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LA GREAT RESIGNATION: QUANDO SONO I LAVORATORI A SCEGLIERSI L’IMPRENDITORE

“Pietro Ichino vide già prima della pandemia che una parte sempre maggiore delle persone è in grado di selezionare l’azienda dove il proprio lavoro è meglio valorizzato; e che dunque il mercato del lavoro non può più essere visto come un luogo dove è soltanto l’impresa a selezionare i propri collaboratori”

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Articolo di Dario Di Vico pubblicato su
Sette, settimanale del Corriere della Sera, il 18 febbraio 2022 – Tutte le recensioni, gli interventi e le interviste relative al libro cui questo articolo si riferisce sono facilmente raggiungibili attraverso la pagina web a esso dedicata [1]

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Dario Di Vico

Nel 2020, all’uscita del libro di Pietro Ichino L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore [1], la comunità dei giuslavoristi italiani l’aveva accolto con la puzza sotto il naso. Una delle tante provocazioni di Pietro, un altro dei suoi paradossi, avevano conmentato ed erano passati oltre. E invece ora, con i dati sulle uscite volontarie dal lavoro che si leggono sui giornali, quel testo converrebbe riprenderlo in mano e gustarlo. Il fenomeno da noi non è lo stesso che in America, qui gli esperti preferiscono parlare di transizioni e non di abbandono. Vuol dire che in prevalenza ci si licenzia per scegliersi un posto diverso e migliore.

“Siamo di fronte a una maggiore mobilità spontanea delle persone”, commenta Ichino. “Sarà che molti hanno sperimentato lo smartworking, se ne sono innamorati e ora vogliono lavorare solo per aziende che lo prevedono. Sarà che il Pnrr sosterrà la domanda e promette che avremo tanta occupazione, ma questo conferma e accentua quanto già era ben visibile prima: nel mercato del lavoro non è più solo l’impresa a scegliere”. Ichino in questo fenomeno ci vede addirittura l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che se indica al cittadino il dovere di svolgere un’attività, però aggiunge “secondo le proprie possibilità e la propria scelta“.

Come altre volte gli è accaduto, spesso sulle pagine del Corriere della Sera, il giuslavorista milanese ha percepito in anticipo una tendenza che si sarebbe accentuata ed affermata solo in seguito (in questo caso come effetto della pandemia) ma che non sappiamo ancora se sarà congiunturale o diventerà strutturale nel nostro mercato del lavoro. Se fossero anche i dipendenti a ingaggiare l’imprenditore più capace di valorizzare le loro qualità saremmo davanti a una piccola rivoluzione.

“La possibilità di andarsene sbattendo la porta perché c’è l’azienda che ti tratta meglio, sa valorizzare meglio il tuo lavoro, è un fattore di dignità della persona che vive del proprio lavoro che vale molto più di qualsiasi legge, contratto collettivo, o intervento di ispettori, avvocati e giudici”. E obbliga il sindacato a una metamorfosi, ad attivarsi per far sì che tutti, anche i meno dotati, possano acquisire la necessaria “intelligenza (da intus legere: leggere dentro) del mercato del lavoro”. A farsi esso stesso “intelligenza collettiva” al servizio dei lavoratori, per porli in condizione di trarre il massimo vantaggio possibile dal mercato in cui operano e dal tessuto produttivo.

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