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COME SI PUÒ RILANCIARE LA CONTRATTAZIONE DI SECONDO LIVELLO

Per far aumentare la produttività del lavoro, e dunque anche le retribuzioni, occorre che la contrattazione destini una parte maggiore del monte-salari alla parte della retribuzione che varia in relazione ai risultati aziendali – La contrattazione decentrata è necessaria anche per adattare gli standard retribuitivi alle differenze di costo della vita

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Intervista a cura di Michele Carniani, in corso di pubblicazione su il Riformista, maggio 2025 – In argomento v. anche la mia intervista al Corriere della Sera del 27 ottobre 2024, L’iniziativa per un minimum wage milanese [1]  .
Professor Ichino, solo il 30% delle imprese italiane ha una contrattazione di secondo livello. Il restante 70%, che ne è privo, sono soprattutto imprese piccole e medie. Dobbiamo considerarla una battaglia persa?
Per rilanciare la contrattazione di secondo livello sarebbe molto utile che tutti i contratti collettivi nazionali istituissero un premio di produzione determinato secondo una formula elementare, suscettibile di applicarsi in qualsiasi impresa, ma destinata a essere riscritta dalla contrattazione aziendale secondo le esigenze e caratteristiche specifiche di ciascuna unità produttiva.

Come funzionerebbe? Può fare un esempio?
Il contratto nazionale potrebbe prevedere un monte-premio, da distribuire ai dipendenti in proporzione alla loro paga-base, pari al 20 o al 30 per cento dell’aumento del margine operativo lordo registrato nell’ultimo anno rispetto a quello precedente, se aumento c’è stato. Il m.o.l. è un dato molto grezzo di cui necessariamente dispone qualsiasi impresa, anche individuale. Il contratto nazionale stesso potrebbe prevedere esplicitamente che questa clausola si applichi solo in assenza di un contratto aziendale che disciplini diversamente la materia: così le imprese sarebbero incentivate ad attivare la contrattazione aziendale.

Le associazioni imprenditoriali obietteranno che il meccanismo è troppo oneroso.
Non è così, dal momento che lo stesso contratto nazionale in cui viene inserita questa clausola, terrà conto dell’impatto del “premio di produzione di default” nel determinare la parte fissa della retribuzione, i c.d. “minimi tabellari”. Sarà comunque l’accordo tra le parti nazionali a decidere quanta parte del monte-salari complessivo spostare dallo zoccolo fisso alla parte variabile. Ma questa operazione è comunque indispensabile se vogliamo tornare a incentivare l’aumento della produttività del lavoro – che in Italia ristagna ormai da tre decenni – e con esso l’aumento delle retribuzioni.

Nel suo ultimo libro Mezzo secolo di diritto del lavoro lei sostiene che il rilancio della contrattazione di secondo livello è necessario anche per adattare gli standard retributivi ai diversi livelli del costo della vita nelle varie zone del Paese.
Sì. Però lì mi riferisco più alla contrattazione territoriale che a quella aziendale.

Può chiarire meglio?
Se nel milanese il costo della vita è del 20 per cento più alto rispetto a quello medio italiano, logica vorrebbe che i sindacati chiedessero alle loro controparti imprenditoriali di negoziare un accordo interconfederale per questa zona, nel quale venisse stabilito almeno un salario minimo orario che tenga conto del minore potere d’acquisto della moneta in questa parte del Paese. C’è una proposta concreta che muove in questa direzione, sulla quale mi sembra che il Sindaco Sala si sia pronunciato favorevolmente.

Le obietteranno che è un modo per reintrodurre le “gabbie salariali”.
È proprio il contrario: la proposta è di sgabbiare la contrattazione collettiva, attraverso uno sviluppo della contrattazione di secondo livello che aiuti ad adattare gli standard retributivi alle condizioni di ciascuna zona.

Il prossimo 8 e 9 giugno si terranno le votazioni per il referendum sul Jobs Act. Come giudica questa iniziativa della Cgil?
La giudico male, soprattutto per il risultato paradossale e irragionevole dell’ipotetico prevalere dei “sì”: per il licenziamento nelle piccole imprese verrebbe previsto un indennizzo illimitato, mentre i dipendenti delle imprese maggiori vedrebbero il proprio indennizzo massimo ridursi da 36 a 24 mensilità.

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