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DALLA BULIMIA RIVENDICATIVA AL SINDACATO DEL NULLA?

Le rivendicazioni presentate da Cgil Cisl e Uil al Governo sembrano riferite più alla Londra di Dickens o alla Parigi di Hugo che all’Italia del 2022: un approccio ideologico, fondato su una lettura della realtà emozionale, retorica ed esasperata, disancorata da un’obiettiva lettura dei dati

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Numero 136 del bollettino
Mercato del Lavoro News, organo della Fondazione Anna Kuliscioff, 31 ottobre 2022, a cura di Claudio Negro – In argomento v. anche, dello stesso Autore, La disinformacjia del sindacato [1]  .

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[2]Pare ormai relativamente chiaro il panel delle rivendicazioni delle Confederazioni Sindacali al Governo che verrà. Si tratta, come del resto è stato con il Governo Draghi, di un approccio marcatamente ideologico, fondato su una lettura della realtà emozionale, retorica ed esasperata, disancorata da un’obiettiva lettura dei dati e riportata ad una somma di percezioni individuali che, per esempio sulla questione della diffusione della povertà, confermano il pre-giudizio ideologico che il Sindacato ha della società e dell’economia del Paese. Una visione che, curiosamente, rimanda più alla indigenza popolare nella Londra di Dickens o ai Miserabili di Hugo che all’Italia del 2022 dove le imprese cercano centinaia di migliaia di lavoratori ma ne trovano si e no la metà, mentre 12 milioni di persone in età da lavoro né lavorano né lo cercano. Una curiosa contraddizione che però il Sindacato Confederale non mette mai a fuoco, derubricandola a fenomenologie di conforto, tipo le retribuzioni troppo basse (quindi questi disoccupati indigenti possono essere un po’ choosy) o gli orari di lavoro non gestibili dalle donne (ma poi il part time diventa discriminazione).
I bisogni manifestati sono riconducibiliad un sistema di  giudizi pseudo etici, spesso senza riscontro nella realtà e sconfinanti in uno scenario tra il sociologico e il politico, in cui viene perduta la dialettica tra capitale e lavoro e quindi la materialità delle relazioni industriali.  Le questioni poste sono collocate in una dimensione ideologico – palingenetica e declinate come diversi step di una trasformazione epocale della società: la missione del sindacato è redentrice e rigeneratrice. In questo contesto è perfino risibile parlare di requisiti di fattibilità e di sostenibilità, quando i traguardi sono la fine delle diseguaglianze, delle sofferenze, una nuova società, ripensare il modello capitalista che “ha ormai mostrato tutte le sue inadeguatezze e le sue insufficienze”.  In questo lago di retorica affiora ogni tanto un fiorellino sorprendente, esibito con sprezzo della realtà, come la contrattazione aziendale obbligatoria per legge o l’abrogazione del Jobs Act per mettere limite ai licenziamenti.

Tuttavia esiste anche un panel di rivendicazioni puntuali, il cui carattere immaginario-propagandistico è facilmente riscontrabile. L’ultimo hit è la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, declinato in due versioni: in quella di Landini, in cui le ore non lavorate vengono destinate alla formazione (ma le ore di formazione, sia quelle fatte coi Fondi Interprofessionali che quelle fatte col Fondo Nuove Competenze, sono retribuite anche se sono aggiuntive all’orario di lavoro); in quella della UIL, che innovativamente sostiene che la produttività non vada misurata in orario di lavoro ma per obiettivi. In entrambi i casi la rivendicazione puntuale è la riduzione d’orario a parità di stipendio, mentre non è affatto detto (forse perché impossibile…) in cosa consisterebbe il vantaggio competitivo. In realtà l’unico effetto tangibile e collaterale dell’operazione pare essere quella di aumentare la retribuzione oraria.

Assai gettonata è una riforma fiscale in senso progressivo: il Sindacato sa benissimo che l’IRPEF è già molto fortemente progressiva, grazie alla progressività delle aliquote e all’effetto delle detrazioni/esenzioni/bonus. 8.250.000 lavoratori dipendenti hanno IRPEF = 0 o addirittura negativa, e altri 3 milioni pagano 100 € al mese. Analogamente per i pensionati, sicchè il 43,68% dei contribuenti paga il 2,31% dell’Irpef; più in generale il 78,8% dei contribuenti paga il 28,3% di tutto l’IRPEF. Più progressivo di così …

Per la stessa ragione metter mano al cuneo fiscale non è ovvio come dichiarano i sindacati: intervenire sul cuneo fiscale non diminuisce il costo-azienda e non dà benefici, o al massimo marginalissimi agli 11 milioni e mezzo ai lavoratori che si collocano sotti 20.000 € annui lordi di reddito. Per un effetto reale sulle retribuzioni nette occorrerebbe annullare la contribuzione previdenziale, con un vantaggio medio sul netto intorno al 9%. Ma le pensioni chi le paga poi?

