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UN BILANCIO NON FAZIOSO DEL PRIMO BIENNIO DELLA XVI LEGISLATURA

E’ TEMPO DI UN PRIMO RENDICONTO: HO RACCOLTO QUI UNA SCHEDA PER CIASCUN0 DEI TEMI MAGGIORI DELL’AGENDA POLITICA INTERNA NAZIONALE, SCEGLIENDONE L’AUTORE SECONDO IL SOLO CRITERIO DELLA COMPETENZA E DELL’INDIPENDENZA DI GIUDIZIO

Rassegna a cura di Pietro Ichino, nel secondo anniversario della XVI legislatura, 26 aprile 2010. Le stesse schede saranno pubblicate domani, 27 aprile, su lavoce.info. Ciascuna scheda rappresenta, ovviamente, soltanto l’opinione del rispettivo autore

Sommario:
1. Le istituzioni: una promessa di federalismo; tutto il resto per ora rimane nel limbo (a cura di Stefano Ceccanti)
2. L’efficienza delle amministrazioni pubbliche: un programma ambizioso paralizzato dalle contraddizioni interne al Governo (a cura di Alberto Comino)
3. L’economia e la finanza: bene il bilancio, ma manca la cura per il “male oscuro” dell’economia italiana (a cura di Luigi Guiso)
4. Le liberalizzazioni e la promozione del merito: bene la fine della vecchia politica industriale, malissimo Alitalia (a cura di Roger Abravanel)
5. Lavoro e relazioni industriali: la contrattazione collettiva tenta di decentrarsi, resta l’apartheid tra gli iper-protetti e i paria (a cura di Pietro Ichino)
6. La previdenza e gli ammortizzatori sociali: qualche segnale positvo sull’età pensionabile, Cassa integrazione a fiumi anche dove occorrerebbe tutt’altro (a cura di Pietro Ichino)
7. La giustizia: due anni all’insegna delle leggi ad personam (a cura di Luigi Ferrarella)
8. La scuola: per ora solo tagli (a cura di Daniele Checchi)
9. L’immigrazione: sbarchi ridotti, pene aggravate, poche misure per l’integrazione (a cura di Massimo Livi Bacci)

1. ‑ LE ISTITUZIONI: UNA PROMESSA DI FEDERALISMO; TUTTO IL RESTO PER ORA RIMANE NEL LIMBO
(a cura di Stefano Ceccanti)
L’unica riforma istituzionale sin qui iniziata è la legge delega sul federalismo fiscale, che in realtà è l’attuazione del nuovo articolo 119 della Costituzione modificato, nel 2001, dentro la riforma del Titolo V.  Dico solo iniziata perché è una legge delega, i cui frutti matureranno negli anni, via via che si faranno i decreti legislativi attuativi. Il Pdl e la Lega avevano esordito con uno schema molto radicale, basato sull’idea che larga parte delle risorse restassero là dove si producono. Il Pd ha contrapposto un proprio schema organico alternativo. Il risultato complessivo ne è stato influenzato in modo significativo, tanto che il Pd si è astenuto nel voto finale sulla legge. Oltre al cambiamento dei criteri è stata decisa l’istituzione di una Commissione bicamerale che seguirà da vicino l’elaborazione dei decreti e che ha avviato i suoi lavori in questi giorni. Le altre forze di opposizione hanno in larga parte condiviso questo lavoro, ma poi hanno voluto distinguersi dal Pd nel voto: l’Udc ha votato “no” e a quel punto, paradossalmente, l’Idv si è posizionata sull’unica casella rimasta vuota, il “sì” insieme alla maggioranza.
Tutto il resto rimane in un limbo, a cominciare dalla legge elettorale, dopo il fallimento del referendum del 2009. A seconda di come viene curvata la legge elettorale cambia anche il senso di tutte le altre riforme costituzionali. In realtà oltre all’interesse di Berlusconi a non cambiarla, ci sono anche incertezze del Pd. La legge attuale garantisce un obiettivo importante, quello della scelta diretta del Governo, ma ne nega un altro, il rapporto tra l’elettore e il suo rappresentante. Per questo servirebbe il collegio uninominale, che garantirebbe al tempo stesso il rapporto tra rappresentanti e rappresentati e, in modo più naturale, la scelta diretta del Governo da parte dei cittadini. Invece il sistema proporzionale alla tedesca recupererebbe il rapporto coi rappresentanti, ma ci farebbe regredire rispetto alla scelta diretta dei Governi.
Questo è lo stato – non esaltante – dell’arte.

