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LETTERA APERTA A MICHELE TIRABOSCHI, CHE MI ACCUSA DI “AVVELENARE I POZZI”

NESSUNO DI NOI E’ L’EREDE ESCLUSIVO DEL PENSIERO E DEL PROGETTO DI MARCO BIAGI; E QUANTO ABBIAMO TUTTI EREDITATO DA LUI NON E’ UNA SORTA DI “SACRA SCRITTURA”, DALLA QUALE POSSANO DISTILLARSI PRINCIPI E LINEE IMMUTABILI DELLA RIFORMA NECESSARIA DEL DIRITTO DEL LAVORO

Lettera aperta pubblicata sul Bollettino Adapt del 29 marzo 2010, in risposta all’intervento di Michele Tiraboschi [1], professore di diritto del lavoro all’Università di Modena e consigliere del ministro del Lavoro Sacconi, pubblicato sullo stesso periodico il 22 marzo. Questo intervento commentava il il 19 marzo [2] scorso, nell’ottavo anniversario della morte di Marco Biagi, imputandomi, insieme ad alcune altre colpe, anche quella di “avvelenare i pozzi” con le mie critiche alle riforme del Governo.

Caro Michele,
hai ragione quando, sul numero di lunedì scorso del Bollettino Adapt,  chiedi che tutti, a destra e a sinistra, smettiamo di usare il nome di Marco Biagi come bandiera, come scudo o come bersaglio, nelle discussioni di politica del lavoro. Se nel mio ultimo articolo sul Corriere della Sera [2] posso avere dato – certo, involontariamente – l’impressione di fare questo, ne chiedo scusa. E tanto più la cosa mi dispiace, in quanto quell’articolo era destinato a onorare Marco nell’anniversario della sua morte. Rispondo dunque alle tue osservazioni critiche cercando di chiarire come vedo le cose, in particolare con riguardo al dibattito sul pensiero di Marco e alla sua attualità, ma al tempo stesso cercando di evitare che questa mia replica alimenti una querelle astiosa tra di noi, che è fuori delle mie corde e in ogni caso non ci farebbe fare alcun passo avanti.

Seguo l’ordine in cui gli argomenti compaiono nel tuo intervento.

1. ‑ Mi imputi di avere rimproverato “alla destra … il torto di aver coltivato la progettualità di Marco”. Nel mio articolo sul Corriere [2] mi sembra di aver rimproverato alla destra una cosa molto diversa: ho osservato che essa ha coltivato solo una parte del progetto di Marco, dimenticandone una parte essenziale: il suo disegno complessivo comprendeva anche la riforma organica del sistema degli ammortizzatori sociali e della disciplina dei licenziamenti. Tu sai quanta importanza io attribuisca a questa riforma, per il superamento del dualismo del nostro mercato del lavoro (la “frontiera della modernità” non è per me l’abolizione dell’articolo 18, come tu scrivi, ma l’invenzione di una forma di protezione decente contro le discriminazioni e contro la disoccupazione che possa applicarsi davvero a tutti i lavoratori dipendenti, e non soltanto a metà di essi, come oggi l’articolo 18). Non ho alcuna pretesa di farmi interprete privilegiato del pensiero di Marco; non vedo, però, alcun motivo per cui oggi non dovremmo discutere apertamente anche di questa parte assai rilevante del suo pensiero, nonostante che essa sia oggi esplicitamente squalificata dai ministri Tremonti e Sacconi.

2. – Mi imputi di attribuire alla legge Biagi uno “spirito conservatore”; non lo ho mai pensato e non riesco a capire quale mio scritto possa essere interpretato in questo modo. Ho invece sostenuto ‑ questo sì, e non sono il solo a dirlo ‑ che la legge Biagi ha introdotto nuove rigidità nel nostro diritto del lavoro: soprattutto in riferimento alle due figure di gran lunga più importanti di rapporto di lavoro flessibile esistenti in precedenza, ovvero i contratti di collaborazione coordinata continuativa e i contratti di formazione e lavoro (sostituiti rispettivamente con il “lavoro a progetto” e il nuovo apprendistato, disciplinati entrambi in modo assai più rigoroso rispetto a prima). Il punto è che nel progetto di Marco, proprio in funzione della riunificazione del mercato del lavoro, entrambi questi irrigidimenti della protezione erano destinati a essere compensati da un alleggerimento della disciplina generale del licenziamento, con la riforma dell’articolo 18. Venuta meno questa seconda parte del suo progetto, sono rimasti solo i due elementi di maggiore rigidità. Non capisco perché dovrebbe essere considerato inopportuno riproporre questa constatazione proprio nel giorno dedicato alla memoria di Marco.

