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LAVORO: L’ECCEZIONE ITALIANA

La knowledge economy aiuta a mantenere alti livelli di occupazione, ma l’Italia è ancora in mezzo al guado; e il suo tessuto produttivo non è in grado di produrre nuova occupazione

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Fondo di Maurizio Ferrera, professore di Scienza della Politica nell’Università degli Studi di Milano, pubblicato sul
Corriere della Sera il 2 luglio 2021 – In argomento v. anche Che fare oggi per proteggere e promuovere il lavoro [1]

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Maurizio Ferrera

Il tema del lavoro è  oggi al centro dei dibattiti  in tutta Europa.  Solo in Italia  l’attenzione è  però quasi  tutta  focalizzata sui licenziamenti e  sugli ammortizzatori sociali.  Questa ossessione  è   connessa alla cultura fortemente protezionistica  che  (ancora) caratterizza  i sindacati e  larghi segmenti della sinistra.  Ma vi sono altre comprensibili  e più profonde ragioni, su cui è bene riflettere.

Perdere il lavoro è sempre un’esperienza traumatica. In un paese con una quota ancora altissima – rispetto agli altri Paesi – di famiglie monoreddito,  il licenziamento  può  avere serie conseguenze  in termini  di sicurezza,   soprattutto quando finiscono le indennità di disoccupazione.   Non è un caso che l’80%  di  italiani  dichiarino oggi di essere molto preoccupati  per la propria situazione economica nei prossimi due anni:  20 punti in più della Germania, il doppio della Danimarca.   La  pandemia ha esasperato la situazione.  Ma  quella  di  perdere il posto è da noi una paura atavica,  che ci portiamo  dietro sin dagli anni Cinquanta del secolo scoro.  Una paura che  spiega perché  la  Cassa integrazione  – e non  la NASPI – sia considerata l’ammortizzatore sociale per eccellenza.   E  che  al tempo stesso  la spasmodica  avversione  al  licenziamento, anche  quando  le aziende  non  riescono più a   restare sul mercato. Durante la crisi Covid,  solo una manciata di paesi  ha introdotto  il divieto  di  licenziare,  per brevi periodi di tempo.  In Italia  il blocco è  durato quindici mesi, ed è peraltro ancora in vigore  per alcuni settori.

Negli altri paesi  i lavoratori disoccupati  vengono trasferiti su un binario parallelo di ricollocamento.  Il secondo reddito della famiglia e l’indennità temporanea di disoccupazione attutiscono l’insicurezza economica, mentre  i servizi per l’impiego  accompagnano  verso un nuovo posto di lavoro,  quasi sempre dopo un periodo di ri-qualificazione professionale.   In Italia  il licenziamento  rischia invece  di  essere un salto nel buio.  Le politiche attive sono  deboli e poco efficaci.  Molte imprese cercano  personale da assumere, a patto che  abbia certe competenze.  Manca però un sistema  informativo nazionale,  mentre le politiche  formative  sono gestite da  una molteplicità di attori, con risorse  scarse e  metodi  poco efficaci.

Ovviamente,  le politiche attive  hanno tanto più successo quanto più   numerose sono le richieste  delle  imprese.   La crisi Covid ha depresso  in tutta Europa la domanda  di lavoro e a pagarne le conseguenze sono state  in particolare  donne e giovani  con contratti a termine.  Ma il problema italiano è che già prima della pandemia i  livelli di occupazione erano  molto bassi.  E’ questo il  bandolo della matassa.  In Italia non c’è abbastanza lavoro.  La sesta economia del pianeta riesce  ad occupare solo il 58%  dei propri adulti, di contro al 65% della Francia, ad  una media UE del 68% e al  77% della Germania.  Vuol dire  milioni di posti di lavoro in meno.

Il deficit  riguarda soprattutto il settore dei servizi. In parte è  l’esito del  “familismo” all’italiana, che  ancora relega una grande quantità di  donne a produrre entro le mura domestiche quei  servizi di cura  che altrove in Europa vengono erogati  dallo stato o dal mercato – creando così occupazione.  In altra  parte,  i posti scarseggiano  a causa dei tanti colli di bottiglia che ostacolano  la concorrenza e il dinamismo del terziario. Più in generale,  a parte rare eccezioni, il nostro paese  non è riuscito a  innescare  i  motori di sviluppo  tipici  delle  economie post-industriali.    Sulle mappe  che  mostrano  dove  sono  in Europa  i  cosiddetti  “hub”  di  crescita  ( valore aggiunto e occupazione),  la penisola italiana  offre un quadro desolante.  Le regioni del Sud sono una delle più  ampie zone  grigie  (prive di hub)  del continente.  Mentre la costa spagnola e le Baleari, la Corsica, le isole greche e Cipro sono indicati come “paradisi del turismo”, in tutto il  Mezzogiorno rientra in questa categoria solo la provincia di Olbia.  Il  resto  sopravvive  principalmente  grazie  al  bilancio  pubblico.  E nel Centro Nord  i  distretti  “ad alta intensità  di conoscenza”  sono molto  meno numerosi che  nei paesi  centro-continentali e nordici.

Secondo la tesi di due noti scienziati politici, Thorben Iversen e David Soskice, la diffusione il radicamento della  knowledge economy  (intesa in senso  ampio: non solo tecnologia, ma anche turismo, cultura, intrattenimento,  istruzione e ricerca)  sono oggi condizioni necessarie per mantenere alti livelli di occupazione e  salvaguardare  al tempo stesso prosperità e democrazia.   L’Italia  è  ancora in mezzo al guado. E  persino nei territori  dove  si è accesso  il motore post-industriale,  la crescita del valore  aggiunto non  ha generato tutta  l’occupazione potenziale .

Di questo  si dovrebbe parlare oggi; è in questa cornice  che dovrebbe inserirsi  il dibattito  sul  lavoro.  Parlare solo di ammortizzatori sociali   non fa che riprodurre la  trappola della paura.  Per dare fiducia ai  giovani,  ci vorrebbe  un  piano strategico  per  riempire  la  penisola di  hub,  con  una fitta rete di  punti d’accesso.  Accompagnato da una comunicazione  politica   imperniata  sulle  garanzie di  opportunità,  in modo da  neutralizzare quel riflesso condizionato  che  induce  a  privilegiare sempre e soltanto le garanzie di protezione.

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