2. ‑ L’EFFICIENZA DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE: UN PROGRAMMA AMBIZIOSO PARALIZZATO DALLE CONTRADDIZIONI INTERNE AL GOVERNO
(a cura di Alberto Comino)

Il merito iniziale del ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione è stato quello di riportare in cima all’agenda istituzionale l’impegno per la riforma amministrativa. Il programma viene formalizzato in un piano strategico nel maggio 2008 – il “piano industriale per la PA” – che individua i seguenti obiettivi: riconoscimento del merito, trasparenza, rafforzamento delle funzioni del management pubblico, customer satisfaction, innovazione tecnologica. Sempre nei primi mesi di governo – nell’estate 2008 – si adottano le prime misure di contrasto dell’assenteismo e per la trasparenza. Sull’assenteismo si registra un’effettiva diminuzione del fenomeno (di entità rilevante, anche se i numeri forniti dal ministro provenivano da una autoselezione degli enti più virtuosi). Tuttavia sulla trasparenza totale si avvertono i primi segnali di cedimento alle resistenze: la norma per la trasparenza della dirigenza pubblica viene inserita nella prima manovra economica del Governo, ma in sede di conversione del decreto legge la disposizione scompare. È l’inizio di un progressivo isolamento dell’azione di riforma amministrativa, cui viene a mancare il necessario forte sostegno dello stesso Presidente del Consiglio per superare le prevedibili e diffuse resistenze. Questo isolamento dell’azione di riforma, rimessa alle sole forze del ministro, la espone al rischio di ridursi a un cambiamento più annunciato che realizzato.
Non si tratta di un rischio soltanto potenziale, ma di battute d’arresto sostanziali sul percorso della riforma: si pensi all’iter parlamentare della legge delega (n. 15 del 2009) e del decreto legislativo (n. 150 del 2009) che escludono dall’applicazione della riforma la Presidenza del Consiglio dei Ministri. È il sintomo preoccupante dell’incapacità del titolare della funzione pubblica di imporre la riforma nella stessa amministrazione in cui egli opera. Oppure alla portata del tutto insufficiente della cosiddetta class action contro le pubbliche amministrazioni e i concessionari pubblici, troppo debole nei meccanismi di tutela degli utenti e inutilmente complicata nelle modalità di attuazione. E ancora all’evidente ostruzionismo che il Ministero dell’economia e delle finanze esercita sull’attività della Commissione per la valutazione istituita dalla riforma (sono ancora oggi fermi sul tavolo del ministro i decreti che sbloccano il funzionamento dell’autorità indipendente per la trasparenza e la valutazione, istituita dalla legge n. 15/2009, a sei mesi dall’approvazione dei suoi cinque membri da parte del Parlamento con la maggioranza qualificata dei due terzi).
Va inoltre tenuto in considerazione un piano parallelo di eventi che si pone in forte contraddizione con gli obiettivi di trasparenza e performance che la riforma vuole perseguire: è la questione delle gestioni emergenziali collegate alle vicende, anche giudiziarie, della Protezione Civile. Lo scandalo sugli appalti mette in luce non solo l’opacità dell’azione amministrativa, sottratta alle regole dell’evidenza pubblica, ma anche come queste gestioni derogatorie non garantiscano neppure l’obiettivo di migliori performance. Meno trasparenza e meno efficienza allo stesso tempo. Attraverso uno schema di deroghe che si è progressivamente ampliato passando dalla gestione delle emergenze, a quella dei grandi eventi, fino alla gestione di eventi che (seppure formalmente definiti “grandi”) appartengono al novero della programmazione e gestione ordinarie.
Per queste ragioni il primo biennio di governo dell’amministrazione lascia ancora in larga parte frustrate le aspettative iniziali – ampiamente condivise ‑ di un impegno tenace nell’innovazione del settore pubblico: la strumentazione per la misurazione della perfomance, il premio del merito, la trasparenza totale, la partecipazione degli utenti alla valutazione rischiano di rimanere sulla carta senza tramutarsi in pratiche diffuse nelle organizzazioni. Il rischio è che questo stallo si traduca in un insuccesso che pregiudichi anche i futuri sforzi di cambiamento e che contribuisca ad alimentare la percezione di un settore pubblico strutturalmente inadeguato e irriformabile. Sacrificando, oltretutto, un’analisi più veritiera che dovrebbe far emergere le grandi differenze tra contesti e territori, e spingere a formulare iniziative e proposte differenziate, coerentemente con il quadro di federalismo amministrativo nel quale si muove il Paese.

