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REFERENDUM: LE RAGIONI DEL “SÌ” E QUELLE DEL “NO”

Al di là della valenza politica che opposizione e governo attribuiscono ai referendum, qual è il contenuto effettivo di ciascuno dei quattro quesiti in materia di lavoro sul piano giuridico e su quello degli effetti pratici? E quali gli argomenti a favore e contro?

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Scheda a cura di Pietro Ichino e Franco Scarpelli, pubblicata sul sito lavoce.info il 23 maggio 2025 – In argomento v. anche il mio articolo   pubblicato il 15 maggio sul Corriere della Sera, Lavoro: su che cosa votiamo l’8 giugno [1]  .
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Quesito n. 1 – Disciplina generale dei licenziamenti (scheda verde)

Se prevalgono i “sì” e viene raggiunto il quorum, l’effetto è l’abrogazione integrale del Dlgs n. 23/2015, col risultato che torna ad applicarsi a tutti la disciplina contenuta nella legge Fornero del 2012 (art. 18 dello Statuto modificato).

Coincidenze e differenze principali tra la legge Fornero 2012 e il Dlgs n. 23/2015

  1. licenziamenti per motivo illecito (discriminazione, rappresaglia, ecc.), oppure per un motivo soggettivo (disciplinare) o oggettivo (economico-organizzativo) fondato su fatti di cui il datore di lavoro non provi la sussistenza: entrambe le leggi prevedono la reintegrazione nel posto di lavoro;
  2. licenziamenti disciplinari illegittimi perché la mancanza è punita dal contratto collettivo con una sanzione minore: entrambe le leggi comminano la reintegrazione, pur se con diversa ampiezza; negli altri casi di motivo disciplinare ritenuto dal giudice insufficiente, entrambe le leggi prevedono l’indennizzo, determinato come al § 3;
  3. licenziamenti per motivo economico-organizzativo ritenuto dal giudice insufficiente: entrambe le leggi prevedono l’indennizzo, che per la legge Fornero va da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità, per il Dlgs n. 23/2015 da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità (in riferimento ai rapporti cui si applica il Dlgs n. 23/2015 la sentenza costituzionale n. 128/2024 ha sancito l’applicabilità dell’indennizzo anche nel caso in cui il giudice ritenga che il lavoratore avrebbe potuto essere ricollocato in altra posizione in azienda: cosiddetto repêchage; la giurisprudenza ordinaria ha ritenuto invece, in questo caso, applicabile la reintegrazione in riferimento ai rapporti cui si applica la legge Fornero);
  4. licenziamenti collettivi nei quali siano applicati dei criteri di scelta ritenuti dal giudice scorretti: per la legge Fornero si applica la reintegrazione, per il Dlgs n. 23/2015 l’indennizzo da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità.
Argomenti per il “sì”
a cura di Franco Scarpelli
Argomenti per il “no”
(o per l’astensione)
a cura di Pietro Ichino
Il referendum supera la diseguaglianza di tutele in ragione della sola data di assunzione. Per i lavoratori soggetti al decreto 23/2015 aumenterebbero i casi nei quali il licenziamento illegittimo dà luogo a reintegrazione (e continuità della contribuzione Inps) e non al mero indennizzo. Il caso più clamoroso è quello di più
lavoratori coinvolti nella stessa riduzione di personale:
oggi, se sono violati i criteri di scelta, chi è soggetto all’art. 18 viene reintegrato e chi al decreto 23 ha solo un indennizzo. Nell’art. 18 vi sono alcune ipotesi (oggi residuali) in cui si applica solo l’indennizzo, e per questi casi è vero che il referendum porterebbe a un tetto di indennizzo più basso rispetto a quello del decreto 23: va però detto che d’altro lato il minimo di indennizzo (che riguarda in genere lavoratori con minore anzianità di servizio) verrebbe raddoppiato, e che i casi nei quali vengono riconosciuti indennizzi superiori a 2 anni di retribuzione sono molto
rari.
Il referendum è presentato dai promotori come finalizzato al “ripristino dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori”. In realtà l’ipotetico prevalere del “sì” porterebbe solo al ripristino per tutti i rapporti di lavoro della legge Fornero. Questo risultato non porterebbe, complessivamente, a un rafforzamento della stabilità del lavoro: a) non per il licenziamento dettato da motivo nullo o insussistente (resterebbe la reintegrazione in ogni caso); b) stesso discorso per il caso di licenziamento disciplinare non previsto dal contratto collettivo; c) per il caso di motivo economico ritenuto insufficiente si ridurrebbe il limite massimo dell’indennizzo da 36 a 24 mensilità; d) il solo rilevante rafforzamento della protezione riguarderebbe il licenziamento collettivo (che però costituisce una frazione minima dei licenziamenti economici). Effetti assai modesti, dunque; ma è comunque sbagliato l’obiettivo dei promotori di tornare ad aumentare il disallineamento dell’Italia, su questo terreno, rispetto al resto della Ue.

