell’impresa”? – 2. Come cambia il lavoro e come cambia il ruolo del sindacato. – 3. Il nuovo sindacato al servizio delle persone nel “mercato dell’intrapresa”. – 4. Il nuovo sindacato al servizio dei lavoratori dentro l’azienda.

  1. Sindacato “anima dell’impresa”?

Frank Tannenbaum, che pure in gioventù visse, un secolo fa, il movimento sindacale nella fase nascente e più turbolenta, interpretandone lo spirito di contestazione dell’esistente con una determinazione tale da finir coll’essere condannato a un anno di carcere e scontarlo per intero, apre il suo saggio A Philosophy of Labor (1951) con una frase sconcertante: “Trade-unionism is the conservative movement of our time”, il sindacalismo è il movimento conservatore del nostro tempo. Poi però nel corso del saggio spiega questa affermazione, osservando (qui cito dalla p. 103 dell’edizione italiana) che

[2]La grande impresa industriale, proprio in quanto può offrire solo pane e companatico, si è rivelata incapace di rispondere alla rivendicazione della buona vita. Il sindacato, pur con tutti i suoi difetti, può salvare la grande impresa con tutta la sua efficienza incorporandola nella sua “società” naturale, vale a dire nella sua forza di lavoro unitaria, e dotandola dei significati che sono patrimonio di tutte le vere società: significati che offrono all’uomo qualcosa d’ideale nel suo viaggio dalla culla alla tomba. […] In un certo modo la grande impresa e la sua forza di lavoro debbono […] cessare di essere una famiglia divisa e apparentemente in stato di guerra.

Il sindacato, dunque, nella visione dell’irrequieto e poliedrico studioso statunitense, è (più precisamente: può e deve essere) “forza conservatrice” non nel senso banale del termine, cioè di un fattore di conservazione delle strutture produttive o dei rapporti economico-sociali esistenti, bensì nel senso di forza capace di salvare l’impresa capitalistica facendola vivere di una vita nuova, dandole ciò che essa da sola ha difficoltà a darsi.

Perché questo avvenga, tra le due parti può esserci dialettica, a tratti anche conflitto, ma non antagonismo: il “cessare di essere una famiglia divisa” di cui parla Tannenbaum implica che ciascuna delle due parti attivi nel proprio cervello i neuroni-specchio che le consentono – come si è scritto al termine del capitolo precedente – di gioire e soffrire di ciò di cui gioisce o soffre l’altra. Solo così – scrive F.T. in un’altra pagina del saggio – attraverso la conciliazione, resa possibile dal sindacato, del proprio interesse al profitto con l’interesse dell’umanità che in essa lavora a una buona vita, l’impresa riesce, nientemeno, a “darsi un’anima”.

Si capisce bene perché, secondo questa filosofia del sindacato, il sindacalismo moderno si fonda su “un radicale ripudio del marxismo” (ivi, p. 5): il sindacalismo infatti incarna l’antitesi dell’antagonismo lavoro/impresa. La buona qualità del sindacato si traduce in buona qualità dell’impresa, e viceversa; il successo del sindacato è il successo dell’impresa, e viceversa. E se questa era una indicazione di rotta proponibile alla metà del secolo scorso, quando ancora erano di là da venire i computer, Internet, l’automazione e l’intelligenza artificiale, ancor più essa va sostenuta oggi, in un contesto tecnologico nel quale il controllo della persona umana sul processo produttivo è messo in discussione da sfide del tutto nuove e molto più impegnative.