3. ‑ L’ECONOMIA E LA FINANZA: BENE IL BILANCIO, MA MANCA LA CURA PER IL “MALE OSCURO” DELL’ECONOMIA ITALIANA
(a cura di Luigi Guiso)

Come ha agito il Governo durante la crisi? È importante stabilire i fatti. La caduta del reddito nazionale dal picco precedente alla crisi al successivo punto di minimo è stata del 6.5% in Italia; nella media dei Paesi dell’area dell’euro è stata di oltre un punto più contenuta. In Germania il calo è simile all’Italia mentre in Francia è poco più della metà. I dati della produzione industriale raccontano una storia simile: dal picco al minimo la produzione crolla di un quarto in Italia e Germania e del 20% in Francia e nella media dei paesi dell’euro. L’impatto della crisi è stato quindi altrettanto severo in Italia quanto in Germania e più severo che nella media dell’area dell’euro e in Francia – nonostante l’assenza da noi di fallimenti bancari, verificatisi invece oltralpe. La scelta del Governo è stata di alzare il bavero, aspettare e sperare che la bufera passasse, adottando provvedimenti minimi per fronteggiare l’impatto sul mercato del lavoro (ad esempio con l’estensione della Cassa integrazione in deroga: v. la relativa scheda) e stemperare il rischio di panico sulle banche, con interventi più di natura simbolica che di effettiva sostanza (i cosiddetti Tremonti bonds). L’intento annunciato era di evitare impatti sulla finanza pubblica (oltre quelli inevitabili sul rapporto debito/PIL dovuti al calo del PIL e quelli sul disavanzo dovuti agli ammortizzatori sociali). Infatti, in Italia le misure di stimolo fiscale durante la crisi sono nulle, diversamente da Francia e Germania che hanno varato pacchetti dell’ordine di un punto di PIL. Si è quindi scelto di accettare un maggior impatto della crisi per evitare un aggravamento dei conti pubblici in un paese già fortemente indebitato. Alcuni benefici di questa politica si apprezzano oggi guardando alla esperienza della Grecia.
Ma, oltre ad aver evitato di adottare politiche fiscali anticicliche di qualche significato, il Governo ha omesso qualunque politica economica. Se il primo atteggiamento aveva una sua ragion d’essere sul piano economico, il secondo è difficile da giustificare. Estendendo lo sguardo all’indietro, al decennio antecedente la crisi, fatto 100 il PIL del 2000, l’Italia perde 6 punti di PIL rispetto alla media degli altri Paesi dell’euro e anche rispetto alla Francia; il divario nella produzione industriale è ancora più marcato e supera i 10 punti con la Germania. È come se la sola l’Italia negli 8 anni prima di Lehman Brothers, fosse stata colpita da una crisi economica della stessa entità di quella gravissima sperimentata nell’ultimo anno e mezzo. In queste circostanze l’aspettativa legittima era che il Governo, già dal suo insediamento avvenuto prima dello scoppio della crisi, varasse un piano di riforme per facilitare la ristrutturazione delle imprese, alleggerirle del peso della burocrazia, incoraggiarne la creazione, migliorare il funzionamento del mercato del lavoro, dotandolo di istituti propri per facilitare la riallocazione dei lavoratori e quindi la stessa ristrutturazione delle imprese. Misure spesso dal costo nullo per l’erario, ma con effetti rilevanti sui tassi di crescita di medio periodo. Niente di ciò è avvenuto. Ora sembra che le riforme siano ritornate all’ordine del giorno. Ma non è chiaro come quelle di cui si parla – federalismo fiscale, intercettazioni, semipresidenzialismo – possano aggredire il problema economico dell’Italia: evitare che ogni 8 anni essa paghi, per l’inerzia della sua classe dirigente, l’equivalente di una grave crisi economica planetaria.

