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MANDATEMI PURE IN PENSIONE, MA GARANTITE LA QUALITÀ

LA QUESTIONE DELL’ETA’ MASSIMA DEI PROFESSORI LO DIMOSTRA: PER LA RIFORMA DELL’UNIVERSITA’ NON CI SONO ALTERNATIVE ALL’ATTIVAZIONE DI UN SISTEMA NAZIONALE DI VALUTAZIONE INDIPENDENTE DELLA PERFORMANCE DEGLI ATENEI

Editoriale di Michele Salvati pubblicato sul Corriere della Sera del 23 luglio 2010

Chi scrive è un professore universitario, oppresso da un intollerabile senso di colpa: ha 73 anni ed è ancora in servizio. È vero che dovrà andare in pensione quest’ anno, ma intanto ha sottratto un posto prezioso a docenti più giovani di lui e la recente proposta di pensionare gli universitari a 65 anni gli ha fatto venire in mente un vecchio racconto di Isaac Asimov nel quale – in un povero pianeta di una sperduta galassia – l’estrema penuria di risorse aveva indotto a sopprimere gli ultra-sessantacinquenni.
Era l’ unico modo egualitario per garantire la sopravvivenza della specie. Sto scherzando, naturalmente, ma non è uno scherzo la proposta del ministro Gelmini e del responsabile per l’Università del Pd, Marco Meloni, una volta tanto d’accordo. Si tratta di una proposta ragionevole?
Quasi tutti i Paesi con cui ha senso confrontarci fissano dei tetti d’età rigidi per la permanenza in servizio: c’è anche da noi (in passato 72 anni, ora 70: il caso mio e di pochi altri è dovuto all’ incrocio di normative speciali) e dunque la discussione verte se anticiparlo. In alcuni Paesi è ancor più basso: alcune Università italiane, specie quelle situate in luoghi turisticamente gradevoli, hanno potuto impiegare bravissimi professori stranieri costretti alla pensione dai loro ordinamenti (in Gran Bretagna, ad esempio, vale il limite dei 65 anni). Non c’è limite imperativo negli Stati Uniti, cui spesso guardano i riformatori della nostra Università: costringere al pensionamento ad un’ età fissa chi non vuole pensionarsi sarebbe un caso di «age discrimination», parente stretta della discriminazione per sesso o per razza.
Riassumendo: se valutata soltanto in riferimento alle pratiche altrui, la proposta Gelmini-Meloni non è palesemente anomala. Dati i problemi in cui versa la nostra università, e che il ministro sta coraggiosamente affrontando, si tratta anche di una proposta ragionevole, condivisibile?
È opportuno fissare anzitutto l’ unico criterio appropriato per dare una risposta a questa domanda: date le risorse disponibili, è ragionevole quella soluzione che lascia in università i docenti più capaci, sia in termini di qualità della ricerca che di qualità della didattica, ed esistono oggi indicatori abbastanza affidabili per misurare entrambe. E, quanto alle risorse, mi limito a considerare quelle destinate all’ Università. (Dal punto di vista della spesa pubblica nel suo insieme, un professore in servizio costa poco di più di un professore in pensione e nei prossimi anni il risparmio sarebbe minimo: si tratterebbe solo di una partita di giro, che sposta l’ onere dal ministero all’ ente previdenziale). Ma può darsi che il governo voglia risparmiare anche sulla spesa universitaria corrente restringendo l’ organico dei professori, mandando in pensione gli ultra-sessantacinquenni e non sostituendoli, o sostituendoli solo parzialmente: per un governo (e soprattutto per un’ opposizione) che altro non fanno se non proclamare che il destino dell’ Italia si gioca sulla qualità dei suoi giovani, si tratterebbe di un’ azione insensata, ma ci siamo abituati.
Sia come sia, fissato l’ organico obiettivo, perché raggiungerlo con questi tagli drastici? A seguito dell’ effetto fisarmonica che è prevalso nel passato (ondate di assunzioni, seguite da lunghi periodi di blocco) nei prossimi cinque anni, con le attuali regole, già andranno in pensione circa 12.000 docenti. Se si impone la regola dei 65 anni se ne aggiungerebbero più di 7.000. Se non vengono sostituiti si ricade nell’ insensatezza di cui dicevo. Se vengono sostituiti si riprodurrebbe l’ effetto fisarmonica: data la disponibilità di posti, sarà molto difficile riempirli con giovani docenti di qualità adeguata.
Questo è un punto critico importante, ma non è il principale. Il principale riguarda quello che più sopra ho definito l’unico modo appropriato per giudicare sul merito della permanenza in servizio di un docente universitario, la qualità della ricerca e della didattica, valutate secondo criteri che cominciano ad essere disponibili. Chi ci assicura che tutti gli ultra-sessantacinquenni siano peggiori di tutti i docenti al di sotto di questa età? Chi ci garantisce che non perderemo risorse preziose? Le regole semplici sono stupide – ha detto Keynes e ripetuto Prodi a proposito delle percentuali di Maastricht – e solo la discrezione è intelligente. Se applicata, naturalmente, da persone competenti e oneste. Ma non è questa la via in cui vogliamo avviarci attraverso una incessante attività di valutazione? Attraverso incrementi stipendiali legati ai risultati di questa valutazione, e non uniformi secondo l’età? E applicati a tutti, prima e dopo i 65 anni. Se applicassimo seriamente questi criteri ho pochi dubbi che i ranghi dei professori, e non soltanto di quelli più anziani, si sfoltirebbero notevolmente e senza pregiudizio per l’ Università.