Il lavoro a termine può essere cancellato con un tratto di penna, “come hanno fatto in Spagna”. Un delirio di onnipotenza legislativa non ancora guarito dalla fallimentare esperienza del Decreto Dignità. Nell’inguaribile propensione nazionale al provincialismo si trascura poi di notare che la legge spagnola è soprattutto destinata alla Pubblica Amministrazione, che là è usa abusare dei contratti a termine (quasi il 30% del totale), fenomeno da noi esistente solo in modo marginale. E comunque per effetto della nuova legge i contratti a termine in Spagna sono scesi al 23%, mentre in Italia sono già al 17%, nella media europea.

Gettonatissimo, e popolarissimo anche tra le forze politiche, è un approccio al sistema previdenziale fondato su due assunti: superare (?) la Legge Fornero, anticipare l’età pensionistica (senza penalizzazioni, s’intende…). Al momento va per la maggiore l’ipotesi di pensionamento a 62 anni: cinque anni in meno del livello attuale. Ma la gara al ribasso è ancora in corso… Certo, i conti sembrano volgari quando si sente la mission di costruire una nuova società, però è opportuno notare che nel 2020 lo sbilancio tra contributi pagati e spesa previdenziale è stato di 39 mld; se si aggiunge la spesa assistenziale, il saldonegativo del sistema obbligatorio non finanziato dalla contribuzione, ricadente sulla fiscalitàgenerale, è salito a 79,3 miliardi di euro. L’anticipo di 5 anni dell’età pensionabile ovviamente amplierebbe pesantemente questo disavanzo: il Sindacato parla di una misteriosissima “riforma strutturale” per farvi fronte, che però risulta arcana quanto il terzo mistero di Fatima.

Recentemente ha avuto una qualche celebrità anche un non meglio precisato “reddito universale” da garantire a tutti coloro che non abbiano reddito da lavoro, pensione o ammortizzatore sociale.

Al di là della natura immaginaria di queste istanze, sulle quali non viene mai condotto un esame di fattibilità, emerge dal discorso delle Confederazioni Sindacali un orientamento strategico piuttosto chiaro: i costi delle rivendicazioni e delle tutele dei lavoratori sono da porre a carico della spesa pubblica. È probabile che questa propensione si sia sviluppata durante la crisi covid, quando tutti gli interventi di sostegno all’economia e ai redditi erano di natura pubblica; tuttavia lasciaperplessi constatare che perfino le ovvie rivendicazioni di tutela dei salari dall’inflazione non sono rivolte alla controparte naturale ma allo Stato, con detassazioni e decontribuzioni che prendono il posto degli aumenti salariali. Ci sarà modo di discutere e verificare se questa sia una scelta con effetti positivi sull’inflazione o se sarà una bomba sul debito pubblico. Resta il fatto che in questo quadro il sistema di relazioni industriali tende a mutare, con lo Stato che in parte si sostituisce alle imprese nella dialettica salariale. Ma, dato che lo Stato ha un altro sistema di relazioni per rispondere alle istanze delle categorie, e risponde a scelte politiche e non a sollecitazioni negoziali, il ruolo del Sindacato Confederale rischia di diventare poco più che agitatorio. Rischio che naturalmente i dirigenti delle Confederazioni respingono con indignazione, citando a testimonianza della propria rappresentatività gli imponenti numeri dei propri iscritti: il che tuttavia testimonia assai poco, se non che la pratica sindacale concreta e quotidiana dei Sindacati di Categoria sui luoghi di lavoro è ancora capace di gestire lo scambio tra lavoro e impresa con realismo e capacità negoziale e di stare al passo con l’innovazione, e in questo di assicurare al sindacato il consenso dei lavoratori; assieme per la verità ad un sistema di servizi ai cittadini (pardon: alle persone) piuttosto efficiente.
Ma se le Confederazioni  non sapranno fare una riflessione su chi e come e per che cosa rappresentano rischiano di non servire più a nulla, se non a scopo agitatorio.    Un sindacato del nulla, di cui proprio preferiremmo fare a meno.

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