4. ‑ LE LIBERALIZZAZIONI E LA PROMOZIONE DEL MERITO: BENE LA FINE DELLA VECCHIA POLITICA INDUSTRIALE, MALISSIMO ALITALIA
(a cura di Roger Abravanel)
Un indubbio risultato positivo di questa legislatura sul fronte della concorrenza è stata la sua capacità di invertire la triste pratica del passato che vedeva i Governi italiani allearsi con le associazioni imprenditoriali e con i sindacati e, all’ insegna della “politica industriale”, finire col sussidiare fortemente le imprese, soprattutto quelle manifatturiere. Questa inversione di un atteggiamento tristemente e cronicamente anti–libero mercato dei Governi italiani del passato è avvenuta nel pieno della grande crisi internazionale che ha visto invece Governi tradizionalmente virtuosi, come quello americano, investire per salvare fabbriche di automobili e banche. Nei fatti, con l’avvento della crisi, l’azione dei governi di quasi tutto il mondo è risultata massicciamente anti-concorrenziale. Al di là dei rischi di protezionismo che continuano a incombere sul commercio internazionale, i massicci aiuti di stato/bailout in alcuni settori (finanza, automotive) comportano distorsioni di mercato (soprattutto in prospettiva, visto che la exit strategy dei governi sarà lunga) e pesanti limiti alla libera concorrenza. E il grado di distorsione del mercato è, a detta di molti, la variabile chiave che determinerà la lunghezza di questa pesante recessione, la più grave dopo il 1929. In questo quadro internazionale , nei due settori dell’auto e della finanza il bilancio del governo italiano è molto positivo: esso è infatti intervenuto pochissimo con le banche e con la Fiat e l’indotto, e non ha riportato l’Italia indietro, sul fronte delle regole per lo stimolo della concorrenza, come è invece avvenuto negli altri Paesi.
La recente iniziativa sul fondo per le imprese piccole e medie nasce con i presupposti di un’operazione di mercato (fondi delle banche,struttura da fondo di fondi private equity) ma è tutto da vedere se funzionerà come tale o se si trasformerà in una seconda GEPI.
Ma qui finiscono i bilanci positivi.
Una delle operazioni più importanti e visibili di questa legislatura è stata l’operazione Alitalia che appare invece fortemente anti-concorrenziale , per i due aspetti che seguono.
1. Sul piano politico, può essere attribuita al Governo in carica anche una parte di responsabilità nel fallimento della cessione Alitalia ad Air France-KLM, che avrebbe garantito la continuità operativa ad Alitalia senza fonderla con Air One, un’ azienda fallita che alla fine è stata salvata con i soldi dei contribuenti. L’obiezione che l’operazione con Air France fosse già fallita sotto il governo Prodi per l’opposizione dei sindacati (vero) sottovaluta l’impatto della posizione politica di Silvio Berlusconi in campagna elettorale.
2. Appare un segnale negativo la sospensione dei poteri dell’Antitrust, non solo per qual che riguarda l’approvazione della fusione (che ovviamente era indispensabile per realizzare l’operazione), ma anche in relazione alla possibilità di sanzionare eventuali abusi di posizione dominante nel periodo successivo alla fusione.
Resta sullo sfondo, in particolare in questi tempi di crisi, la questione dell’evasione fiscale, che costituisce il maggiore elemento distorsivo della concorrenza presente in Italia in moltissimi settori dell’economia: la concorrenza sleale praticata da numerose imprese (soprattutto nei servizi) che evadono le tasse e, con loro, i contributi INPS, i costi ambientali e di sicurezza sul lavoro e tutto quello che si evade nel sommerso. Questa concorrenza sleale nei confronti di imprese piccole e grandi che invece sono in regole costituisce un elemento distorsivo che fa precipitare l’Italia a livelli bassissimi della classifica della libertà economica (74ma posizione su scala mondiale). Su questo terreno le iniziative del governo appaiono decisamente problematiche:
1. l’effetto segnaletico dello scudo, un vero e proprio condono, cui si aggiungono varie dichiarazioni di aperta indulgenza verso l’evasione; a questo si contrappone oggi una minaccia di maggior severità futura; la speranza è l’ultima  a morire;
2. l’abolizione delle norme (introdotte dal precedente governo) limitative dell’utilizzo di contante e assegni per le imprese costituisce un grande passo indietro sulla strada della tracciabilità delle operazioni finanziarie, in particolare di quelle compiute dalle imprese di piccole dimensioni, che sono una parte molto grande dell’economia italiana.
In sintesi quindi una luce (politica industriale) e molte ombre sul bilancio di questo Governo in termini di politiche orientate a promuovere il libero mercato

(Sulle liberalizzazioni in materia di libere professioni e relativi ordini, v. la scheda che segue – n.d.r.)