 

Quesito n. 2 – Disciplina dei licenziamenti nelle piccole imprese (scheda arancione)

Se prevalgono i “sì” e viene raggiunto il quorum, l’effetto è l’abrogazione del limite massimo dell’indennizzo previsto dalla legge n. 604/1966, come modificata dalla legge n. 108/1990 (6 mensilità): l’impresa può dunque essere condannata a un indennizzo deciso dal giudice senza un tetto massimo, in applicazione dei criteri generali di diritto civile.

Argomenti per il “sì”
a cura di Franco Scarpelli
Argomenti per il “no”
(o per l’astensione)
a cura di Pietro Ichino
La stessa Corte costituzionale ha segnalato che il concetto di impresa ‘minore’ è mutato, che va valutata anche la dimensione economica e che non è più ragionevole un limite all’indennizzo di 6 mensilità. Atteso l’immobilismo del legislatore sul tema il referendum rimuove
il tetto massimo, ma non è vero che l’indennizzo rimane senza limiti, che sono quelli civilistici della prova del danno effettivo subito dal lavoratore per il licenziamento ingiusto.
È bene che il limite massimo di 6 mensilità oggi vigente venga modulato diversamente da una nuova legge. È indispensabile. però, che il limite dell’indennizzo sia prestabilito, perché non è mai possibile quantificare in modo preciso il pregiudizio causato in concreto da un licenziamento. Sopprimere il limite dell’indennizzo per le imprese minori appare, poi, paradossale nel momento in cui, con il primo quesito, ci si propone di ridurlo da 36 a 24 mensilità per le maggiori.

 

Quesito n. 3 – Disciplina dei contratti a termine (scheda grigia)

Il Dlgs n. 81/2015 oggi consente di assumere a tempo determinato, entro il termine massimo di durata del rapporto di 12 mesi, senza indicare un motivo per l’apposizione del termine (cioè senza la cosiddetta “causale”). Se prevalgono i “sì” e viene raggiunto il quorum, l’effetto è che sarà possibile assumere a termine, anche nel primo anno, solo nei casi previsti dai contratti collettivi negoziati tra imprese e rappresentanze sindacali o loro associazioni e nei casi di sostituzione di altri lavoratori. In caso di contestazione, il giudice dovrà verificare l’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro per l’assunzione a termine e non a tempo indeterminato.

Argomenti per il “sì”
a cura di Franco Scarpelli
Argomenti per il “no”
(o per l’astensione)
a cura di Pietro Ichino
Nonostante il miglioramento dei dati sull’occupazione, due terzi delle nuove assunzioni continuano ad avvenire a termine. Le trasformazioni a tempo indeterminato sono limitate, e per i lavoratori meno professionalizzati il termine crea elevati rischi di precarietà permanente, proprio per la totale assenza di giustificazione del termine nei primi 12 mesi.