3. ‑ Mi imputi, poi, di avere in Senato “tenacemente sostenuto che Marco fosse contrario all’arbitrato”. Non riesco a trovare alcun mio intervento, nel dibattito sul d.d.l. n. 1167 [3] o altrove, che possa essere interpretato in questo senso. Ma soprattutto ti chiedo: perché mai avrei dovuto sostenere questa sciocchezza, dal momento che io stesso e Tiziano Treu, in entrambe le occasioni in cui il disegno di legge n. 1167 è stato discusso in Senato, abbiamo presentato alcuni emendamenti volti a rilanciare vigorosamente l’arbitrato nelle controversie di lavoro, facendone “la voce del contratto collettivo”? Oggetto dello scontro in Senato non era l’idea – che fu anche di Marco ‑ del rilancio del ruolo dell’arbitrato per la soluzione delle controversie di lavoro: su questo punto c’era un largo consenso bi-partisan.

4. ‑ Oggetto dello scontro in Senato erano le singole scelte di tecnica normativa adottate, la previsione della possibilità di inserimento della clausola compromissoria già nel contratto individuale di lavoro, l’incongruenza tra la qualificazione dell’arbitrato come “irrituale” e il suo assoggettamento a una complessa procedura tipica dell’arbitrato rituale, il comportamento ondivago tenuto dal Governo, nel corso del lungo iter della norma, nella definizione del rapporto tra autonomia collettiva e individuale su questa materia. Di tutto questo sono evidentemente responsabili soltanto il ministro e coloro che lo hanno affiancato nella vicenda parlamentare; e converrai con me che tra questi non poteva annoverarsi Marco. Ora, invece, alle critiche di natura tecnico-giuridica che Treu e io muovevamo, il ministro Sacconi ha risposto attribuendo la paternità della norma a Marco Biagi (Senato, 3 marzo 2010 [3]). È stato dunque lui, non io, a usare il nome di Biagi come uno scudo, a fare ricorso all’ipse dixit per troncare il discorso. Io mi sono limitato a contestare questo, che mi appare – e credo che anche tu concordi – come un cattivo servizio fatto alla memoria di Marco.

5. – Veniamo alla questione delle “leggi mal fatte”. Qui ti do ragione: è molto più difficile il compito di fare le nuove leggi, proprio della maggioranza, che quello di criticarle, proprio dell’opposizione. In un testo legislativo è sempre facile trovare difetti. Però converrai con me che, per questo stesso motivo, chi si trova a esercitare il potere legislativo farebbe bene ad aprirsi al confronto con l’opposizione, e in generale al contributo che può venire dagli esperti, di qualsiasi orientamento. Ora, invece, su questa nuova legge di cui stiamo discutendo, in Parlamento Governo e maggioranza hanno sbarrato porte e finestre alle critiche e alle proposte dell’opposizione, anche a quelle di carattere puramente tecnico. E fuori del Parlamento il Governo non ha coinvolto nella discussione sulla importante riforma che stava promuovendo neppure la parte dei giuslavoristi che più avrebbe potuto contribuire a una buona riforma dell’arbitrato. Non ha neppure aperto un tavolo di confronto tra le parti sociali (le quali, pure, avrebbero avuto molto da dire in proposito; e si sono affrettate a dirlo il giorno dopo l’emanazione della legge, in senso significativamente discordante dal contenuto della legge stessa e limitativo della sua portata). Non pensi che, procedendo in questo modo fortemente autoreferenziale, il Governo abbia aumentato di molto il rischio di incorrere in errori nella sua produzione legislativa?

6. ‑ Non ho alcuna pretesa di paragonare il mio umile e poco rilevante lavoro di peon a quello del ministro e dei suoi consiglieri. In proposito, però, una cosa voglio dire, anche a costo di sentirmi dare da te della “prima donna”: prima di presentare i miei disegni di legge per la riforma del diritto del lavoro ho sempre messo on line con mesi di anticipo le relative bozze, ne ho discusso il contenuto in innumerevoli incontri pubblici in giro per l’Italia, ho sollecitato tutti i colleghi giuslavoristi e chiunque altro vi fosse interessato a interloquire, proporre integrazioni o correzioni anche incisive, rispondendo sempre pubblicamente a ciascuna critica e a ciascuna proposta e accogliendone molte, anche talvolta provenienti da persone di orientamento molto diverso dal mio sulla specifica questione. Se lo può fare un peon con i suoi modestissimi mezzi, perché non può farlo anche il ministro? Al contrario, il ruolo del Parlamento nella redazione di questa legge, come di molte altre, è stato azzerato dalla chiusura ermetica del Governo al contributo critico dell’opposizione: al Parlamento si è consentito solo di ratificare passivamente, a colpi di voto, testi che erano stati stesi, poi sostituiti, poi riveduti e corretti, sempre soltanto tra le quattro pareti del ministero. La maggioranza ha respinto all’ingrosso, per lo più senza una parola di motivazione, tutti i gli emendamenti, anche quelli che l’opposizione aveva proposto come correttivi di difetti di chiarezza o di errori tecnici (su uno di questi torno nel capoverso che segue). Possibile che nemmeno uno solo di quegli emendamenti meritasse qualche attenzione? Essendo, poi, andate così le cose, secondo te un parlamentare dell’opposizione non può nemmeno dire che, a suo giudizio, la legge è “mal fatta”?