5. – LAVORO E RELAZIONI INDUSTRIALI: LACONTRATTAZIONE COLLETTIVA TENTA DI DECENTRARSI, RESTA L’APARTHEID TRA GLI IPER-PROTETTI E I PARIA
(a cura di Pietro Ichino)

All’inizio della legislatura, la detassazione del lavoro straordinario cade in un momento molto sfortunato: di lì a poco scoppia la grande crisi e di straordinari non ne fa più nessuno.
Sul piano della politica sindacale, il ministro punta a un sistema di relazioni industriali il cui baricentro si sposti verso la periferia. Ma ancor più sembra interessargli un sistema dal quale la Cgil si autoescluda: lo persegue operando sotto-traccia per far sì che essa non firmi l’accordo interconfederale del 22 gennaio 2009 e i contratti collettivi di settore; la Cgil sembra assecondare questo disegno, che però riesce soltanto in parte: salvo quell’accordo e il contratto dei metalmeccanici, la Confederazione guidata da Epifani firma tutti i  numerosi contratti di settore stipulati nel nuovo sistema interconfederale (tra i quali quello dei chimici, degli alimentaristi, degli edili, delle comunicazioni, del turismo e molti altri ancora). Manca comunque nel progetto del Governo il disegno di un sistema nel quale visioni e strategie sindacali diverse possano confrontarsi e competere tra di loro, senza produrre paralisi: non è all’orizzonte una uscita dal regime di “diritto sindacale transitorio”, che in Italia si trascina ormai da oltre 60 anni.
Il primo anno e mezzo di recessione causa la perdita di oltre 800 mila posti di lavoro, quasi tutti rapporti di lavoro di serie B o C. Potrebbe essere considerato ancora un effetto occupazionale complessivamente meno disastroso rispetto agli altri Paesi, se non fosse che almeno altri 350 mila posti perduti sono mascherati dalla Cassa integrazione guadagni (v. scheda successiva). Sulla questione cruciale del superamento del dualismo del mercato del lavoro, il Pd presenta tre progetti (Ichino e Nerozzi al Senato, Madia alla Camera) tutti ispirati al principio della estensione a tutta l’area del lavoro “economicamente dipendente” di una disciplina resa più flessibile almeno nella fase iniziale del rapporto. Il Governo è in standby: Tremonti torna a lodare il modello del posto fisso, Brunetta prende le distanze chiedendo la riforma dell’articolo 18, Sacconi fa un po’ il pesce in barile, perseguendo un depotenziamento del sistema delle protezioni in via indiretta, con l’inserimento nel Collegato-lavoro alla Finanziaria 2010 di norme pasticciate sul controllo giudiziale del giustificato motivo di licenziamento e sull’arbitrato (articoli 30 e 31): entrambe censurate dal Capo dello Stato, che critica esplicitamente questo modo surrettizio di affrontare la questione della riforma del diritto del lavoro.
Nel Collegato-lavoro anche due nuove deleghe legislative in materia di congedi e permessi. Ma altre deleghe precedenti (tra le quali quella sui lavori usuranti), non attuate dal Governo, vengono prorogate.
Il ministro preannuncia una proposta di “Statuto dei lavori”, ma subito insabbia l’iniziativa con l’apertura sulla materia di un “tavolo di consultazione con le parti sociali” (la consultazione ha un senso se avviene su di una proposta, un progetto, una bozza, che invece per ora manca del tutto). Stesso metodo di insabbiamento – ma qui è più appropriato parlare di sepoltura ‑ per il testo bi-partisan elaborato dalla Commissione lavoro del Senato sulla partecipazione dei lavoratori in azienda.

Nel campo delle libere professioni si osserva una netta marcia indietro rispetto alle liberalizzazioni di Bersani: si preannuncia il ritorno delle tariffe minime inderogabili e del divieto di pubblicità, un rafforzamento delle barriere in accesso, un rilancio degli ordini come promotori dell’interesse economico della categoria, in contrasto con il parere espresso dall’Antitrust e con l’orientamento in materia dell’ordinamento europeo.

6. ‑ LA PREVIDENZA E GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI: QUALCHE SEGNALE POSITIVO SULL’ETA’ PENSIONABILE, CASSA INTEGRAZIONE A FIUMI ANCHE DOVE OCCORRE TUTT’ALTRO
(a cura di Pietro Ichino)

