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IL PENDOLO DEI VOUCHER E IL METODO SPERIMENTALE

Il governo vuole agevolare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro nella fascia professionale più bassa tornando ad allargare le maglie della disciplina del lavoro occasionale – Gli effetti andrebbero verificati applicando il metodo sperimentale

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Articolo di Lucia Valente, professoressa di diritto del lavoro nell’Università La Sapienza di Roma, pubblicato il 2 dicembre 2022 sul sito
lavoce.info – Sul tema dell’applicazione del metodo sperimentale alle politiche sociali e del lavoro v. anche, su questo sito, l’articolo di Andrea Ichino in occasione dell’assegnazione del premio Nobel agli economisti Angrist, Card e Inbens, Il metodo sperimentale al servizio del lavoro e del welfare [1]

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La professoressa Lucia Valente

Breve storia di una norma travagliata

Quando, nel 2003, il “lavoro accessorio” fu introdotto nel nostro ordinamento sulla base del modello belga, poteva essere utilizzato per una serie molto limitata di attività tassativamente indicate dal legislatore, rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro o in procinto di uscirne: per esempio, disoccupati di lunga durata, studenti, immigrati extra-comunitari, pensionati, disabili. Il lavoro accessorio poteva essere utilizzato soltanto fuori dall’impresa, per pagare il lavoro in famiglia come baby sitting, giardinaggio, lezioni private, manutenzione, o presso gli enti senza fini di lucro. La sua durata massima era assai ristretta: 30 giorni in un anno solare. Si configuravano come rapporti di natura meramente occasionale e accessoria solo quelli che non superassero il compenso di 5 mila euro nel corso di un anno solare, innalzato a 10 mila per il lavoro reso in favore di un’impresa familiare. Entro questi limiti, il compenso poteva essere pagato mediante buoni-lavoro, i cosiddetti voucher, che includevano anche la contribuzione assicurativa e previdenziale. Ne era escluso il lavoro in agricoltura; ma a partire dal 2005 pensionati e studenti potevano essere ingaggiati e pagati con i voucher anche per la vendemmia.

Nel 2008 con la legge n. 133 si amplia il novero dei soggetti che possono essere ingaggiati e pagati con i voucher. Nel 2009 con la legge n. 33 si consente l’utilizzo dei voucher anche alle imprese. Per le imprese familiari resta il tetto di 10 mila euro, mentre quelle agricole possono utilizzare lavoratori di questo tipo non solo per le attività di carattere stagionale ma anche per l’intero ciclo produttivo compresa la trasformazione e commercializzazione dei prodotti, nel limite di 5 mila euro nel corso dell’anno solare. Nel 2010 si autorizza l’uso dei voucher anche per pagare prestazioni di lavoro accessorio rese in favore di un committente pubblico, per la vendita porta a porta, per il lavoro svolto nei maneggi, nelle scuderie e negli stadi. In via sperimentale (ma chi ha misurato gli effetti?) per il 2009, il lavoro accessorio può essere prestato in tutti i settori produttivi e anche verso la pubblica amministrazione dai percettori di cassa integrazione, nel limite di 3 mila euro di compenso nell’arco dell’anno.

Con la cosiddetta legge Fornero, del 2012, la norma cambia di nuovo, con l’obiettivo di semplificare la disciplina, ma anche di contrastare le pratiche elusive di obblighi contributivi e fiscali. Vengono aboliti tutti i limiti soggettivi e oggettivi: quindi tutti possono prestare lavoro accessorio nei confronti di chiunque e in tutti i settori produttivi. Ma si introducono nuovi limiti quantitativi: il tetto massimo per ogni prestatore di lavoro è di 5 mila euro. Fermo restando questo limite, nei confronti dei committenti imprenditori commerciali o professionisti le prestazioni non possono invece superare il compenso annuo di 2 mila euro.

L’avvento della piattaforma Inps per il lavoro occasionale

Nel 2014 il ministro Poletti decreta la liberalizzazione del lavoro accessorio con la soppressione del requisito della sua “natura meramente occasionale” e con l’innalzamento del limite riferito al compenso. Con il Jobs act, il limite per ogni lavoratore è portato a 7 mila euro nel corso dell’anno civile (non più solare) riferito alla totalità dei committenti, 2 mila euro rivalutati annualmente per singolo committente se questo è un imprenditore o un professionista. Il costo del voucher per il datore di lavoro è fissato a 10 euro l’ora lordi.