7. ‑ Veniamo infine all’accusa più grave che mi muovi: quella di “avvelenare i pozzi”. Tu attribuisci questo intendimento malvagio alla mia denuncia dell’inciso contenuto nel terzo comma dell’articolo 30 della nuova legge, in materia di controllo giudiziale sul giustificato motivo di licenziamento, che consente al giudice di ergersi a interprete dell’“interesse oggettivo dell’impresa” (intervento in Senato [4] e articolo sul Corriere della Sera [5], del 25 e 29 novembre 2009). In sostanza, mi imputi di dare di questa norma un’interpretazione che allarga artificiosamente il ruolo del giudice, alimentando così un orientamento giurisprudenziale dannoso. Di questa norma ‑ il cui campo di applicazione non è affatto limitato alla materia disciplinare, bensì si estende a tutti i casi di licenziamento ‑ senti che cosa dice nel dibattito alla Camera (seduta di giovedì 28 gennaio 2010) Giuliano Cazzola, Pdl, relatore di maggioranza sulla stessa legge: “… al giudice, con questa norma, non si limitano gli ambiti di intervento, ma si apre un’autostrada. […] Vorrei chiamare a testimonianza gli illustri avvocati e giuristi che sono presenti in quest’Aula. Infatti, quando si dice che un giudice tiene conto […] dell’oggettivo interesse dell’organizzazione, mi sembra che, sostanzialmente, gli si dica: caro giudice, puoi benissimo agire a tua discrezione nel valutare quali sono i motivi del licenziamento. Quindi, non si tratta di una diminuzione dei poteri del giudice, ma di un ampliamento […]”. Anche Cazzola è un avvelenatore di pozzi?

8. – Su questo punto mi accusi addirittura di recidiva: avrei “avvelenato i pozzi” anche nel 2001, all’indomani dell’emanazione della nuova norma sul contratto a termine, quando sostenni, anche allora in un articolo sul Corriere della sera [6], che la nuova norma, emanata per liberalizzare la materia, era formulata in modo contraddittorio rispetto a quell’intendimento e previdi che l’effetto pratico prodotto dalla norma sarebbe stato scarso o nullo. Allora, però, la stessa critica venne mossa a quella norma da Giuseppe Pera; anche lui voleva “avvelenare i pozzi”? Oggi il Governo è ancora lì a cercar di tamponare gli effetti della giurisprudenza  successiva al 2001 su questa materia (articolo 32, commi quinto e sesto). Pensi davvero che i giudici del lavoro si sarebbero orientati in un senso più vicino all’intendimento del legislatore senza quella lettura della norma proposta da Pera e da me? Non pensi, invece, che anche allora una maggiore apertura al contributo critico dei giuslavoristi nella fase di elaborazione del decreto legislativo n. 368/2001 avrebbe consentito di evitare il contrasto tra intendimento del legislatore ed effetti pratici della norma? E se anche il pensare questo implicasse ammettere un difetto nell’azione svolta da Marco in quella occasione, pensi davvero che il discuterne apertamente costituisca una mancanza di rispetto per la sua memoria?

9. – Chiudo questa lettera con la proposta di un “lodo transattivo”: diamoci reciprocamente atto che nessuno di noi è l’erede esclusivo del pensiero e del progetto di Marco; e che quanto abbiamo tutti ereditato da lui non è una sorta di “sacra scrittura”, dalla quale possano distillarsi principi e linee immutabili della riforma necessaria del diritto del lavoro. Credo che Marco non avrebbe mai approvato l’uso del suo progetto come corpo contundente nel dibattito politico; ma ancor meno avrebbe approvato la trasformazione di quel progetto in un idolo, in un nuovo tabù da sostituire ai vecchi, che tanto danno hanno fatto e ancora fanno alla cultura del lavoro e delle relazioni industriali nel nostro Paese.