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ANCORA SUL LIVELLO BASSO DELLE RETRIBUZIONI ITALIANE

Occorre favorire in tutti i modi il trasferimento dei lavoratori dalle imprese marginali a quelle più produttive – Sono centinaia di migliaia i posti di lavoro che potrebbero essere attivati subito, se solo fossimo capaci di far funzionare i servizi di informazione e formazione mirata necessari

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Intervista pubblicata dai quotidiani del Gruppo
Quotidiano Nazionale il 10 gennaio 2023 – In argomento v. anche la mia intervista dell’ottobre scorso su Come si può rendere più produttivo il lavoro degli italiani [1]  

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[2]Professor Ichino, gli economisti della Bce pronosticano un aumento dei salari in Europa nei prossimi mesi, come effetto delle spinte sindacali per recuperare potere d’acquisto. Ritiene che possa accadere anche da noi?
Se si esclude il settore industria, negli altri settori sono moltissimi i contratti collettivi nazionali il cui termine è scaduto da mesi o da anni. È ovvio che questi contratti debbano essere rinnovati. Occorrerebbe interrogarsi, semmai, sulle cause di questi gravi ritardi.

Interroghiamoci. Secondo lei quali sono le cause?
Non è facile rispondere. Suggerisco una risposta possibile, avvertendo però che andrebbe verificata dati alla mano: cioè che mentre nell’ambito di ciascun settore industriale la produttività del lavoro ha un andamento abbastanza simile su tutto il territorio nazionale, negli altri settori e in particolare nei servizi essa possa far registrare delle notevoli differenze da zona a zona e da azienda ad azienda. Questo potrebbe rendere più difficile la rinegoziazione dello standard nazionale.

Rimedio?
Rilanciare con forza la contrattazione aziendale, incentivando sul piano fiscale il collegamento degli aumenti all’andamento della produttività. E favorire in tutti i modi il trasferimento dei lavoratori dalle imprese meno produttive a quelle che sanno valorizzare meglio il lavoro dei propri dipendenti. La dinamica salariale deve essere affidata alla contrattazione aziendale, lasciando al contratto nazionale la funzione di stabilire lo standard minimo.

Sul piano più generale e strutturale, le retribuzioni italiane sono rimaste ferme o hanno perso terreno negli ultimi trenta anni rispetto a quelle anche di Paesi simili. Quali le ragioni di questo divario?
I dati che fanno parlare di stagnazione delle retribuzioni sono dati medi, che rispecchiano la stagnazione della produttività media del lavoro in Italia. Non è pensabile che le retribuzioni medie aumentino se non aumenta anche la produttività media del lavoro.

Allora cambiamo la domanda: perché la produttività del lavoro non cresce?
La stagnazione riguarda la produttività media del lavoro. In questo dato confluiscono quello delle aziende nelle quali la produttività del lavoro cresce, come e talvolta più che negli altri Paesi europei, e quello delle amministrazioni pubbliche, delle aziende che vivacchiano, di quelle che ricorrono con frequenza alla cassa integrazione, di quelle dove addirittura la produttività è azzerata e i dipendenti sono da mesi o anni a zero ore.

Che cosa si può fare perché la produttività media del lavoro torni a crescere?
In linea generale, occorrerebbe favorire in tutti i modi il trasferimento dei lavoratori dalle imprese marginali o sotto-marginali a quelle più produttive. L’indagine Excelsior di Unioncamere e Anpal ci informa che queste ultime incontrano difficoltà gravi nel reperimento del personale di cui hanno bisogno in più di quattro casi su dieci: sono centinaia di migliaia di posti di lavoro che potrebbero essere attivati subito, se solo sapessimo attivare i servizi di informazione e formazione mirata necessari. Invece di difendere con le unghie e coi denti la sopravvivenza delle aziende meno produttive, occorrerebbe incentivare i loro dipendenti a spostarsi verso queste altre opportunità. E sostenerli robustamente nella transizione.

Da più parti si considera come causa dei bassi salari la cosiddetta precarietà, perché i precari sarebbero disposti ad accettare un salario più basso.
I lavoratori a termine, in Italia, sono circa il 15 per cento del totale: una percentuale molto vicina alla media UE. Il problema non è tanto l’eccesso di lavoratori a termine, quanto la corrispondenza spesso difettosa tra le loro competenze e le mansioni in cui sono utilizzati: anche questa è una causa di scarsa produttività del lavoro che andrebbe combattuta con un grande investimento sui servizi di orientamento, informazione, e formazione mirata alle mansioni che le aziende più produttive cercano e non trovano.

Si riferisce alle politiche attive che latitano?
Si, proprio a quelle. Spendiamo più di 30 miliardi l’anno per il sostegno del reddito ai sospesi dal lavoro e ai disoccupati; ma quando si tratta di promuovere i servizi di orientamento, informazione e formazione mirata a quello che le imprese cercano e non trovano non riusciamo a investire più di un miliardo l’anno.

Il peso del fisco e della previdenza quanto incide?
Il cuneo fiscale e contributivo in Italia incide sulle buste-paga nettamente più di quanto non incida in Francia e Germania, per non parlare della Gran Bretagna. Occorrerebbe un piano che porti ad allinearci gradualmente almeno alla Germania nell’arco di un quinquennio.

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