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CAUSE E RIMEDI PER LA STAGNAZIONE DELLE RETRIBUZIONI

La produttività media non cresce perché sono troppe le strutture improduttive che manteniamo in vita; ma anche a causa della nostra chiusura agli investimenti diretti esteri e della cattiva qualità dell’incontro domanda/offerta – Sul livello italiano dei salari pesa anche il più elevato contenuto assicurativo del contratto di lavoro subordinato

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Intervista a cura di Maurizio Cattaneo, pubblicata il 27 maggio 2022 su
Verità & Affari – In argomento v. anche un mio intervento di dieci anni or sono: Che cosa mantiene basse le retribuzioni italiane [1]

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[2]Professor Ichino, una ricerca della Bce dimostra come in Italia gli stipendi crescono molto meno rispetto ai paesi Ue. A fronte, nel primo trimestre, di un +4,3% della Germania, l’Italia registra un +0,6%. E con un’inflazione al 6% ciò genera un grande problema. Perché da noi le retribuzioni non crescono?
Di questa stagnazione si possono dare diverse letture. Probabilmente ciascuna di esse contribuisce a spiegare una parte del fenomeno.

Vediamole una per una.
La prima spiegazione è anche la più ovvia e banale: le retribuzioni medie non crescono perché non cresce la produttività media del lavoro. E questa non cresce perché è schiacciata dalle troppe aziende ed enti pubblici dove la produttività è molto, molto bassa e che ciononostante manteniamo in vita a tutti i costi. Per altro verso, il nostro Paese è molto meno aperto agli investimenti diretti esteri di quanto siano gli altri maggiori Paesi europei; e le imprese multinazionali sono mediamente più capaci delle imprese indigene – il dato indica addirittura un 50 per cento in più – di valorizzare il lavoro dei dipendenti, cioè di renderlo più produttivo.

Passiamo alle altre chiavi di lettura del fenomeno.
La produttività media è bassa perché è di cattiva qualità l’incontro fra domanda e offerta di lavoro: in Italia si registra un tasso di sottoutilizzazione delle competenze delle persone più alto rispetto agli altri maggiori Paesi europei. E questo a sua volta è la conseguenza di una carenza diffusa di servizi di qualità per le persone e le imprese nel mercato del lavoro. Ma c’è anche chi attribuisce un effetto depressivo sulla produttività al più elevato contenuto assicurativo che caratterizza il rapporto di lavoro nel nostro Paese.

Può spiegare meglio?
Il contenuto del contratto di lavoro dipendente non è costituito soltanto da uno scambio di attività con retribuzione, ma anche da una sorta di polizza assicurativa: l’impresa si accolla in qualche misura il rischio delle sopravvenienze negative, “vendendo sicurezza” al dipendente.

In che senso “vendendo sicurezza”?
Nel senso che questa sicurezza i dipendenti in realtà la pagano con una minor retribuzione. È una sorta di “premio assicurativo”, che ovviamente non viene esplicitato nelle buste-paga, ma che è ben visibile se confrontiamo la differenza di retribuzione tra un lavoratore autonomo e uno subordinato, a parità di contenuto dell’attività prestata.

Faccia un esempio.
Pensiamo all’idraulico, all’antennista, all’elettricista che ingaggiamo come lavoratore autonomo per una riparazione domestica: per un’ora di lavoro gli paghiamo 80 o 100 euro. Quella stessa attività, se svolta in forma di lavoro subordinato, può costare complessivamente all’impresa 40 o 50 euro, cioè circa la metà. Ecco: la differenza tra le due è il premio assicurativo che il dipendente paga all’imprenditore. Premio destinato a coprire i rischi che questi si accolla: malattia, imperizia o negligenza del dipendente, inattività dell’azienda per carenza di domanda, oppure di materia prima, ecc.

Come si fa a sostenere che il contenuto assicurativo implicito del rapporto di lavoro dipendente in Italia è superiore rispetto al resto d’Europa?
Innanzitutto, in Italia è nettamente più alto rispetto agli altri maggiori ordinamenti europei il costo del licenziamento: anche senza contare i casi di reintegrazione giudiziale, l’indennizzo previsto dalla legge arriva a un massimo che è più alto del 50 per cento rispetto a quello spagnolo e a quello francese ed è il doppio rispetto a quello tedesco. Questo significa che l’impresa italiana, prima di arrivare al licenziamento,  è disposta a sopportare una perdita – in termini contabili o di “costo opportunità” – più alta del 50 o del 100 per cento rispetto alla perdita che è disposta a sopportare un’impresa spagnola, francese o tedesca. Poi c’è il contenuto assicurativo esplicito: la contribuzione previdenziale.

Anche questa più alta in Italia?
Sì: da noi il “cuneo previdenziale” si aggira intorno al 50 per cento della retribuzione lorda. L’obiettivo dovrebbe essere di allinearlo al livello francese o a quello tedesco, che sono di almeno un terzo inferiori.

Si può pensare a una riduzione del “premio assicurativo” di cui lei parla, con corrispondente aumento delle retribuzioni?
È quello che proposi in un mio libro del 2005 intitolato A che cosa serve il sindacato: per esempio, l’impresa potrebbe concordare con i dipendenti un aumento secco delle retribuzioni del 3 per cento, in cambio della soppressione o riduzione della retribuzione per i primi due giorni di malattia. Con un tasso medio del 2 per cento di assenze per malattie di uno o due giorni, ci guadagnerebbero sia l’impresa, sia la quasi totalità dei lavoratori: gli unici a perderci sarebbero gli assenteisti abituali.

Ma questo non va contro il contratto collettivo nazionale?
Dal 2011 in Italia il contratto nazionale può essere derogato dal contratto aziendale, purché a stipularlo sia una coalizione sindacale maggioritaria nell’azienda. Certo, per questo occorre un sindacato che sappia fare bene il proprio mestiere.

Crede che congelare gli aumenti sia inevitabile visti i costi dell’energia e delle materie prime?
No. Le retribuzioni possono aumentare anche in questo contesto; ma gli aumenti devono essere collegati agli aumenti di produttività, dunque essere negoziati al livello aziendale.

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