Alcune note positive per chi ritiene che l’età media di pensionamento in Italia debba essere aumentata: costretto dalla Corte di Giustizia, il Governo ha parificato l’età della pensione per le donne a quella degli uomini, ma solo nel settore pubblico; nel 2010 sono entrati in vigore i coefficienti di adeguamento delle prestazioni previdenziali alle aspettative di vita; nel 2015 scatterà il meccanismo di adeguamento alle aspettative di vita anche dell’età pensionabile. La spesa sociale resta tuttavia molto squilibrata nel senso del sostegno alle pensioni: circa 70 miliardi ogni anno versati dall’Erario per tenere in equilibrio il bilancio dell’Inps, nonostante che questo si avvalga di qualche decina di miliardi di attivo della Gestione Separata (quella che fra un quarto di secolo pagherà pensioni da fame ai giovani di oggi) e della gestione delle Prestazioni temporanee e in particolare della Cassa integrazione guadagni: un’assicurazione il cui “premio” pagato da imprese e lavoratori continua così a configurarsi, di fatto, per tre quarti come una tassa sul lavoro finalizzata al pagamento delle pensioni ai sessantenni, se non ai cinquantottenni.
La stessa Cassa integrazione guadagni – che ora può essere attivata dalle Regioni anche “in deroga” rispetto ai limiti posti dalla vecchia disciplina ‑ continua a essere largamente utilizzata, in modo del tutto improprio, anche per il sostegno del reddito dei lavoratori che sicuramente non riprenderanno a lavorare nella stessa azienda. La riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione, che dovrebbe universalizzare il relativo trattamento e al tempo stesso far cessare l’abuso della Cig e consentire una immediata attivazione delle misure per la ricollocazione dei lavoratori interessati, è rinviata a tempi migliori; né il Governo sembra avere le idee chiare sulle sue nuove linee portanti.

7. ‑ LA GIUSTIZIA: DUE ANNI ALL’INSEGNA DELLE LEGGI AD PERSONAM
(a cura di Luigi Ferrarella)

Leggi tarate sui processi di Berlusconi aprono e chiudono i primi due anni della legislatura. La legge Alfano, immunità temporanea per le alte cariche poi bocciata dalla Corte Costituzionale, è la prima ad essere approvata – in soli 25 giorni – nel 2008, due mesi dopo le elezioni. Ad aprile 2010 i giudici dei processi Mills e diritti tv Mediaset spediranno poi alla Corte Costituzionale anche la legge che delinea il nuovo «legittimo impedimento» (solo del premier e dei suoi ministri) come continuativo e autocertificato da Palazzo Chigi.
In mezzo, il rifiuto teorizzato in Parlamento di misure davvero strutturali come la revisione della geografia degli uffici giudiziari risalente all’Unità d’Italia. E, invece, una miriade di microinterventi privi di un disegno organico: un vestito d’Arlecchino cucito da interessi contingenti e asserite emergenze, nel quale tuttavia trova posto qualche misura positiva. È il caso, nel penale, dell’abolizione del patteggiamento in appello; del maggior ricorso al processo immediato e al rito direttissimo; del nuovo reato di atti persecutori («stalking»); delle regole, pur controverse al Csm, per tamponare l’assenza di pm nelle cosiddette «sedi disagiate» al Sud; della messa a regime di una buona idea ideata ma non concretizzata dal dicastero Mastella, il Fondo Unico Giustizia per la gestione dei soldi in sequestro, che chiuderà il primo consuntivo con circa 1 miliardo e mezzo di euro intestati al Fug e (di essi) 54 milioni definitivamente devolvibili (a metà) ai Ministeri della Giustizia e dell’Interno, meglio di niente anche se lontani dal poter bilanciare i tagli di ben altre dimensioni a risorse e personale; e, soprattutto, delle norme che nel «pacchetto sicurezza» n.94 del 15 luglio 2009 hanno allargato gli strumenti giuridici utilizzabili per aggredire i patrimoni mafiosi e applicare le misure di prevenzione. Così come, tra le modifiche alla giustizia civile, accanto alle perplessità sull’introduzione della testimonianza scritta e su alcuni aspetti della mediazione finalizzata alla conciliazione, sarà invece certamente interessante sperimentare l’esito dell’introduzione di un filtro ai ricorsi in Cassazione e della nuova disciplina delle spese processuali volta a sanzionare le parti che abusino del processo; mentre sulla digitalizzazione dei procedimenti, che fa passi avanti sul piano delle normative, resta l’incognita dei soldi per reti, personale e assistenza.
La rincorsa all’emergenza di turno, fosse uno stupro a Capodanno o una brutale rapina in villa, ha invece dettato nei vari pacchetti-sicurezza un’orgia di nuove aggravanti, di inasprimenti di pena o di introduzioni di nuovi reati (come quello di immigrazione clandestina, franato già nei primi mesi di complicata applicazione davanti ai giudici di pace), spesso entrati in corto circuito con altre non considerate norme contenute nei codici.
Solo nel gennaio del 2010, dopo un anno e mezzo di ripetuti annunci e con ormai 67mila detenuti rinchiusi in 43mila posti regolamentari, il Governo ha prospettato un piano-carceri che però, salvo il dichiarato «stato di emergenza» e la proclamata disponibilità di 600 milioni di euro sul fabbisogno di 1.590 inizialmente stimato, vede ancora solo sulla carta gli obiettivi di 21.700 nuovi posti entro il 2012, allorchè (ammesso nel frattempo siano stati davvero creati) all’attuale tasso mensile i detenuti saranno diventati 90.000: non a caso il ministro evoca proprio in questi giorni la possibilità di un decreto legge che, facendo scontare agli arresti domiciliari l’ultimo anno di pena,  alleggerisca di colpo i penitenziari di  9.000 posti. Ancora atteso è il varo dell’annunciato disegno di legge anti-corruzione, deludente peraltro nei contenuti al ribasso. Mentre la maggioranza, dopo averli già approvati in uno dei rami del Parlamento, punta infine ad approvare definitivamente due testi (ai quali aggiungere poi il ddl sul processo penale con lo sganciamento della polizia giudiziaria dai pm): la legge che limiterebbe non solo le intercettazioni ma anche la pubblicabilità degli atti giudiziari, e quella che alla prescrizione del reato aggiungerebbe una inedita prescrizione del processo breve a partire dalla data di rinvio a giudizio.

