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PROMEMORIA PER IL SINDACATO DEL PROSSIMO FUTURO

Il sindacato oggi deve impegnarsi molto di più a) per l’assistenza alle persone nel mercato del lavoro; b) per l’assistenza ai lavoratori delle imprese in crisi nella ricerca, su scala mondiale, del nuovo imprenditore; c) per lo sviluppo della contrattazione aziendale che incentivi l’aumento della produttività e ne distribuisca i frutti 

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Intervista a cura di Cinzia Brunazzo, pubblicata sulla rivista dell’Ordine dei Commercialisti Noi & il Lavoro  21 maggio 2025 – In argomento v. anche, su questo sito,  la mia intervista pubblicata sul quotidiano il Riformista, Come si può rilanciare la contrattazione di secondo livello [1]

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Professor Pietro Ichino, quale ruolo vede per i sindacati, nell’era dell’automazione spinta e dell’intelligenza artificiale?
Proporrei una distinzione tra il medio e il lungo termine. Di quest’ultimo vi chiedo di consentirmi di non parlare: stante il ritmo dell’innovazione tecnologica, nessuno può seriamente fare previsioni sul sistema delle relazioni industriali e di lavoro fra trenta o cinquant’anni. Se ci limitiamo a un discorso sul prossimo decennio o quindicennio, per quel che riguarda l’Unione Europea vedo una situazione di generale carenza di manodopera rispetto alla domanda espressa dal tessuto produttivo, a tutti i livelli professionali e in tutti i settori. Il compito del sindacato, in questo contesto, è principalmente quello di assicurare a ogni persona che vive del proprio lavoro – soprattutto a quella più debole – la possibilità effettiva di “usare il mercato” agevolmente, dunque di fruire di tutti i servizi necessari per questo, dall’orientamento professionale a una formazione di cui sia capillarmente monitorata l’efficacia, all’assistenza e sostegno per la mobilità geografica. È questo il modo in cui si rafforza il potere contrattuale della singola persona; ed è il migliore servizio che si può fare ai lavoratori per garantire loro libertà, dignità e valorizzazione anche economica del loro lavoro.

Qualcuno, immagino, le obietterà che questa è una visione molto individualistica del movimento sindacale, della difesa degli interessi dei lavoratori.
Ho detto che l’azione volta al rafforzamento della posizione nel mercato di ciascuna persona, e in particolare di chi è più debole, è ciò di cui c’è bisogno più urgente. Con questo non intendo sminuire l’importanza dell’azione che un sindacato al passo coi tempi deve svolgere sul piano collettivo. Al livello nazionale questa azione si concreta nella negoziazione e stipulazione dei contratti nazionali collettivi di settore, che – a mio modo di vedere – dovrebbero prevedere soltanto lo standard minimo applicabile di default, in assenza di un contratto stipulato a un livello più vicino al luogo di lavoro: dunque al livello regionale, provinciale o soprattutto aziendale. Ma siamo nell’era della globalizzazione, un processo che non può certo considerarsi superato: né Putin né Trump possono far più che rallentare, ma non certo arrestare il progressivo abbattimento delle barriere alla mobilità delle persone, dei beni, delle informazioni; e in questo nuovo contesto un sindacato al passo coi tempi ha anche una nuova funzione cruciale: assistere il collettivo dei lavoratori di un’azienda in crisi nella scelta del nuovo imprenditore tra i molti possibili candidati provenienti da qualsiasi parte del mondo.

