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LE RETRIBUZIONI NON POSSONO CRESCERE SE NON CRESCE LA PRODUTTIVITÀ

E perché aumenti la produttività occorre smettere di difendere le strutture poco produttive; e favorire invece in tutti i modi, anche con incentivi economici, il trasferimento delle persone da queste strutture a quelle più dinamiche, capaci di valorizzare meglio il loro lavoro – E armonizzare il contenuto assicurativo del rapporto rispetto alla UE

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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi, pubblicata da
Italia Oggi il 2 giugno 2022 – In argomento v. anche un mio intervento di dieci anni or sono: Che cosa mantiene basse le retribuzioni italiane [1]

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Gli stipendi medi in Italia sono più bassi rispetto agli altri Paesi europei maggiori, anche perché scontano la più bassa produttività media del  lavoro… tendiamo a mantenere in vita enti pubblici, così come aziende private, poco o per nulla produttivi più a lungo di quanto accada negli altri Paesi. Così cresce solo la produttività delle aziende più avanzate, ma la media resta ferma, dice Pietro Ichino, giuslavorista dell’Università Statale di Milano, ex-parlamentare del Pd, considerato il padre del Jobs Act. La proposta del ministro del Lavoro Andrea Orlando di legare i salari all’inflazione? “Il ministro Orlando sa bene che reintrodurre una scala mobile significherebbe gettare benzina sul fuoco dell’inflazione. E l’inflazione f danno soprattutto ai redditi fissi”.  In merito al lavoro che c’è, in realtà “da anni ormai le aziende più dinamiche incontrano difficoltà crescenti a trovare il personale che cercano: la difficoltà riguardava il 32 per cento delle ricerche a fine 2019, prima della pandemia, ora riguarda il 38 per cento”.

[2]D. Professor Ichino, la tabella pubblicata dall’OCSE è davvero impressionante: mentre in alcuni Paesi le retribuzioni sono aumentate di due volte e mezza, in Italia sono rimaste ferme o addirittura arretrate. Come si spiega questo dato disastroso?
R. La tabella dell’OCSE riguarda un periodo di tre decenni, dal ’90 al 2020, durante il quale alcuni Paesi, in particolare tutti quelli che compaiono nella parte alta, sono usciti dal sistema sovietico, raddoppiando o addirittura triplicando il prodotto interno. Non possiamo certo confrontare la nostra situazione con questi. Dobbiamo confrontarci con la Germania e la Francia, che nel trentennio hanno visto aumentare le retribuzioni medie di oltre il 30 per cento. Certo è che noi, invece, siamo rimasti quasi fermi.

D. Appunto. Come spiega una performance italiana così meschina?
R. Le spiegazioni possibili sono molte; e ciascuna probabilmente coglie una parte delle cause di questa stagnazione. Tutte comunque partono, per così dire “a raggiera”, da un fatto da cui non si può prescindere: l’andamento delle retribuzioni è strettamente correlato con quello della produttività del lavoro. Se questa non cresce, difficilmente possono crescere quelle.

D. Partiamo dunque da questo dato. Perché la produttività del lavoro non cresce?
R. La produttività del lavoro è il prodotto di due fattori: la qualità dell’azienda, cioè del contesto organizzativo e strumentale in cui la persona è inserita, e l’impegno della persona stessa. Solitamente, da sinistra si sottolinea solo il primo fattore, da destra solo il secondo. Ma contano tutti e due: basti considerare che è sufficiente l’azzeramento di uno solo dei due fattori per azzerare il risultato.

D. Incominciamo dal discorso “di sinistra”: che cosa manca in Italia dal punto di vista della organizzazione e della strumentazione?
R. Rispetto agli altri maggiori Paesi europei, il nostro Paese è molto meno aperto agli investimenti diretti esteri. Anche per una ostilità bipartisan nei confronti delle multinazionali. La realtà è che queste sono mediamente assai più capaci delle imprese indigene di valorizzare il lavoro dei dipendenti, cioè di renderlo più produttivo. Poi occorre considerare che noi tendiamo a mantenere in vita enti pubblici, così come aziende private, poco o per nulla produttivi più a lungo di quanto accada negli altri Paesi. Così cresce solo la produttività delle aziende più avanzate, ma la media resta bassa.

D. Rimedi?
R. Non mantenere in vita, difendendole con le unghie e coi denti, le strutture improduttive; al contrario, favorire, assistere e sostenere in ogni modo il trasferimento dai lavoratori da queste a quelle più produttive. Questo trasferimento presenta dei costi per le persone, in termini di stress e di mutamento delle abitudini precedenti; talvolta richiede uno spostamento geografico; ecco: occorrerebbe una politica di assistenza e incentivo economico al trasferimento, capace di renderlo più sicuro e compensarne abbondantemente il costo personale e familiare.

D. Un rimedio un po’ costoso.
Non più costoso, certo, che tenere in vita carrozzoni pubblici o semipubblici: penso a tante aziende regionali o comunali. Oppure aziende decotte, il cui personale viene tenuto in cassa integrazione per anni.

[3]D. Ma le aziende più produttive sono interessate ad assumere personale proveniente da queste strutture improduttive?
R. L’indagine Unioncamere-Anpal risponde a questa domanda con dei dati impressionanti. Da anni ormai le aziende più dinamiche incontrano difficoltà crescenti a trovare il personale che cercano: la difficoltà riguardava il 32 per cento delle ricerche a fine 2019, prima della pandemia, ora riguarda il 38 per cento.