8. ‑ LA SCUOLA: PER ORA SOLO TAGLI
(a cura di Daniele Checchi)

L’azione governativa si è mossa seguendo l’unica direttrice, dettata dal Ministro dell’Economia nel dicembre 2008, del ripianamento del debito pubblico. Questa linea si è articolata diversamente nei settori della Scuola e dell’Università.
La Scuola. – Qui, data l’elevata incidenza del costo del personale sul totale della spesa, l’unica strada per produrre un risparmio di spesa era quella del ridisegno dei percorsi scolastici, e a questo ci si è attenuti: la reintroduzione del maestro prevalente nella scuola primaria, la riduzione dell’orario d’insegnamento nella scuola secondaria (sia di primo che di secondo grado), la riduzione degli indirizzi nella scuola secondaria di secondo grado. L’azione del ministro è però stata selettiva nelle riduzioni di spesa, non avendo ridotto il finanziamento alle scuole private “paritarie” e non avendo affrontato il nodo degli insegnanti di sostegno (uno dei canali maggiormente sfruttati dalle direzioni scolastiche regionali per gonfiare gli organici). Ma ha prodotto nel contempo un aggravio finanziario per le famiglie, attraverso le aumentate richieste di compartecipazione alla spesa (che ha già dato luogo a contenziosi amministrativi). Tuttavia questa strategia non sembra perseguire obiettivi specifici coerenti con la soluzione di uno dei problemi principali del sistema scolastico italiano, ovvero quello del divario dell’apprendimento tra nord e sud del Paese: non risulta in letteratura che riducendo le ore erogate di lezione e/o il numero degli insegnanti, l’apprendimento tenda a migliorare. A meno che non si voglia (maliziosamente) interpretare la norma del Collegato-lavoro alla Finanziaria 2010 sulla ammissione dei quindicenni all’apprendistato per l’assolvimento dell’obbligo scolastico come risposta alla minor performance: basta che chi è inadatto alla scuola vada a lavorare!
Il Ministro aveva anche promesso che un terzo dei risparmi di spesa sarebbe stato reimpiegato per promuovere la professionalità e il merito tra gli insegnanti, ma nulla di questo è stato realizzato.
Infine il tema della valutazione, precondizione per una reale politica meritocratica, è rimasto sulla carta, essendo mancato un finanziamento adeguato del piano di valutazione nazionale proposto dall’Invalsi.
L’Università. ‑ Nel rispetto dell’autonomia degli atenei, la linea di governo si è attuata semplicemente come riduzione del fondo di finanziamento ordinario, in via di progressiva ulteriore riduzione nel triennio 2010-12. È pur vero che una parte del finanziamento 2009 (il 7%) è stato distribuito con criteri collegati alla efficacia della didattica, ma questo è avvenuto senza incidere in misura apprezzabile sull’entità del finanziamento complessivo percepito dagli atenei. È attualmente in discussione un progetto ambizioso di ridisegno della governance universitaria, delle carriere dei docenti e della organizzazione interna degli atenei, tuttavia molto centrato su deleghe al Governo: fatto questo che da un lato rende difficile la previsione dell’esito finale, dall’altro sicuramente allunga i tempi di attuazione. Di nuovo il tema della valutazione è un tasto dolente: il Ministro aveva la possibilità di avviare immediatamente l’ANVUR, in quanto già previsto da una legge dello Stato. A due anni e mezzo ancora non è stato fatto quasi nulla, se non emanare il decreto di avvio del prossimo CIVR. Nel frattempo le università hanno fatto ricorso alle poche risorse rimaste, ma i fondi interni per la ricerca sono pressoché azzerati ovunque, senza che la riduzione della didattica erogata, auspicata dal ministro, abbia prodotto alcun margine di manovra.
Complessivamente nel corso dei due anni trascorsi il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca è riuscito a diffondere a tutti i livelli un clima di disorientamento istituzionale, di smarrimento nel corpo docente e di precarietà finanziaria che induce alla smobilitazione e al “si salvi chi può” individuale, distruggendo uno dei presupposti identitari principali (la professionalità del corpo docente) che permettono il buon funzionamento di ogni istituzione educativa, a qualunque livello. Forse era questo l’intento principe del Ministro.

