- Pietro Ichino - https://www.pietroichino.it -

REFERENDUM: PERCHÉ SU ALMENO DUE QUESITI ANCHE L’ASTENSIONE HA UN SENSO

Anche se non sarà questa la mia scelta, il non ritirare la scheda ben può costituire un modo efficace per protestare contro il modo ingannevole col quale i promotori del referendum hanno presentato il contenuto effettivo della consultazione

.
Intervista a cura di Giambattista Pepi, pubblicata sul
Giornale d’Italia il 28 maggio 2025 – In argomento v. anche il mio faccia a faccia con il collega giuslavorista Franco Scarpelli pubblicato sul sito [1]lavoce.info [1] il 23 maggio scorso 

 .

Il referendum dell’8-9 giugno non sembra catturare l’attenzione dell’opinione pubblica. Complici una Rai silente e parte dei politici che promuovono l’astensione, se n’è parlato poco. Alcuni dei quesiti – a detta di più di un osservatore – sarebbero mal posti, comportando cambiamenti opposti a quelli che hanno in mente i proponenti. Ma c’è un referendum, quello sulla cittadinanza, molto importante. E il confronto sugli altri quesiti sottoposti agli elettori può servire per capire i cambiamenti degli ultimi anni. Ne parliamo con Pietro Ichino, professore di diritto del lavoro all’Università statale di Milano, ex sindacalista e politico, eletto più volte deputato e senatore, con il Pci nel 1979, con il PD nel 2008 e nel 2013.

Partiamo anzitutto dal fatto che chi ricopre incarichi pubblici elettivi non dovrebbe disincentivare gli elettori – visto che il fenomeno dell’astensione è rilevante – dal partecipare a una consultazione elettorale e dunque a non esercitare il diritto di voto che è anche un dovere civico. Lei che cosa ne pensa?
In linea generale concordo con questa affermazione. E, per quel che può interessare ai lettori, io andrò a votare: quattro “no” e un “sì”. Però capisco l’argomento di chi invita all’astensione su almeno un paio dei quesiti referendari, in materia di lavoro.

Quali? E perché?
Consideriamo il primo quesito: viene presentato dai promotori come mirato “a ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori”; ma guardando la cosa da vicino si scopre che, se si raggiungesse il quorum e prevalessero i “sì”, tornerebbe ad applicarsi a tutti i lavoratori, anche a quelli assunti dopo il marzo 2015, non l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, bensì quello in gran parte riscritto dalla legge Fornero del 2012, che oltretutto è stata pesantemente osteggiata a suo tempo dalla stessa Cgil che ora con questo referendum propone di riesumarla. Se poi si confronta il contenuto di questa legge con quello del Jobs Act, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale intervenute sulla materia, si vede che tra le due discipline c’è una quasi totale coincidenza: lo dimostra bene una scheda pubblicata nei giorni scorsi sul sito lavoce.info [2]. Per certi aspetti il quesito referendario porta persino una riduzione della protezione dei lavoratori: l’indennizzo massimo si riduce da 36 a 24 mensilità. Ecco: capisco che molti intendano esprimere il loro rifiuto di questo inganno con il rifiuto di ritirare la prima scheda.

Lei ha parlato di due quesiti referendari ingannevoli. Qual è l’altro?
Il quarto, sulla materia degli appalti. Viene presentato dai promotori come volto a istituire la corresponsabilità solidale tra committente e appaltatore per i danni derivanti dagli infortuni sul lavoro accaduti ai dipendenti di quest’ultimo. Ma questa regola della corresponsabilità solidale esiste già, come regola generale, almeno dal 2008. Se si guarda la cosa da vicino si vede che il referendum mira, in realtà, a sopprimere una piccola e ragionevolissima eccezione a quella regola generale: quella che esclude la corresponsabilità solidale nel caso in cui l’infortunio sia conseguenza di un rischio specifico, inerente soltanto all’attività dell’appaltatore e non a quella del committente; un rischio sul quale il committente non ha alcuna competenza tecnica. Si tratta di una norma molto ragionevole. E anche qui capisco la scelta di chi rifiuta la scheda per protesta contro la propaganda ingannevole dei promotori del referendum.

Ma i fautori del sì sostengono che, al di là dei tecnicismi, nella sostanza tutti e quattro questi referendum hanno un tratto in comune: mirano a correggere i gravi errori commessi da governi di ogni colore tra gli anni ’90 e l’inizio di questo secolo, quando furono approvate norme che indebolivano il potere contrattuale del lavoro. Cosa ne pensa?
Ecco: proprio questa “motivazione di fondo” mi conferma nella decisione di votare “no”. Le leggi in materia di lavoro contro cui la Cgil si è più o meno duramente opposta nell’ultimo quarto di secolo, e contro le quali cerca una rivincita con questo referendum, sono: il “pacchetto Treu” del 1997, col quale venne soppresso il monopolio statale del collocamento (un vero e proprio ferro vecchio) e vennero riconosciute in Italia, ultimo Paese in Europa, le agenzie accreditate operanti nel settore della somministrazione di lavoro; la legge Biagi del 2003, che altro non era se non la prosecuzione del discorso avviato con il “pacchetto Treu”; la Legge Fornero del 2012, e il Jobs Act del 2014-15, che hanno armonizzato la disciplina italiana dei licenziamenti con quella degli altri Paesi UE. Il risultato di questa stagione di riforme non è stato affatto un aumento del precariato, o la “liberalizzazione selvaggia” del mercato del lavoro, come sostiene la Cgil: la forza-lavoro italiana è cresciuta di un milione e mezzo in dieci anni e in essa la quota di rapporti di lavoro a tempo indeterminato è cresciuta rispetto al totale. È crollato – questo sì – il contenzioso giudiziale in materia di lavoro; ma la probabilità di essere licenziati non è affatto cresciuta: anzi è semmai leggermente diminuita.

Accelerare i tempi per dare la cittadinanza a chi è italiano a ogni effetto (art 9.1.b l. 5/2/1992). Con un “sì” possiamo ridurre da 10 a 5 (come in Germania o Francia) il numero di anni di residenza legale in Italia per chiedere la cittadinanza Italiana, fermi restando i requisiti oggi esistenti per tale richiesta (lingua, reddito, stato penale, obblighi tributari).
Questa è la sola iniziativa referendaria che condivido, e sulla quale voterò convintamente “sì”. Anche perché ridurre a cinque anni il requisito minimo di soggiorno e lavoro regolare in Italia costituisce un forte incentivo, per le persone di recente immigrazione, a comportarsi da subito in modo coerente con l’obiettivo di inserirsi nel mercato del lavoro regolare e di ottenere la cittadinanza.

.