[4]Anche per le categorie professionali più basse?
Sì, ce n’è per tutti. I casi di difficoltà di reperimento superano il 60 per cento per operai specializzati e qualificati del settore tessile e abbigliamento, per i fonditori, i saldatori, i meccanici, i riparatori, i manutentori, gli antennisti. Superano il 40% per cuochi, macellai, falegnami, mungitori, e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

Dunque lei dice che sul livello medio dei salari italiani pesa anche un funzionamento difettoso dei servizi al mercato del lavoro?
R. Sì: se fossimo capaci di innervare il tessuto produttivo con una rete capillare di servizi efficienti di orientamento professionale, informazione, formazione mirata alle esigenze delle imprese e controllata nella sua efficacia, non solo aumenterebbe la sicurezza economica dei lavoratori, ma aumenterebbe la loro produttività media.

Lei ha sostenuto che sul livello dei salari italiani pesa anche un più alto contenuto assicurativo del contratto di lavoro. Questo significa che negli altri paesi della Ue il lavoro subordinato è meno garantito?
Ogni contratto di lavoro contiene una sorta di polizza assicurativa, nel senso che l’impresa si accolla in qualche misura il rischio delle sopravvenienze negative, “vendendo sicurezza” al dipendente. Questa maggior sicurezza i dipendenti in realtà la pagano con una minor retribuzione: una sorta di “premio assicurativo”, che ovviamente non compare nelle buste-paga, ma che è evidente se si confronta la differenza di retribuzione tra un lavoratore autonomo e uno subordinato, a parità di contenuto dell’attività prestata. E naturalmente, quanto più alto è il contenuto assicurativo, tanto più alto è il “premio” che si paga, in termini di minor retribuzione. Questo può spiegare almeno una parte della differenza tra le retribuzioni medie dei maggiori Paesi UE.

[5]Ridurre quello che lei chiama “contenuto assicurativo” del rapporto significherebbe maggiore flessibilità. Questo non significherebbe penalizzare ulteriormente i lavoratori?
R. C’è un contenuto assicurativo implicito nel contratto di lavoro, la “polizza” di cui parlavo prima, e uno esplicito, costituito dalle assicurazioni obbligatorie, con la corrispondente contribuzione. Su entrambi i piani i contratti di lavoro italiani si caratterizzano per un sovraccarico di contenuto assicurativo rispetto agli altri Paesi europei maggiori, in primo luogo Francia e Germania. Un riallineamento rispetto a questi due Paesi, per entrambi gli aspetti, avrebbe un impatto positivo anche sulla produttività media del lavoro; e potrebbe essere contrattato in cambio di un aumento retributivo. Complessivamente, i lavoratori non ne risulterebbero penalizzati.

Sta proponendo di allineare la contribuzione obbligatoria a quella della Francia o della Germania?
R. Una cosa è certa: questa è l’unica misura che lo Stato può prendere per aumentare le retribuzioni nette, se si esclude l’istituzione dello standard minimo orario, che però le parti sociali oggi sembrano rifiutare.

Il governatore della Banca d’Italia invita a evitare una spirale salari-inflazione. Per il ministro del lavoro Orlando invece è proprio all’inflazione che vanno agganciati i salari.
R. Il ministro Orlando parla solo di necessità di aumentare le retribuzioni, ciò che è compito della contrattazione. Ma sa bene che reintrodurre una “scala mobile” significherebbe gettare benzina sul fuoco dell’inflazione; e che l’inflazione fa danno soprattutto ai redditi fissi.

Il segretario della Cgil chiede una riforma fiscale che riduca la tassazione su lavoro dipendente e pensioni a partire dai redditi più bassi. Concorda?
R. Attualmente la fascia di reddito da lavoro dipendente o pensione esente da Irpef arriva ai 15.000 euro annui. Mi sembra un livello accettabile. Al di sopra di questa soglia, credo anch’io che si debba ridurre la pressione fiscale, al pari di quella contributiva; ma questo implica che la si sposti sul consumo, o sulla proprietà. Che è proprio quello che ci raccomanda la UE.

Sul tavolo c’è anche la detassazione degli aumenti salariali contrattati da qui in avanti.
R. Questo, certo, è uno dei modi in cui la detassazione può realizzarsi. La detassazione dovrebbe essere riferita – come si è già fatto negli anni scorsi – ai premi collegati agli aumenti di produttività o di redditività dell’azienda. Ivi compreso un premio di default, istituito dal ccnl ma liberamente sostituibile ad opera della contrattazione aziendale, collegato alla variazione del margine operativo lordo registrata in azienda nell’ultimo anno.

Un nuovo patto governo-sindacati-imprese potrebbe essere una via per comporre le diverse esigenze e sostenere produttività e lavoro in questa fase straordinaria?
R. La concertazione può costituire la “marcia in più” per la nostra economia, come è accaduto nel 1992-93. Ma essa presuppone che tra governo, sindacati e imprenditori ci sia un sostanziale consenso quanto meno sugli obiettivi generali da conseguire e sulle linee essenziali per realizzarli. Oggi, purtroppo, se si esclude la posizione della Cisl, non sembra che il nostro sistema delle relazioni industriali soddisfi questo requisito.

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