Durante la seconda metà del secolo scorso è accaduto frequentemente e a tutte le latitudini e longitudini che il sindacato abbia svolto un ruolo sostanzialmente “conservatore”, non nel senso in cui questo termine è usato dallo studioso statunitense, bensì proprio nel senso assai più terra terra della difesa dello status quo contro la “distruzione creatrice” tipica dell’economia capitalistica. Ciò è accaduto in tutti i casi – e sono davvero molti – nei quali i lavoratori di un’azienda si sono opposti con o senza temporaneo successo alla sua ristrutturazione in funzione dell’evoluzione tecnologica o delle mutevoli esigenze espresse dal mercato; e anche a questo è dovuto il declino del prestigio del sindacato che già veniva rilevato dagli osservatori più attenti quasi mezzo secolo fa (tra gli altri Bruno Manghi, che nel 1977 parlava a questo proposito di “sindacalismo di opposizione”). Se questa fosse l’essenza del sindacalismo, vorrebbe dire che esso è condannato a svolgere un ruolo di retroguardia: proprio di questo, infatti, esso è accusato da più parti e a questo esso deve in gran parte la perdita di consenso subita nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Per scrollarsi di dosso l’accusa di essere il freno a mano dell’impresa e al tempo stesso rompere l’“accerchiamento” cui è intitolato il saggio di Guido Baglioni del 2008, il sindacato del XXI secolo deve riscoprire la funzione che Frank Tannenbaum gli attribuiva nel pieno della seconda rivoluzione industriale e adattarla al contesto della quarta.

Nell’era della globalizzazione, dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, nella quale il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate e degli stessi prodotti si misura non più in decenni ma in mesi, il sindacato può proporsi di restituire all’impresa l’“anima” – nel senso di cui si è appena detto – soltanto interiorizzando la necessità dell’evoluzione tecnologica e dedicandosi a inventare le forme in cui i lavoratori possono esserne resi protagonisti, possono dominarla.

Se già nel contesto della terza rivoluzione industriale il sindacato aveva bisogno di un buon sistema di ammortizzatori sociali e di “politiche attive del lavoro” per evitare di ridursi a conservatore dello status quo, ancor più si può escludere che in un contesto caratterizzato dall’evoluzione tecnologica più rapida che si sia mai conosciuta il sindacato possa farcela da solo. E a questo punto neppure la “legislazione di sostegno” anni ’70 e gli ammortizzatori sociali anni ’80 e ’90 bastano più: è indispensabile che l’azione del nuovo sindacato si coniughi con un sistema di “garanzie sociali”: cioè un sistema di workfare intelligente, che non si limiti a rilevare burocraticamente il danno causato al lavoratore da una sopravvenienza negativa e a burocraticamente indennizzarlo, ma si adoperi con gli strumenti adatti in relazione a ciascun caso, per porre ciascuna persona in grado di cavarsi d’impaccio. Proponendosi di evitarlo, il danno, prima che di indennizzarlo. Senza questo sistema di workfare di nuova generazione il sindacato è portato, per la natura delle cose, a diventare fattore di conservazione nel senso deteriore del termine; e nell’epoca attuale segnata dalla quarta rivoluzione industriale questo può costare carissimo al sindacato stesso e alla società tutta. Proprio per questo il nuovo sindacato deve essere, del nuovo sistema di workfare, promotore assiduo, controllore attento e garante.

In questo ordine di idee, l’espressione “sindacato dei diritti” è appropriata solo se con essa si vuol indicare un sindacato tra le cui funzioni ci sia quella di tutelare i diritti assoluti della persona: la sua libertà, la sua dignità, la sua salute e integrità fisica e psichica, il suo diritto alla riservatezza, il suo diritto a non essere discriminata. Ma per il resto il nuovo sindacato deve caratterizzarsi non in chiave meramente difensiva, bensì come agente che guida i lavoratori e li rappresenta nella loro scommessa comune con l’imprenditore, li pone in condizione di conoscere e quindi in qualche misura controllare sotto ogni aspetto l’andamento dell’azienda. Che consente loro, nel modo opportuno in relazione alle caratteristiche di ciascuna azienda, di partecipare collettivamente essi stessi all’impresa.

Non più, dunque, sindacato che si limita a negoziare il “catalogo dei diritti” dei lavoratori nel contratto collettivo nazionale e poi a controllarne la corretta applicazione in periferia, tutt’al più aggiungendo qualche cosa in sede aziendale ai diritti stabiliti in sede centrale: il compito principale del sindacato 4.0 non è tanto quello del “guardiano dei diritti”, quanto quello di consentire la partecipazione attiva delle persone all’impresa e alla divisione dei suoi frutti. Un compito che non può essere svolto se non al livello dell’impresa medesima e con un forte aumento del peso della contrattazione aziendale nel sistema delle relazioni industriali.

