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RELAZIONI INDUSTRIALI: COME INVIARE UN MESSAGGIO POSITIVO AGLI INVESTITORI STRANIERI

PER PORSI IN CONDIZIONE DI ATTIRARE IL MEGLIO DELL’IMPRENDITORIA MONDIALE, L’ITALIA HA URGENTE BISOGNO DI UN SISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI CHE CONSENTA LA SCOMMESSA SUL PIANO INDUSTRIALE INNOVATIVO, MEDIANTE L’ACCORDO AZIENDALE, ANCHE NELLE SITUAZIONI DI GRAVE DIVERGENZA TRA I SINDACATI MAGGIORI

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, nella rubrica Lettera sul Lavoro, il 14 giugno 2010 – Sul tema di questo articolo rinvio anche al mio saggio Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore [1]

Caro Direttore, quale che sia il risultato finale della partita che si sta giocando in queste ore alla Fiat di Pomigliano d’Arco, essa costituisce l’ennesima conferma della grave inadeguatezza del sistema italiano delle relazioni industriali rispetto alle sfide dell’economia globale. L’immagine del sindacato italiano che questa vicenda dà al mondo è la stessa che diede due anni fa l’inconcludente trattativa con Air France-KLM per il futuro di Alitalia: quella di un sindacato profondamente diviso, ma anche incapace di darsi le regole necessarie per evitare che la divisione generi paralisi.
            In un sistema ispirato al principio del pluralismo sindacale, deve considerarsi normale che nella valutazione di un piano industriale a forte contenuto innovativo le associazioni sindacali si dividano. Il problema è che il nostro sistema non ha saputo dotarsi degli strumenti indispensabili per dirimere la questione. Accade così che, se non si arriva a un accordo che coinvolga tutti quanti, l’innovazione rispetto allo standard definito dal contratto collettivo nazionale è poco praticabile: i lavoratori dissenzienti potranno sempre ottenerne dal giudice la disapplicazione nei propri confronti; e i sindacati dissenzienti – anche quando rappresentino soltanto l’uno per cento dei lavoratori interessati – potranno sempre proclamare uno sciopero contro l’accordo, cui potrà aderire quell’uno per cento, ma anche il cinquanta o il cento per cento dei lavoratori, ivi compresi quelli aderenti ai sindacati che l’accordo l’hanno firmato. Il risultato è che l’imprenditore se ne va altrove con il suo piano industriale innovativo e con la domanda di lavoro che esso porta con sé (è quello che – comprensibilmente – minaccia di fare Marchionne a Pomigliano, se l’accordo non sarà firmato da tutti).
            Questo gravissimo difetto del nostro sistema delle relazioni industriali non è – beninteso – la sola causa della scarsa attrattività dell’Italia per le imprese multinazionali; ma molti osservatori qualificati lo considerano come una delle cause principali, insieme alla complessità, ipertrofia e incomprensibilità del nostro diritto del lavoro, per gli stranieri e non solo per loro. Nel momento in cui ci proponiamo di curare il “male oscuro” che da due decenni impedisce al nostro Paese di crescere, faremmo bene ad affrontare e risolvere questo problema al più presto. L’Italia è da molti anni il fanalino di coda nella graduatoria dei Paesi europei più capaci di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali: nell’ultimo quinquennio precedente alla grande crisi (2004-2008) essa ha saputo attirare sul proprio territorio investimenti stranieri in una misura complessivamente pari al 6,9 per cento del PIL (meno dell’1,4 ogni anno), a fronte del 27,3 per cento in Gran Bretagna, del 24,4 in Olanda, del 19,4 in Francia, del 13,6 in Spagna. Peggio di noi ha fatto soltanto la Grecia (5,2). È così che il nostro Paese subisce gli effetti negativi della globalizzazione – cioè le delocalizzazioni delle imprese italiane verso i Paesi emergenti e la concorrenza della manodopera straniera nelle fasce professionali più basse – senza essere capace di approfittare della più importante opportunità positiva offerta dalla globalizzazione stessa: ovvero della possibilità di attirare sul nostro territorio il meglio dell’imprenditoria straniera, che porta con sé innovazione, quindi maggiore produttività del lavoro e più alte retribuzioni.
            Certo, perché di questo si tratti e non di “dumping sociale”, cioè di “concorrenza al ribasso”, è indispensabile che il sindacato sappia (e possa) operare come intelligenza collettiva dei lavoratori nella valutazione del piano industriale che viene proposto e delle alternative disponibili. Di qualsiasi deroga rispetto allo standard posto dal contratto collettivo nazionale – riguardi essa l’organizzazione del lavoro, il sistema di inquadramento, gli orari, o la struttura delle retribuzioni – nessuno può stabilire in astratto se essa sia “meglio” o “peggio” per i lavoratori interessati. Ma, così come sarebbe sbagliato un sistema di relazioni industriali che consentisse a priori a qualsiasi sindacato di sottoscrivere quella deroga con efficacia generale, altrettanto sbagliato sarebbe un sistema che a priori lo vietasse. E il nostro sistema si avvicina molto a quest’ultimo modello, perché la regola dell’unanimità significa di fatto in molti casi impossibilità pratica di sperimentare l’innovazione rispetto allo standard nazionale, buona o cattiva che sia.
            Così stando le cose, i casi sono due: o il nostro sistema delle relazioni industriali saprà darsi da solo le regole necessarie, in materia di rappresentatività, di legittimazione a contrattare e di efficacia del contratto (ivi compresa l’eventuale clausola di tregua sindacale) mediante un accordo interconfederale sottoscritto da tutte le confederazioni maggiori, o dovrà farlo il legislatore in via sussidiaria. Molto meglio la prima ipotesi.