L’esplosione del numero di voucher attivati che si registra nel 2016 dà il via a una campagna mediatica fortemente critica, cui fa seguito la promozione del referendum abrogativo da parte della Cgil. Nel 2017 il governo Gentiloni abroga la vecchia disciplina, introducendone una nuova (che verrà modificata nel 2018 dal “decreto Dignità”) volta ad appesantire i passaggi amministrativi per rendere tracciabile l’utilizzo del lavoro occasionale mediante una piattaforma gestita dall’Inps, eliminando il sistema cartaceo dei buoni lavoro. Ne viene anche drasticamente ridotto il campo di applicazione con l’esclusione dall’utilizzo dei voucher di tutte le imprese con più di 5 dipendenti; viene riportato il tetto a 5mila euro complessivi per ciascun prestatore e ciascun utilizzatore; e viene fissato il limite di ore annue lavorabili a 280 (pari a 35 giorni), distinguendo tra il lavoro occasionale svolto per le imprese il cui valore è pari a 9 euro lorde l’ora e quello svolto per le famiglie, che vale 10 euro lorde l’ora.

Il nuovo intervento

Ora, la manovra presentata dal governo Meloni interviene sulla disciplina delle prestazioni occasionali limitandosi a introdurre alcuni necessari correttivi: la norma garantisce maggiore flessibilità alle imprese, soprattutto nei settori ad alta stagionalità, e maggiore trasparenza ai lavoratori. Non va dimenticato, infatti, che rispetto al passato se i lavoratori occasionali lavorano più di 12 ore al mese devono essere informati prima dell’inizio della prestazione su tutti gli aspetti di disciplina del rapporto di lavoro, compresa la paga oraria, la durata e la collocazione temporale della prestazione, in applicazione del decreto 104/2022 che recepisce una direttiva europea.

Una prima novità riguarda il tetto ai compensi. La norma torna a innalzare da 5 mila a 10 mila euro la somma complessiva che ciascun utilizzatore può pagare in riferimento alla totalità dei prestatori occasionali di cui si avvale in un anno civile. Resta invariato il limite di 2.500 euro per il compenso che ciascun lavoratore può ricevere dallo stesso utilizzatore.

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La seconda novità riguarda il limite della dimensione dell’impresa che può fare ricorso al contratto per prestazioni di lavoro occasionale: il numero massimo dei dipendenti passa da 5 a 10 e si applica anche agli alberghi e alle strutture ricettive per le quali il “decreto Dignità” aveva innalzato il limite a 8 dipendenti.

La terza novità riguarda il lavoro in agricoltura. In questo settore il lavoro occasionale può essere svolto da tutti, indipendentemente dall’età e dalla condizione soggettiva, per un periodo non superiore a 45 giorni nell’anno solare e il compenso giornaliero pattuito dalle parti non può essere inferiore alla misura minima fissata per la remunerazione di tre ore lavorative, anche qualora la durata effettiva della prestazione giornaliera sia inferiore.

Quali sono gli effetti della semplificazione?

Di fronte a questo continuo oscillare del pendolo nell’arco dell’ultimo ventennio, col divampare di inconcludenti polemiche a ogni modifica legislativa, vien da chiedersi se non sia il caso, una buona volta, di sottrarre la questione alle dispute ideologiche che accompagnano ogni riforma di istituti lavoristici, sottoponendo la misura a una sperimentazione scientifica degli effetti secondo lo stesso metodo che si applica per l’autorizzazione all’uso dei farmaci. Si tratterebbe di applicare la norma in una zona sufficientemente ampia, per esempio una provincia, ed effettuare il confronto di quanto accade in questa zona con quanto accade in un “campione di controllo” statisticamente identico. Solo così sapremo se e quanto i voucher hanno, oppure no, un effetto sostitutivo o destrutturante rispetto al lavoro ordinario, e dunque quanto sono utili per favorire e rendere trasparente il lavoro nelle fasce professionalmente più basse.

A tale riguardo vale la pena richiamare la Dichiarazione [3] sottoscritta da una trentina di giuslavoristi, costituzionalisti ed economisti del lavoro, a conclusione di un convegno del 2011 organizzato dalla Fondazione Giuseppe Pera, nella quale si afferma non soltanto l’opportunità dell’applicazione del metodo sperimentale per testare gli effetti delle misure progettate in materia di lavoro o di politica sociale, ma anche la piena legittimità costituzionale della differenziazione temporanea e sperimentale della disciplina necessaria per applicare il metodo stesso.

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