  1. Come cambia il lavoro e come cambia il ruolo del sindacato

Ogni anno che passa la summa divisio giuridica dei lavoratori tra subordinati e autonomi corrisponde sempre meno alla realtà dell’organizzazione del lavoro nel tessuto produttivo. Prosegue la diffusione di forme non tradizionali di inserimento organico della prestazione lavorativa personale nell’organizzazione aziendale: il “coordinamento spazio-temporale” tipico del lavoro subordinato viene sempre più diffusamente sostituito dal coordinamento realizzato mediante collegamento telematico col sistema informatico aziendale; con la legge n. 81/2017 viene riconosciuta esplicitamente la compatibilità di questa forma di organizzazione della prestazione con il contratto di lavoro subordinato. Nell’ultimo quinquennio prende piede l’ingaggio di persone per servizi di vario genere la cui prestazione è organizzata mediante piattaforme digitali (i platform workers tipicamente operanti nel settore della c.d. gig economy): una forma di organizzazione del lavoro che all’inizio della XVII legislatura, nel 2013, quando si incominciò a discutere della riforma che sarebbe poi stata chiamata Jobs Act, era ancora pressoché totalmente sconosciuta al dibattito politico-sindacale, essendo operativa soltanto per un segmento di servizi di lusso con un numero di addetti trascurabile. Oggi invece si stima che nel nostro continente essa coinvolga già il due per cento della forza-lavoro, con tendenza a un aumento rapido.

Quanto al profilo della qualità professionale e forza contrattuale delle persone che lavorano, in Italia come in tutti i Paesi sviluppati, i sociologi del lavoro rilevano sì un aumento della quota del lavoro precario soprattutto giovanile, ma meno marcato di quanto lo sia la “precarizzazione percepita” dall’opinione pubblica; e con percentuali di insoddisfazione delle persone coinvolte sorprendentemente basse: i tassi più alti di insoddisfazione riguardano semmai i livelli retributivi. Assai marcata è invece la tendenza alla polarizzazione della forza-lavoro occupata, che si registra a tutte le longitudini e latitudini: cresce la fascia alta dei professionals e dei tecnici, si riduce quella intermedia degli impiegati esecutivi e degli operai specializzati, cresce la fascia bassa degli addetti ai servizi alla persona e alle comunità locali; e cresce la divaricazione tra le retribuzioni della fascia alta e quelle della fascia bassa. Con la conseguenza che diventa più problematica l’attivazione di legami di solidarietà tra gli appartenenti all’una e all’altra.

[3]Nel suo ultimo libro il politologo Maurizio Ferrera (2019) individua i tratti distintivi di una nuova classe di lavoratori deboli e fortemente a rischio di povertà, che chiama il “quinto stato” in queste tre condizioni personali: rapporto di lavoro occasionale, a termine, comunque non a tempo indeterminato; livello basso della professionalità e quindi della retribuzione; assenza di reti di sicurezza di natura familiare, previdenziale o sindacale. Lo stesso M.F. attribuisce a questa classe un sesto della forza-lavoro complessiva, circa il 15 per cento degli occupati. A una valutazione quantitativa analoga giunge anche Luca Ricolfi (2019) in riferimento a quella che indica – forse con un eccesso di enfasi – come l’“infrastruttura para-schiavistica”.

