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LAVORO A TERMINE: ANATOMIA DI UNA MEZZA FAKE NEWS

I giornali presentano il dato assoluto ISTAT di maggio come “la punta massima dei contratti a tempo determinato dal 1977”; non dicono che il dato di allora corrispondeva al 23 per cento del totale del lavoro dipendente, a fronte del 17,6 attuale

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Numero 133 del bollettino
Mercato del Lavoro News, organo della Fondazione Anna Kuliscioff, 5 luglio 2022, a cura di Claudio Negro – In argomento v. su questo sito anche il numero 130 [1] dello stesso bollettino

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[2]I dati ISTAT sul mercato del lavoro relativi al mese di Maggio non forniscono indicazioni di grande rilevanza. La flessione occupazionale complessiva (- 49.000 unità rispetto ad Aprile) è il primo non sorprendente portato delle avvisaglie di rallentamento dell’economia: una connessione che potremo apprezzare in modo più preciso quando ISTAT pubblicherà la nota mensile sull’andamento dell’economia, previsto per il 1° luglio ma rinviato all’11 di questo mese. Qualche indicazione comunque la forniscono i dati Confindustria che segnalano per maggio un – 1,4% per la produzione industriale, mentre l’indice PMI (programmi di acquisti delle imprese) perde2,5 punti.
Ciò detto, è opportuna qualche precisazione; come prevedibile i media si son buttati sull’unico dato che poteva presentare un qualche glamour: il numero dei lavoratori a termine (3 milioni 176 mila) che rappresenta il numero più alto in assoluto dal 1977. Ovviamente, più o meno palesemente a seconda della propensione all’understatement della testata, il dato viene presentato come prova provata della precarizzazione del lavoro. E’curioso però osservare che nel fatidico 1977 la percentuale dei contratti a termine sul totale dei lavoratori dipendenti fosse addirittura del 23% contro l’attuale 17,6%. Però allora il termine precarietà si riferiva tutt’al più ad un tavolino che traballasse sulle gambe..!
Un’altra osservazione è opportuna: l’incremento negli ultimi anni dei contratti a termine (per intenderci) dal 12.2%% del 2004 al 17,6% attuale) non è avvenuto a decremento dei contratti a tempo indeterminato che sono passati dai 14.220.000 ai 14.797.000 nello stesso periodo. Anzi: La crescita dei contratti a termine oltre a non avere danneggiato il lavoro stabile ha contribuito massicciamente ad aumentare l’occupazione: dai 19 milioni e mezzo del 1977 ai quasi 23 milioni attuali, con un tasso di occupazione salito dal 54% al 59,8% (fonte: ISTAT statistiche report – dati ricostruiti dal 1977).
Utile fare un confronto tra le diverse economie europee: Eurostat fornisce un dato (aggiornato al 2021) che illustra la percentuale di lavoratori a termine in rapporto al totale degli occupati (quindi sia dipendenti che autonomi): il dato medio per l’Area euro è il 13,2%, per la Germania il 10,5%, per la Francia il 13,1%, per la Svezia il 13,2%, per l’Olanda addirittura il 23,1%, è per l’Italia il 13,2%, esattamente come la media europea. Non esiste quindi nessuna particolare prerogativa italiana per il lavoro a termine, che usiamo esattamente come le altre economie forti d’Europa.
La piaga della disoccupazione e il flagello della precarizzazione esistono, come effetto del lavoro a termine, solo nei sermoni sindacali e nelle spettacolarizzazioni dei media. Il problema vero non è il lavoro che manca ma il fatto che la domanda e l’offerta di lavoro non s’incontrino: problema che non si risolve né coi sussidi né con marchingegni amministrativi. Altra cosa è il rispetto di leggi e contratti di lavoro, altra cosa è il part-time indesiderato, altra ancora il basso potere d’acquisto delle retribuzioni. Ma tutte queste criticità hanno ben poco a che fare con un fisiologico utilizzo, comparato con la situazione degli altri paesi europei, del contratto a termine.
Vale la pena invece di mettere a fuoco qualche dato positivo: cresce molto più che nelle altre fasce d’età l’occupazione della fascia più giovane (+ 16,8% negli ultimi 12 mesi). Aumenta leggermente rispetto ad Aprile il tasso di inattività (+0,2%) a causa delle stesse dinamiche che hanno prodotto la flessione del dato sull’occupazione. Tuttavia la flessione del lavoro dipendente in presenza di una crescita del lavoro autonomo dopo 15 mesi di calo deve essere letto probabilmente come indicatore della direzione dei flussi di mobilità innescati dal fenomeno (in realtà piuttosto modesto) delle dimissioni volontarie.(A cura di Claudio Negro)

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