Può spiegare meglio?
La globalizzazione ha un effetto sfavorevole per i lavoratori di un Paese economicamente sviluppato, perché li espone alla concorrenza di quelli dei Paesi più poveri. Ma questo effetto può essere compensato da quello favorevole ai lavoratori, consistente nel fatto che la stessa globalizzazione pone gli imprenditori di un Paese in concorrenza con quelli di tutto il resto del mondo non solo nel mercato dei beni e dei servizi, ma anche in quello del lavoro. Come mi sono proposto di mostrare nel libro L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore (Rizzoli, 2020), i dipendenti di un’azienda in crisi si trovano assai frequentemente nella condizione di poter essere loro a selezionare il proprio nuovo datore di lavoro e “ingaggiarlo”. In quella situazione – che si è verificata, per esempio, per i dipendenti di Alitalia nel 2008 e nel 2017, per quelli della Fiat nel 2010, per quelli dell’ex-Italsider di Taranto in questi ultimi anni, e in diversi altri casi – un sindacato può svolgere il ruolo dell’“intelligenza collettiva” che consente ai lavoratori dell’azienda in crisi di valutare ciascuno dei possibili imprenditori, provenienti da qualsiasi parte del mondo, che siano interessati a rilevarla; è solo il sindacato-intelligenza collettiva che può valutare l’affidabilità di un imprenditore sul piano tecnico, finanziario e anche su quello etico, valutarne il piano industriale, e se la valutazione è positiva negoziare con l’interlocutore migliore la scommessa comune sulla nuova strategia imprenditoriale.  Ma questo è un mestiere che solo una parte mainoritaria dei sindacati italiani considera proprio ed è in grado di svolgere.

Sta di fatto, però, che la contrattazione collettiva aziendale in Italia copre soltanto un terzo del totale della forza-lavoro nel settore privato.
È così. Per rilanciare la contrattazione di secondo livello sarebbe molto utile che tutti i contratti collettivi nazionali istituissero un premio di produzione determinato secondo una formula elementare, suscettibile di applicarsi in qualsiasi impresa, ma destinata a essere riscritta dalla contrattazione aziendale secondo le esigenze e caratteristiche specifiche di ciascuna unità produttiva.

Come dovrebbe funzionare questo meccanismo?
Il contratto nazionale potrebbe prevedere un monte-premio, da distribuire ai dipendenti in proporzione alla loro paga-base, pari al 20 o al 30 per cento dell’aumento del margine operativo lordo registrato nell’ultimo anno rispetto a quello precedente, se aumento c’è stato. Il m.o.l. – che molti preferiscono chiamare EBITDA – è un dato molto grezzo, di cui però necessariamente dispone qualsiasi impresa, anche individuale. Il contratto nazionale stesso potrebbe prevedere esplicitamente che questa clausola si applichi solo in assenza di un contratto aziendale che disciplini diversamente la materia: così le imprese sarebbero incentivate ad attivare la contrattazione aziendale. E il premio di produzione negoziato al livello aziendale dovrebbe godere di un trattamento fiscale di favore anche più generoso di quello già oggi in vigore.

Le associazioni imprenditoriali obietteranno che il meccanismo è troppo oneroso.
Non è così, dal momento che lo stesso contratto nazionale in cui viene inserita questa clausola terrà necessariamente conto dell’impatto del “premio di produzione di default” nel determinare la parte fissa della retribuzione, i c.d. “minimi tabellari”. Sarà comunque l’accordo tra le parti nazionali a decidere quanta parte del monte-salari complessivo spostare dallo zoccolo fisso alla parte variabile. Ma questa operazione è comunque indispensabile se vogliamo tornare a incentivare l’aumento della produttività del lavoro – che in Italia ristagna ormai da tre decenni – e con esso l’aumento delle retribuzioni.

La sensibilità diffusa rivolta alla sicurezza dei lavoratori si esprime spesso con allarmi sociali rilevanti: quanto effettivamente il sistema sanzionatorio può ridurre l’incidenza degli infortuni sul lavoro?
A ogni infortunio grave sul lavoro, dunque quasi tutti i giorni, i media condannano, i sindacati protestano, le autorità promettono giri di vite nella disciplina anti-infortunistica e rafforzamento delle attività ispettive. Ma la misura più concretamente utile, già prevista dalla legge, è rimasta inattuata per otto anni, e poi è stata abrogata alla chetichella l’anno scorso nell’indifferenza generale. Salvo il giorno dopo ricominciare a stracciarsi le vesti contro la strage continua.

