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“SÌ” SOLTANTO AL QUESITO SULLA CITTADINANZA

Non so se i promotori dei referendum sul lavoro fossero consapevoli degli effetti contraddittori e irragionevoli delle abrogazioni proposte; però è certo che la loro propaganda si fonda su una promessa agli elettori lontanissima dalla materia effettiva su cui si vota: in questo vedo un inganno (che contribuisce a spiegare la disaffezione degli elettori)

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Intervista a cura di Claudia Marin, pubblicata sul
Quotidiano Nazionale il 16 maggio 2025In argomento v. anche il mio articolo sullo stesso argomento pubblicato sul Corriere della Sera il giorno precedente

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Professor Ichino, lei sostiene che questi referendum sul lavoro portano più danno che beneficio ai lavoratori. Ci può spiegare perché?
Incominciamo con il primo, quello che mira a cancellare il decreto n. 23/2015 sui licenziamenti, che si applica a tutti i rapporti costituiti dopo il marzo 2015. Se vincesse il sì, tornerebbe ad applicarsi a questi rapporti la legge Fornero, n. 92/2012. Per i casi di licenziamento per motivo illecito, o per motivo che risulti insussistente, non cambierebbe niente; invece per i casi di motivo ritenuto dal giudice insufficiente si verificherebbe addirittura una riduzione del limite massimo dell’indennizzo: dalle 36 mensilità attuali a 24.

I promotori non se ne sono accorti?
Non lo so. Certo è che promettono ciò che il referendum non può in alcun modo dare: cioè il ripristino del vecchio articolo 18 dello Statuto. Per i licenziamenti individuali, il risultato di una ipotetica vittoria del “sì” è solo quello che ho detto. Ritornerebbe invece la reintegrazione per i licenziamenti collettivi; ma questi costituiscono soltanto il due per cento dei casi di licenziamento.

Passiamo al secondo referendum, quello sui licenziamenti nelle piccole imprese.
Questo mira a modificare la disciplina oggi vigente contenuta nella legge n. 604/1966, eliminando il tetto massimo dell’indennizzo di sei mensilità. Così, mentre col primo referendum si riduce di un terzo il limite massimo dell’indennizzo nelle imprese maggiori, col secondo si elimina del tutto il limite nelle imprese più piccole. Che senso ha tutto questo?

Il terzo quesito punta a reintrodurre l’obbligo della “causale” per i contratti a termine anche nei primi 12 mesi. Lei è contrario anche a questo?
L’esperienza insegna che la tecnica protettiva fondata sul controllo giudiziale della “causale” genera una grande incertezza, perché l’esito del giudizio è per lo più poco prevedibille: ne traggono vantaggio solo gli avvocati, per l’aumento del contenzioso che essa genera. La disciplina oggi in vigore, fondata su limiti quantitativi e non sul controllo qualitativo, sta dando invece ottimi risultati, se è vero che negli ultimi dieci anni la quota dei contratti a termine sul totale della forza lavoro si è ridotta e si è ridotto drasticamente anche il contenzioso giudiziale.

Il quarto riguarda la materia della sicurezza negli appalti. Perché secondo lei è sbagliato anche questo?
L’articolo 26 del decreto n. 81/2008 istituisce un regime di corresponsabilità solidale tra il committente e l’appaltatore per gli infortuni che possono accadere ai dipendenti di quest’ultimo; però prevede un’eccezione, per il caso in cui l’infortunio sia conseguenza di un rischio specifico, inerente soltanto all’attività dell’appaltatore e non a quella del committente. Il referendum mira a sopprimere questa eccezione. A me questo pare irragionevole: perché mai la committente dovrebbe essere tenuta responsabile per un rischio sul quale non ha alcuna competenza tecnica?

Infine il quinto quesito: quello sulla cittadinanza per gli immigrati.
Sulla possibilità di acquistare la cittadinanza italiana dopo cinque anni di soggiorno e lavoro nel nostro Paese non ho dubbi: voto “sì”.

In questi giorni è stata approvata la legge sulla partecipazione: qual è la sua valutazione?
Questa legge ha un solo merito: quello di avere posto il tema della partecipazione dei lavoratori nelle imprese di nuovo al centro dell’agenda del sistema delle relazioni industriali in Italia. Cioè in un Paese che su questo terreno fa registrare un notevole ritardo rispetto al resto della UE. Però la nuova legge non fa altro che menzionare buone pratiche in questo campo, che potevano benissimo essere oggetto di contrattazione aziendale anche prima; non contiene né incentivi fiscali adeguati per la diffusione della partecipazione azionaria dei lavoratori, né correzioni di alcuni ostacoli normativi che oggi frenano la partecipazione nelle società a governance duale.

Soltanto fumo e niente arrosto?
Non mi spingo a dire questo. Mi sembra, però, che per superare l’ostilità tradizionalmente dominante nel movimento sindacale italiano contro la partecipazione in azienda occorrerebbe una riforma più incisiva e incentivi adeguati. Da noi è ancora troppo diffusa l’idea che l’imprenditore sia un soggetto socialmente pericoloso; in qualche caso può anche essere vero, ma dobbiamo tutti onvincerci che non può esserci buon lavoro senza un buon imprenditore. Così come non può esserci buona impresa senza buon lavoro. Che ci sia un conflitto di interessi tra le due parti sulla divisione dei frutti del lavoro comune è naturale; ma occorre superare l’ideologia dell’antagonismo necessario tra impresa e lavoro.

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