La vera sfida che oggi le politiche del lavoro devono affrontare è questa dell’aumento apparentemente inarrestabile delle disuguaglianze di produttività tra le persone nell’ambito dello stesso contesto sociale, e anche della stessa categoria professionale. Qui non ci sono scorciatoie legislative o contrattuali che consentano di risolvere il problema con un tratto di penna: anzi, la pretesa di eguagliamento per decreto – ricomparsa ultimamente nella norma sui ciclofattorini collegati a distanza con la piattaforma digitale, contenuta nel decreto n. 101/2019 convertito nella legge n. 128/2019 – può persino aggravare i danni proprio per coloro che si vogliono proteggere. Qui l’uguaglianza, prima che garantita per legge o per contratto, va costruita nel vivo della società civile e del tessuto produttivo, coll’offrire a chi è meno dotato un surplus di servizi di formazione mirata, di informazione e di assistenza alla mobilità. In questo contesto, il vero compito del sindacato nel mercato del lavoro è promuovere – più che l’uguaglianza – la parità di opportunità: ciò che si può fare soprattutto aiutando i più deboli ad arricchire la propria dotazione professionale, neutralizzando i loro handicap, compensando le asimmetrie informative che li penalizzano. Su questo terreno la domanda di rappresentanza e di servizi oggi senza risposta è molto ampia ed è soprattutto il sindacato che deve candidarsi a dare le risposte che mancano.

  1. Il nuovo sindacato al servizio delle persone nel “mercato dell’intrapresa”

Si deve incominciare a ragionare di un duplice livello di adesione della singola persona all’associazione sindacale, cui corrisponde una duplice funzione del nuovo sindacato: servizio alle persone nel mercato e servizio alle persone dentro l’impresa.

Il primo livello di adesione è quello riservato a chiunque, quale che sia la condizione del suo lavoro o non lavoro: dipendente da un’azienda, lavoratore autonomo, collaboratore continuativo, lavoratore “agile” operante nella zona grigia tra le due grandi categorie tradizionali, platform worker della gig economy, disoccupato, o giovane al primo ingresso nel mercato. A questo livello, l’iscriversi al sindacato ha immediatamente l’effetto per così dire mercantile di acquisire il diritto a un servizio di orientamento e informazione sul mercato e le opportunità che esso offre, del tipo di quello di cui abbiamo parlato nel primo capitolo, in rete con l’analogo servizio pubblico. Ma il significato essenziale del “prendere la tessera” non sta nella possibilità di godere di questo, come di altri servizi che il sindacato può offrire: sta piuttosto nell’entrare a far parte di un organismo – necessariamente confederale – che si propone di sostenere il “lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” cui si riferisce l’articolo 35 della Costituzione; che si propone di essere, più precisamente, uno strumento utile per tutti coloro che vogliono porsi in grado di “usare” il mercato del lavoro intendendolo anche come “mercato dell’intrapresa”; cioè per tutti coloro che vogliono porsi nella condizione di poter scegliere l’imprenditore più capace di valorizzare il loro lavoro, individualmente o collettivamente, e non solo di esserne scelti.

[4]In questo ordine di idee, il nuovo sindacato non si limita a fornire ai propri iscritti servizi – pur necessari – di informazione e orientamento sulle possibilità offerte dal mercato e i percorsi necessari per accedervi. Esso si propone soprattutto come un’associazione statutariamente dedicata a rafforzare con ogni mezzo la capacità di iniziativa dei propri iscritti nel mercato, ad ampliare la loro libertà di scelta tra le imprese e al tempo stesso a cambiare profondamente il loro modo di guardare alle imprese. Un’associazione che li incoraggia a pretendere di valutare la qualità delle imprese e li aiuta a farlo concretamente.

Rientra in questo livello di attività del nuovo sindacato anche una mappatura precisa delle imprese, che indichi di ciascuna il grado effettivo di trasparenza e di partecipazione, al fine di valorizzare questo dato nel “mercato dell’intrapresa”, attivando ed esplicitando la concorrenza tra imprese su questo terreno. E ponendo le informazioni risultanti da questa mappatura a disposizione delle persone interessate: ciascuno deve sapere, quando stipula il contratto di lavoro con un’impresa, come essa si caratterizza per questo aspetto; e ciò deve poter incidere sulla sua scelta.

