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L’EREDITA’ DI MARCO BIAGI

OTTO ANNI NON SONO BASTATI PER SUPERARE IL MICIDIALE GIOCO SISTEMICO DI FAZIOSITA’ CONTRAPPOSTE CHE SI SCATEN0′ QUANDO LA SUA LEGGE VENNE EMANATA. ORA FERMIAMOCI ALMENO IN QUESTO GIORNO PER RECUPERARE LA SERENITA’ DI GIUDIZIO NECESSARIA, MA ANCHE LA LIBERTA’ E L’APERTURA DI ORIZZONTI CHE COSTITUISCONO LA PARTE PIU’ IMPORTANTE DELLA SUA LEZIONE

Editoriale pubblicato sul Corriere della Sera il 19 marzo 2010

Questa sera a Bologna, alle otto e cinque, molte persone di idee diversissime tra loro arriveranno in bicicletta davanti al portico di via Valdonica 14, dalla stazione ferroviaria: è il percorso che Marco fece per l’ultima volta il 19 marzo 2002. Intanto a Modena, per coltivare il suo contributo al progresso della cultura del lavoro, sono riuniti per tre giorni studiosi di tutto il mondo e di tutti gli orientamenti, come ogni anno, per iniziativa della Fondazione Marco Biagi. Perché questa stessa serenità nel far rivivere la sua eredità non riesce ad affermarsi tra le forze politiche e sindacali?

            La sola risposta che riesco a dare è questa: sul terreno politico come su quello sindacale otto anni non sono bastati per superare il micidiale gioco sistemico di faziosità contrapposte che si scatenò quando la legge Biagi venne proposta e poi varata. Allora la maggioranza di centrodestra la presentò – falsamente ‑ come la legge che avrebbe reso il mercato del lavoro italiano “il più libero e fluido d’Europa”; e all’opposizione non parve vero di prendere la maggioranza in parola, demonizzando quella legge come la “liberalizzazione selvaggia”, lo smantellamento del sistema delle protezioni del lavoro. Poiché almeno su questo punto maggioranza e opposizione erano sostanzialmente d’accordo, l’opinione pubblica si convinse che le cose stessero proprio così. Salvo poco più tardi dover constatare che quella legge non aveva cambiato neppure una virgola della disciplina del rapporto di lavoro regolare a tempo indeterminato e non aveva creato alcuna forma di lavoro “precario” che non esistesse già prima: si era limitata a riconoscere e a regolare, più severamente di prima, rapporti di lavoro marginali già da tempo in via di crescente diffusione.
            Durante la legislatura prodiana, il ministro del lavoro Damiano utilizzò largamente proprio la legge Biagi per arginare gli abusi delle collaborazioni autonome. Ciononostante la maggioranza di allora cercò affannosamente qualche cosa da abrogare di quella legge, senza trovarlo; e alla fine, andando contro l’accordo interconfederale del 23 luglio 2007 firmato da tutti i sindacati e associazioni imprenditoriali, poiché era intollerabile che la legge aborrita venisse lasciata sostanzialmente intatta, decise di abrogarne la previsione dello staff leasing, ovvero di una forma di organizzazione del lavoro che prevede un rapporto stabile, a tempo indeterminato, con applicazione dell’articolo 18 dello Statuto. Naturalmente, il fenomeno del precariato non ne fu minimamente scalfito. Coll’individuare nella legge Biagi una delle cause principali di quel fenomeno, la vecchia sinistra ha clamorosamente sbagliato il bersaglio. E tuttavia nei suoi documenti ancora oggi ritorna immancabilmente la bolsa rivendicazione rituale che l’odiatissima legge venga abrogata (salvo evitare di chiamarla col suo nome, perché “Marco Biagi era persona troppo perbene”: i suoi detrattori la indicano sempre come “legge 30”).
            La demonizzazione faziosa da sinistra offre su di un piatto d’argento al centrodestra l’opportunità di fare del giuslavorista bolognese la propria bandiera. Non importa che lo stesso centrodestra abbia fin qui dimenticato tutta la parte del suo progetto riguardante gli ammortizzatori sociali; né che abbia clamorosamente archiviato, con le dichiarazioni dei ministri Tremonti e Sacconi, l’intero discorso di Marco Biagi sulla necessità di superare il dualismo del nostro mercato del lavoro, anche allineando la nostra disciplina dei licenziamenti per i nuovi rapporti di lavoro ai migliori modelli europei. Quel che conta è che lo si possa indicare quale ispiratore di tutto ciò che il governo propone e impone in materia di lavoro. Come è avvenuto ultimamente con la nuova norma sull’arbitrato nelle controversie di lavoro (così mal scritta, che il giorno dopo la sua approvazione Cisl, Uil, Ugl, Confindustria e Confcommercio si sono affrettate ad avvertire che la sua utilizzazione dovrà essere drasticamente delimitata e corretta attraverso la contrattazione collettiva). Marco, certo, era un paladino del rilancio dell’arbitrato; ma attribuirgli la paternità di questo pasticcio dovuto a imperizia tecnica, di cui egli non ha alcuna responsabilità, non onora certo la sua memoria. E non aiuta a svelenire il dibattito sulla sua eredità.
            A ben vedere, il grande merito di Marco Biagi è consistito nella sua capacità di guardare al nostro sistema delle relazioni industriali con un occhio attento alla comparazione internazionale e profondamente libero da conformismi vecchi e nuovi. È troppo chiedere che nell’ottavo anniversario del suo assassinio ci fermiamo tutti almeno un giorno per cercare di recuperare quell’apertura di orizzonti e quella libertà?