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LA GINNASTICA STATALE COSTA TROPPO

LO STATO OGGI SPENDE 233 EURO ALL’ANNO PER CIASCUNO STUDENTE PER UN INSEGNAMENTO DI EDUCAZIONE FISICA DI CONTENUTO MEDIAMENTE INFIMO: STANTE L’ASSENZA IN QUESTA MATERIA DI IMPLICAZIONI IDEOLOGICHE, NON SAREBBE MEGLIO DISTRIBUIRE UN VOUCHER DI PARI IMPORTO, CHE CONSENTISSE A CIASCUN INTERESSATO DI SCEGLIERSI IL SERVIZIO MIGLIORE, SIA ESSO OFFERTO DALLA SCUOLA PUBBLICA O DA PALESTRE PRIVATE?

Articolo di Andrea Ichino, pubblicato sul Sole 24 Ore il 25 luglio – Segue la replica dello stesso Autore alle numerose lettere pervenute al quotidiano – In riferimento alle quali mi sia consentito soltanto aggiungere che i vouchers sono dei buoni spendibili soltanto a favore di strutture – pubbliche o private – preventivamente accreditate, tra le quali dovrebbero ovviamente essere annoverate le stesse scuole pubbliche, col risultato del probabile concentrarsi degli utenti presso le scuole pubbliche che offrono il servizio migliore

Gli italiani soffrono di una strana forma di schizofrenia: chiedono allo Stato di erogare ogni sorta di servizi pubblici, lamentandosi se questi vengono tolti o negati, e al tempo stesso protestano contro un prelievo fiscale asfissiante ma inevitabile se quei servizi li deve fornire la pubblica amministrazione. Se poi, come spesso accade, i servizi richiesti sono forniti in modo inefficiente dal Governo, ancor meno si capisce perché gli italiani vogliano a tutti i costi che sia questo, e non il mercato, a fornirli.
Facciamo un esempio concreto. Attualmente gli italiani pagano attraverso le tasse l’insegnamento dell’educazione fisica che i loro figli ricevono a scuola. Nel panorama vacillante dell’istruzione pubblica italiana, la ginnastica è forse uno degli ambiti più disastrati, soprattutto per le condizioni fatiscenti delle palestre e delle attrezzature di cui i nostri edifici scolastici sono dotati. Tanto è vero che, al pomeriggio, gli adolescenti italiani vengono iscritti dai lori genitori ad ogni tipo di associazione sportiva privata che possa far fare a loro quell’esercizio fisico essenziale per la crescita, che la scuola pubblica, nella maggior parte dei casi, non è in grado di offrire al mattino. Quindi i genitori italiani pagano due volte per la ginnastica dei loro figli: allo Stato al mattino, per un servizio inefficiente, e ai privati al pomeriggio per un servizio di qualità commisurata alle loro preferenze e possibilità.
Gli italiani non sembrano rendersi conto di questo e nemmeno realizzano che quanto essi pagano allo Stato per un servizio inadeguato non è poco. Ci sono 33830 insegnanti di educazione fisica nelle scuole medie inferiori e superiori italiane, la cui retribuzione lorda annua è di circa 29071 euro (con 15 anni di anzianità). Gli studenti negli stessi ordini di scuola sono 4218953. Quindi ci sono circa 125 studenti per ogni insegnante. Se ipoteticamente il Ministero dell’Istruzione togliesse la ginnastica dai programmi scolastici mandando a casa gli insegnanti di questa materia, si potrebbero restituire ad ogni studente circa 233 euro ogni anno. Con questa somma si possono acquistare nel mercato privato attività sportive di qualità mediamente migliore di quella offerta dalla scuola pubblica e per almeno 6 mesi se non di più (ad esempio, 6 ore di basket alla settimana più le partite domenicali, inclusa divisa e magliette). Al tempo stesso una buona parte degli insegnanti di educazione fisica lasciati a casa dal Ministero (almeno quelli bravi) potrebbe trovare lavoro nel mercato privato, dal momento che aumenterebbe la domanda pomeridiana di educazione fisica e attività sportiva per i giovani adolescenti. Ci sarebbe un problema di transizione e forse alcuni degli insegnanti meno capaci non troverebbero lavoro nel settore privato e avrebbero bisogno di un supporto assistenziale almeno in vista di una riconversione ad altri lavori. Ma se il problema è questo affrontiamolo direttamente con mezzi appropriati, non attraverso la finzione di un servizio pubblico inefficiente e inutilmente costoso per il contribuente.
La maggior parte degli italiani probabilmente reagirebbe con stupore ad una proposta di questo tipo partendo dal presupposto che sia un diritto inalienabile del cittadino ricevere un’educazione fisica adeguata da parte dello Stato, e in particolare che tutti i cittadini, anche quelli poveri, debbano poter accedere a questo diritto. Ma se lo Stato richiede ad ognuno di noi una spesa rilevante per fornire un servizio che in realtà è ben lontano dall’essere adeguato (soprattutto per i poveri che non hanno alternative), non sarebbe meglio chiedere allo Stato di farsi da parte rendendoci i soldi, in modo da consentirci di organizzare da soli quanto necessario per produrre il servizio? Del resto così facciamo per altri servizi non meno importanti dell’educazione fisica: ad esempio l’istruzione stradale per la guida di motociclette e automobili, attualmente fornita da imprese private a prezzi di mercato. Perché non chiediamo che questo tipo di istruzione venga fornita direttamente dallo Stato mediante insegnanti pubblici pagati dalle nostre tasse? Forse perché le implicazioni ideologiche del codice della strada sono meno rilevanti ed è quindi accettabile che l’istruzione stradale venga impartita liberamente da privati? Ma se questo è il motivo, tutto sommato esso varrebbe anche per la ginnastica e forse per altri servizi attualmente pubblici.
Se invece il problema vero fosse quello dell’uguaglianza nell’accesso a beni ritenuti essenziali per tutti, lo si potrebbe risolvere meglio in altri modi, ad esempio tassando i ricchi per sussidiare i poveri con voucher per l’acquisto di quei beni, senza bisogno che sia lo Stato a produrli in prima persona.
Non è facile capire in base a quale criterio gli italiani vogliano che alcuni servizi siano rigorosamente pubblici mentre altri possano invece essere acquistati e venduti nel mercato secondo le sue leggi. Ma sarebbe opportuno che gli italiani cominciassero a pensarci, per rendersi conto che forse, in molti casi, converrebbe contrattare con Tremonti un taglio nell’erogazione di qualche servizio pubblico in cambio di riduzioni contestuali e immediate del prelievo fiscale.

