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PERCHÉ E COME IL REDDITO DI CITTADINANZA VA CORRETTO

Qualsiasi forma di sostegno del reddito dei disoccupati ha un effetto depressivo sulla propensione media al lavoro degli stessi se non è accompagnata da una assistenza personalizzata e da una effettiva condizionalità – C0me queste possono credibilmente configurarsi

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Intervista a cura di Pietro De Leo pubblicata su
Libero il 22 novembre 2022 – In argomento v. anche la mia intervista del 27 ottobre a Italia Oggi, Far funzionare il mercato del lavoro [1]

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[2]Professor Ichino, a tre anni dall’introduzione del reddito di cittadinanza, il governo di centrodestra appronta un “giro di vite” rivolto solo ai percettori abili al lavoro. Lei è d’accordo con una stretta?
Che una correzione sul versante dei beneficiari idonei al lavoro retribuito, e in particolare dei giovani NEET – Not in Employment, Education or Training – sia necessaria, lo riconoscono anche Pd e Terzo Polo.

Chi difende lo strumento così com’è rivendica l’equazione secondo cui modificarlo significa “attaccare i poveri”.
Se la correzione è costruita bene, è interesse anche dei beneficiari abili al lavoro che essa venga varata: altrimenti c’è un alto rischio che il sostegno del reddito di cui godono diventi per loro una trappola.

Si è ampliato il sussidio quando ancora bisognava strutturare tutto il resto, compreso il ruolo dei navigator. Si può dire che il reddito di cittadinanza ha questo vizio d’origine?
Sì. Lo si è voluto presentare come una misura di politica del lavoro, senza fare nulla di ciò che andava fatto perché potesse esserlo. E dettando norme che mostrano in chi le ha scritte una scarsissima conoscenza di come funziona il mercato del lavoro.

Può spiegare meglio?
Nella legge istitutiva del reddito di cittadinanza si è scritto che il sussidio sarebbe stato perduto dopo il rifiuto da parte del beneficiario della terza “offerta congrua” di lavoro. Evidentemente nessuno aveva spiegato al ministro del Lavoro di allora che l’offerta congrua non esiste.

Non esiste?
No. Chi ha scritto quella norma pensa che gli imprenditori presentino al Centro per l’Impiego la richiesta di una persona, per esempio: un operaio elettricista; e che il CpI inoltri questa proposta a un disoccupato elettricista; poi, se quello rifiuta, lo denuncia all’Inps. Ma questo non accade mai, perché qualsiasi imprenditore, prima di offrire l’assunzione, vuole conoscere la persona, verificarne le capacità e qualità personali, l’interesse effettivo al lavoro. Basta che il disoccupato si mostri poco interessato perché l’offerta non gli venga rivolta.

Vuole dire che in questi tre anni non è mai accaduto, neanche una sola volta, che qualcuno abbia perso il reddito di cittadinanza per rifiuto reiterato di un’“offerta congrua di lavoro”?
Proprio così: non solo non si è mai registrato un “rifiuto reiterato”, ma non si è mai registrato neppure un “primo rifiuto”. In tre anni i soli, pochissimi, casi di decadenza dal beneficio sono stati casi di totale irreperibilità del beneficiario al domicilio indicato.

Ma allora come potrebbe funzionare la “condizionalità” del sostegno del reddito nei confronti di chi è abile al lavoro? La domanda di lavoro non scarseggia?
Non scarseggia affatto. Un’indagine permanente svolta da Unioncamere e Anpal [3] avverte che in quattro casi su dieci le imprese italiane hanno gravi difficoltà a trovare le persone che cercano, dal più alto al più basso livello di professionalità. Il compito dei servizi per l’impiego dovrebbe consistere nell’attivare un percorso di formazione o addestramento mirato a ciascuna di queste, che in gergo si chiamano hard-to-fill vacancies. È quel percorso che dovrebbe essere offerto al percettore del sussidio. E, questo sì, lo può offrire direttamente il CpI.

[4]E se il percettore rifiuta?
Se il rifiuto è ingiustificato, la decadenza dal sussidio dovrebbe essere immediata: nei Paesi del centro e nord-Europa non viene ammesso il rifiuto senza motivo plausibile.

I navigator sono stati mal impiegati, oppure l’introduzione di questa figura era di per sé inutile e bastava ottimizzare i Centri per l’Impiego?
Si è pensato che bastasse selezionare e assumere tremila brave persone e mandarle allo sbaraglio con due sole settimane di addestramento; ma nei Paesi in cui i servizi per l’impiego funzionano i job advisors hanno due anni di formazione specialistica post-laurea.

Al reddito di cittadinanza viene mossa anche una critica di ordine – diciamo così –  “culturale”, che suona più o meno così: il sussidio svilisce la cultura del lavoro e innesca una distorsione, alimentando l’attesa della mancetta. Lei cosa ne pensa?
Questa critica potrebbe essere mossa a qualsiasi forma di sostegno del reddito dei disoccupati non accompagnata da un servizio di accompagnamento di ciascun beneficiario e quindi da una efficace “condizionalità”. Perché qualsiasi sussidio, senza assistenza e condizionalità, ha in qualche misura un effetto depressivo sulla propensione media al lavoro delle persone che ne fruiscono. Ma la condizionalità richiede ciò di cui parlavamo poco fa: la capacità del sistema di attivare i percorsi di formazione o addestramento mirati agli sbocchi occupazionali disponibili. E per questo l’improvvisazione non basta.

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