9. ‑ L’IMMIGRAZIONE: SBARCHI RIDOTTI, PENE AGGRAVATE, POCHE MISURE PER L’INTEGRAZIONE
(a cura di Massimo Livi Bacci)

Nonostante la crisi e la mancata reiterazione del decreto flussi nel 2009, la presenza straniera è ulteriormente aumentata così come gli occupati stranieri (IV trimestre del 2009), in controtendenza rispetto all’andamento generale dell’occupazione. Si calcola che gli stranieri regolari si aggirino attorno ai 4,5 milioni all’inizio del 2010. L’immigrazione è oramai un fenomeno di massa e la normativa necessita una profonda revisione per quanto riguarda sia i meccanismi di accesso legale al Paese di cittadini stranieri, sia la durata dei permessi di soggiorno e le lentissime procedure di rinnovo, sia la concessione della cittadinanza e dei diritti di voto. Il Governo ha invece messo in atto provvedimenti di pesante – quanto inutile, quando non dannosa – impronta securitaria. Col “pacchetto sicurezza” è stato introdotto nel nostro ordinamento il reato d’immigrazione clandestina e si sono aggravate le pene per molti reati, quando compiuti da immigrati irregolari; si è resa difficile la vita a milioni di immigrati con la tassa su concessioni e rinnovi dei permessi di soggiorno, con le ulteriori difficoltà frapposte al conseguimento del titolo di lungo-soggiornante, con la trovata del permesso a punti di cui nemmeno i proponenti sanno bene cosa fare. Si sono allungati i tempi di permanenza nei CIE, mentre si rende impossibile il rimpatrio volontario dell’irregolare, che deve essere necessariamente espulso essendo l’irregolarità un reato. Così facendo non si combatte l’irregolarità, che è dovuta all’estensione dell’economia sommersa e del lavoro al nero, alla normativa impervia per l’accesso legale, alla corta durata dei permessi, la cui scadenza converte rapidamente in irregolare chi perde un lavoro.
Nell’autunno del 2009 si è proceduto ad una sanatoria di quasi 300.000 colf e badanti, persone arrivate in Italia con visti turistici ma spesso da anni impiegate presso le famiglie. Una sanatoria “zoppa”, che non ha voluto regolarizzare altre centinaia di migliaia di irregolari impiegati in lavori non meno utili e necessari.
Va infine segnalata la questione dei respingimenti e riaccompagnamenti di migranti intercettati in mare. Il Trattato di amicizia con la Libia – ratificato nel febbraio 2009 – ha di fatto fortemente ridotto gli sbarchi di irregolari sulle coste italiane. Ma la sorte degli irregolari intercettati nelle acque libiche o in quelle internazionali da pattuglie italo-libiche, e respinti in Libia, paese poco incline alla salvaguardia dei diritti umani, è un problema irrisolto che ha suscitato inquietanti critiche sul piano internazionale.
Riforma della normativa per l’accesso legale al paese; controllo delle cause – e non solo dei sintomi – dell’irregolarità; consistenti investimenti nell’integrazione dei migranti; nuova normativa sull’acquisizione della cittadinanza; rigoroso rispetto delle convenzioni internazionali per il diritto d’asilo: questi sono i punti fondamentali per una politica migratoria lungimirante non sequestrata dall’ossessione securitaria.