A quale misura si riferisce?
Alla riorganizzazione unitaria degli ispettorati del lavoro, attualmente ripartiti in quattro organici distinti e tra loro scollegati: quello del ministero, quello dell’Inps, quello dell’Inail e quello delle Aziende sanitarie locali. L’unificazione era stata disposta da uno dei decreti attuativi del Jobs Act, il n. 149 del 2015. Ma i sindacati di categoria si sono opposti strenuamente alla sua attuazione, per la tutela di interessi di bassissimo rilievo. E alla fine il governo li ha accontentati, con un minuscolo comma nascosto nell’articolo 31 del decreto legge n. 19/2024, che ha cancellato il decreto n. 149/2015. Nessuno ha fiatato, nessun giornale ne ha parlato.

Con la legge di iniziativa popolare approvata nei giorni scorsi dal Parlamento, si è aperto, uno spazio nuovo per la partecipazione dei lavoratori in azienda prevista dall’articolo 46 della Carta costituzionale; quale futuro prevede su questo terreno?
Questa legge ha un solo merito: quello di avere posto di nuovo il tema della partecipazione dei lavoratori nelle imprese al centro dell’agenda del sistema delle relazioni industriali in Italia. Cioè in un Paese che su questo terreno fa registrare un notevole ritardo rispetto al resto della UE. Però la nuova legge non fa altro che menzionare buone pratiche in questo campo, che potevano benissimo essere oggetto di contrattazione aziendale anche prima; non contiene né incentivi fiscali adeguati per la diffusione della partecipazione azionaria dei lavoratori, né le correzioni necessarie di alcuni ostacoli normativi che oggi frenano la partecipazione nelle società a governance duale.

Soltanto fumo e niente arrosto?
Non mi spingo a dire questo. Mi sembra, però, che per superare l’ostilità tradizionalmente dominante nel movimento sindacale italiano contro la partecipazione dei lavoratori in azienda occorrerebbe una riforma più incisiva e incentivi adeguati. Da noi è ancora troppo diffusa l’idea che l’imprenditore sia un soggetto socialmente pericoloso; in qualche caso può anche essere vero, ma dobbiamo tutti convincerci che non può esserci buon lavoro senza un buon imprenditore. Così come non può esserci buona impresa senza buon lavoro. Che ci sia un conflitto di interessi tra le due parti sulla divisione dei frutti del lavoro comune è naturale; ma occorre superare l’ideologia dell’antagonismo necessario tra impresa e lavoro.

La parità di genere in Italia è ancora molto lontana. Ritiene che ci possano essere strumenti oltre a quelli in essere per agevolare questo traguardo?
Ne vedo uno solo: quello proposto dagli economisti del lavoro Alberto Alesina e mio fratello Andrea nel libro L’Italia fatta in casa (Mondadori, 2009) e ripreso nel disegno di legge n. 2102 [2] presentato dal senatore Morando e da me nel 2010. L’idea è quella di una grande “azione positiva” volta a contrastare la “discriminazione sistemica” che tuttora penalizza il lavoro delle donne nel nostro Paese, consistente in una detassazione selettiva dei redditi di lavoro autonomo e subordinato femminile: secondo i calcoli che facemmo in funzione della presentazione di quel disegno di legge, basterebbe ridurre del 25 per cento l’Irpef su questi redditi per determinare un forte incentivo alla redistribuzione dei compiti di cura familiare tra uomini e donne. Per la copertura finanziaria basterebbe un aumento di circa il 5 per cento dell’Irpef sui redditi di lavoro dei maschi, che produce tre quarti del gettito dell’Irpef. E forse basterebbe anche meno, poiché per un verso l’offerta di manodopera maschile è relativamente rigida: dunque non subirebbe una riduzione apprezzabile per effetto dell’aumento del prelievo fiscale; per altro verso, l’aumento della partecipazione delle donne alla forza-lavoro, dovuto alla maggiore elasticità della loro offerta di manodopera, genererebbe un aumento netto del gettito fiscale Irpef. Insomma, sarebbe un grande gioco a somma positiva.