Se vince il “sì” nel referendum l’impresa potrà continuare a utilizzare i rapporti a termine per rispondere a esigenze di reale flessibilità, concordate in sede sindacale,
e non per coprire a rotazione posizioni stabili di lavoro.

In termini di stock, i rapporti a termine in Italia sono circa il 15%, in linea con la media Ue. L’esperienza pratica, inoltre, insegna che è difficilissimo prevedere se il motivo indicato per l’apposizione del termine, quale che esso sia, supererà l’eventuale verifica giudiziale. Questa incertezza non giova né ai prestatori né ai datori di lavoro. I modi corretti per limitare questi contratti sono quelli già in vigore, e nel complesso funzionano bene: da quando l’obbligo della “causale” (limite “qualitativo”) è stato sostituito con i limiti cosiddetti “quantitativi”, il contenzioso giudiziale si è molto ridotto, e anche la quota di lavoratori a termine è (sia pur di poco) diminuita.

 

Quesito n. 4 – Corresponsabilità solidale tra committente e appaltatrice (scheda rossa)

L’art. 26 del Dlgs n. 81/2008 oggi prevede che, in tutti i casi di appalto di opere o servizi che si collochino nell’ambito dell’attività svolta dall’impresa committente, quest’ultima è corresponsabile in solido con l’appaltatrice o subappaltatrice per gli infortuni accaduti ai dipendenti di quest’ultima, salvo che l’attività dell’appaltatrice sia totalmente estranea a quella dell’impresa committente, generando quindi rischi specifici sui quali quest’ultima non ha competenza tecnica. Se prevalgono i “sì” e viene raggiunto il quorum, l’effetto sarà l’abrogazione di questa eccezione: si applicherà, cioè, la corresponsabilità solidale della committente anche nel caso in cui l’infortunio accaduto al dipendente dell’appaltatrice sia conseguenza di un rischio specificamente proprio dell’attività di questa, estraneo all’attività della committente.

 

Argomenti per il “sì”
a cura di Franco Scarpelli
Argomenti per il “no”
(o per l’astensione)
a cura di Pietro Ichino
La proposta referendaria è coerente a classiche tecniche del diritto civile: responsabilità civile per indurre comportamenti di mercato virtuosi e per allocare i rischi su chi è più in grado di gestirli.

Il rispetto delle regole sulla sicurezza dipende dalla qualità delle imprese coinvolte nella filiera, al cui capo c’è la committente. Se sceglie un’impresa specializzata seria (col giusto costo) ci saranno meno infortuni (e, anche se chiamata a risponderne, potrà sempre rivalersi sull’impresa appaltatrice). Negli appalti a basso valore professionale, costruiti solo per abbattere i costi, i
risparmi si fanno spesso sui costi per la sicurezza. Quando poi accade un
infortunio l’appaltatrice spesso non ha la consistenza per risarcire il lavoratore o la
sua famiglia. La finalità del referendum è favorire scelte di mercato più mature e virtuose.

La corresponsabilità solidale di committente e appaltatore è la regola generale già oggi vigente. L’eccezione a questa regola che si vuole abrogare col referendum è molto sensata: non è ragionevole imporre all’impresa committente un rischio sul quale essa non ha alcuna competenza tecnica. Gli appalti che presentano il maggior pericolo per i lavoratori non sono quelli cui si riferisce la norma che si vuole abrogare: sono semmai quelli con cui una grande impresa affida pezzi della propria produzione a imprese più piccole, che di fatto operano in condizioni di dipendenza economica dalla committente. Ma non è di questo che si occupa il referendum.
Il Jobs Act (Dlgs n. 149/2015) aveva previsto l’unificazione e riorganizzazione degli ispettorati del lavoro, che però è stata cancellata dal Dl n. 19/ 2024 (art. 31), nel silenzio generale. Sarebbe stato necessario, semmai, un referendum abrogativo di quest’ultima norma.