LA REPLICA DI ANDREA ICHINO ALLE NUMEROSE LETTERE DI LETTORI
            Molte lettere hanno fatto seguito al mio articolo sull’educazione fisica nelle scuole italiane. Molte e appassionate. Da meritare risposta. Chiedersi se l’educazione fisica debba essere impartita come servizio pubblico o come bene privato secondo regole di mercato, non significa proporre che questo fondamentale ingrediente della formazione debba essere “abolito”. Anzi un obiettivo del mio articolo era proprio invitare i lettori a riflettere su come migliorare l’offerta di questo servizio.�
            Soprattutto nella vita prevalentemente sedentaria di oggi è ancora più importante che nel passato dedicare tempo all’esercizio fisico per controllare il peso corporeo, migliorare l’efficienza del nostro fisico (mente inclusa) e prevenire l’insorgenza di malattie in età avanzata. L’obesità e il diabete ad essa connesso stanno diventando una delle emergenze sanitarie dei paesi avanzati. Infiniti studi lo dimostrano in modo inequivocabile. Come Istruttore di Sci Alpinismo del CAI, mountain  biker e velista, impegnato anche nell’istruzione giovanile per questi sport, mi è inoltre ben chiaro quanto sia importante il “valore formativo all’impegno e alla fatica” di una seria educazione fisica e sportiva, anche se si tratta di un valore meno facilmente misurabile della salute.
            Quindi si tranquillizzino i lettori preoccupati, forse per via di un titolo volutamente provocatorio, che il mio obiettivo fosse far impigrire la gioventù italiana davanti alla televisione o ai videogames.
            Il punto importante è un altro: quando riteniamo che un bene sia di interesse pubblico, è preferibile che sia lo stato a produrlo in prima persona oppure otteniamo un risultato migliore se la produzione del servizio è affidata ai privati e lo stato si limita ad un controllo più o meno stretto sul rispetto di standard di qualità e di indirizzo? Nel caso dell’istruzione stradale, ad esempio, abbiamo scelto il secondo metodo, nonostante i morti sulle strade non siano pochi.�
            Come nel caso dell’educazione fisica, l’insegnamento dell’inglese è un altro esempio particolarmente interessante. Infatti, se le famiglie italiane fossero così felici dell’inglese che i loro figli imparano a scuola, non spenderebbero così tanti soldi al pomeriggio o durante le estati per internazionalizzare i loro figli. Mi si dirà che questa osservazione indiretta non sostituisce una seria valutazione delle scuole e degli insegnanti, che dovrebbe riguardare non solo la matematica e l’italiano, ma anche l’inglese e l’educazione fisica, proprio per poter premiare chi, nonostante condizioni di lavoro disagiate, riesce a dare un ottimo servizio, e aiutare chi invece non ci riesce. Concordo pienamente. Ma allo stato attuale delle informazioni, il comportamento stesso delle famiglie italiane suggerisce che, sia nel caso delle lingue sia in quello dell’istruzione fisica, le tasse utilizzate a questi fini non siano spese nel modo migliore.
            Il problema riguarda in realtà molti altri servizi pubblici, incluso il sistema universitario dal quale io ricevo il mio stipendio. La privatizzazione di questo servizio l’ho da tempo proposta io stesso, insieme ad altri miei colleghi. Non esiste una risposta unica, valida per tutti i casi, al quesito generale che il mio articolo ha posto. In Italia siamo abituati a pensare che tutti questi servizi debbano essere pubblici, anche se non ci rendiamo bene conto di quanto ci costano (e il mio calcolo per l’educazione fisica serviva solo a questo). Però protestiamo per l’asfissiante pressione fiscale e per l’inefficienza dello Stato nel produrli.�
            Un teorema fondamentale della scienza economica, invece, suggerisce che un mercato perfettamente concorrenziale sia il modo migliore per produrre e scambiare un bene. E i problemi di equità, che il mercato da solo non sa risolvere quando le risorse non sono equamente distribuite, si possono alleviare tassando i ricchi e distribuendo ai poveri voucher vincolati all’acquisto del bene, senza che sia lo Stato a produrlo. Se c’è una chance che questo suggerimento degli economisti possa essere sensato, perché non porsi il problema, senza preclusioni ideologiche, non per eliminare il bene dal paniere dei consumatori, ma solo per produrlo meglio?