In questa prima grande area di attività del nuovo sindacato va comunque sottolineata l’importanza prioritaria del compito – oggi totalmente disatteso anche dalle confederazioni sindacali maggiori – di rivendicare costantemente e controllare incisivamente il buon funzionamento dei servizi pubblici per l’impiego, dall’orientamento alla formazione, al collocamento, all’assistenza intensiva per le persone in difficoltà; con una attenzione particolare al meccanismo di attribuzione del rating a ciascun corso di formazione, sulla base della rilevazione sistematica del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, di cui abbiamo parlato nel primo capitolo. Il tutto con l’obiettivo di assicurare ai propri iscritti, e non solo a loro, quello che abbiamo chiamato “l’articolo 18 del XXI secolo”: cioè la formazione professionale efficace. Quella che consente davvero di accedere alle numerose opportunità occupazionali che si offrono nel tessuto produttivo.

  1. Il nuovo sindacato al servizio dei lavoratori dentro l’azienda

Il secondo livello dell’adesione all’associazione sindacale è quello che riguarda le persone già inserite in un’azienda. Il ruolo che il sindacato svolge nel loro interesse deve individuarsi innanzitutto, come è ovvio, in quello tradizionale di rappresentanza nei confronti dell’imprenditore e controllo sul rispetto della disciplina protettiva, di fonte legislativa o collettiva. Ma la cultura del mercato del lavoro e dell’intrapresa che caratterizza il nuovo sindacalismo di cui stiamo parlando implica un’evoluzione e un arricchimento di questo ruolo dell’organizzazione.

[5]

Una possibile scommessa comune dei lavoratori con l’imprenditore: ampliare la parte variabile per guadagnare di più

Se la qualità dell’imprenditore lo consente, e nella misura in cui lo consente, il nuovo sindacato deve proporsi una ragionevole evoluzione dei rapporti aziendali dal modello tradizionale caratterizzato dalla invarianza delle retribuzioni e dallo scarso interesse dei lavoratori per l’andamento dell’azienda, verso il modello caratterizzato dalla scommessa comune sull’innovazione di processo e di prodotto, quindi sulla partecipazione organizzativa dei lavoratori, su un sistema di circolazione delle informazioni circa l’andamento dell’azienda che consenta un loro controllo effettivo, e su di una loro partecipazione effettiva al godimento dei frutti dell’aumento di produttività – se non addirittura della redditività – dell’impresa. In questa ottica, la dinamica delle retribuzioni deve fondarsi soprattutto su di un aumento del peso assoluto e relativo della parte variabile legata a indici di produttività o di redditività; essa deve quindi essere governata soprattutto dalla contrattazione aziendale o comunque da meccanismi che ne determinino in qualche misura il collegamento all’andamento aziendale.

Il nuovo sindacato deve avere come suo campo d’azione elettivo l’azienda perché una parte essenziale del suo ruolo consiste nel proporsi come una sorta di partner dell’imprenditore. Per questo il sindacato in azienda deve dotarsi dei “neuroni-specchio” necessari per godere dei successi dell’impresa e soffrire delle sue difficoltà, allo stesso modo in cui altrettanto deve fare l’imprenditore nei confronti dei propri dipendenti. Non si tratta di quella sorta di buonismo che nel secolo scorso veniva bollata come “mistificazione interclassista”; e neanche di un tentativo di riabilitazione della pratica del “sindacato giallo”, cioè promosso, sostenuto o comunque pilotato dall’imprenditore: caratteristica essenziale del nuovo sindacato di cui stiamo parlando è, al contrario, la sua genuina autonomia, gelosamente difesa sia nella fase genetica, sia nell’esercizio di tutte le sue funzioni. Si tratta invece di trarre fino in fondo le conclusioni dalla convinzione che non può esserci lavoro buono senza una buona impresa, così come non può esserci una buona impresa senza lavoro buono.

Certo, i neuroni-specchio funzionano tanto meglio, quanto più l’imprenditore è eticamente affidabile e la gestione aziendale è trasparente. E quanto più ai lavoratori è consentito partecipare al processo decisionale sulle questioni organizzative che li riguardano più da vicino. Ma spetta, appunto, anche al sindacato adoperarsi perché si determinino le condizioni migliori affinché trasparenza gestionale e partecipazione si sviluppino, nella consapevolezza che esse fanno parte di un gioco a somma positiva: tutti hanno da guadagnarci.

.
.