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QUALE MODELLO PER LE RELAZIONI INDUSTRIALI IN ITALIA?

LA VICENDA FIAT HA SEGNATO UN PUNTO DI SVOLTA FONDAMENTALE NELLA CRISI DEL VECCHIO SISTEMA CENTRATO SUL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE RIGIDAMENTE INDEROGABILE – E’ ORMAI INDISPENSABILE UNA CULTURA SINDACALE PIU’ MATURA ED UN SINDACATO CHE SAPPIA E VOGLIA VALUTARE I PIANI INDUSTRIALI INNOVATIVI E L’AFFIDABILITÀ DELL’IMPRENDITORE CHE LI PROPONE

Intervista a cura di Ketty Areddia pubblicata su TopLegal, novembre 2010

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Un diritto di proprietà. Così Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd, definisce il criterio dell’eredità del posto di lavoro adottato da molte aziende.

E’ il sistema delle relazioni industriali italiane il motivo per cui gli stranieri fanno fatica a investire in Italia?
Le cause della nostra pessima performance nel mercato globale dei capitali sono molteplici: il difetto grave di efficienza delle nostre amministrazioni pubbliche e in primo luogo di quella della giustizia; i difetti delle nostre infrastrutture di trasporto e comunicazione; il difetto generale, nel nostro Paese, di diffusione e radicamento della cultura delle regole, e nel Mezzogiorno il potere esercitato di fatto dalla criminalità organizzata. Ma tra le cause principali va annoverato anche il nostro sistema delle relazioni industriali inconcludente, nel quale, se non sono d’accordo tutti i sindacati maggiori non si può stipulare efficacemente un contratto aziendale che si discosti dal modello definito dal contratto collettivo nazionale. Infine va menzionata l’illeggibilità e non traducibilità in inglese della nostra legislazione in materia di lavoro: occorre una grande opera di semplificazione.

In che maniera si stanno modificando, secondo lei, le relazioni sindacali?
La vicenda della Fiat e in particolare l’accordo di Pomigliano hanno segnato una svolta, aprendo la crisi del vecchio sistema centrato sul contratto collettivo nazionale rigidamente inderogabile. Come usciremo da questa crisi, nessuno può dirlo in modo preciso. La sola cosa certa è che il baricentro del sistema si sposterà ulteriormente verso la periferia.

Ma questo non era già stato sancito dall’accordo interconfederale del 2009?
Quell’accordo era ancora troppo timido, nel decentramento della contrattazione collettiva: considerava ancora le deroghe come eccezioni, soggette al controllo delle parti negoziatrici centrali. Così, alla prima prova importante, appena un anno dopo la sua stipulazione, il nuovo sistema è andato in crisi: l’accordo di Pomigliano si è rivelato incompatibile con quel nuovo ordinamento, che pertanto ora deve essere modificato di nuovo.

Che cosa dovrebbe migliorare nel sistema attuale e nel dialogo imprese-sindacato?
Occorrono innanzitutto delle regole ispirate al principio di democrazia sindacale, che consentano di evitare che il dissenso tra sindacati provochi la paralisi della contrattazione, o l’inefficacia parziale o totale del contratto. Poi occorrerebbe la maturazione di una nuova cultura sindacale: la contrattazione vera e propria dovrebbe essere preceduta da una sessione tecnica volta a definire il quadro condiviso dei vincoli entro cui ci si dovrà muovere e degli obiettivi produttivi che si intende perseguire; come accade nei Paesi scandinavi, in Germania, in Olanda.

Il rischio del dare maggior spazio alla contrattazione di secondo livello non è quello del progressivo assottigliamento delle tutele sindacali?
Questa è l’idea oggi dominante nel nostro Paese, dalla quale deriva la scelta dell’inderogabilità pressoché assoluta del contratto collettivo nazionale. Ma nella realtà ci sono deroghe aziendali al contratto nazionale di due tipi: quelle tendenti soltanto a ridurre gli standard, e quelle che producono aumenti di produttività del lavoro e dei trattamenti dei lavoratori. Noi oggi, per paura delle prime, ci precludiamo anche le seconde. O comunque le rendiamo molto più difficili. Col risultato di frenare la crescita della nostra economia. Con questa sua vischiosità, il nostro sistema delle relazioni industriali non rende un buon servizio ai lavoratori.

Il caso Pomigliano e l’aut-aut di Marchionne è stato criticato anche da giuslavoristi di grandi aziende; qual è la sua posizione?
L’accordo di Pomigliano prevede, sì, un appesantimento dei turni di lavoro. Ma non è questo il motivo dell’opposizione della Cgil: la Cgil ha rifiutato l’accordo sostenendo che esso lederebbe diritti fondamentali dei lavoratori, violando la legge italiana e addirittura la Costituzione. A me sembra che questo non sia vero: in questo accordo non vedo nessuna violazione di legge, bensì soltanto alcune deroghe al contratto nazionale. Ma sono deroghe destinate a produrre aumento di produttività e miglioramento del trattamento dei lavoratori.

Il ruolo del Governo, in questa fase è venuto a mancare? Si poteva fare di più?
In una situazione come quella dello stabilimento di Pomigliano, dove si manifestano gli effetti della concorrenza dei lavoratori dei Paesi emergenti nella fascia professionale più bassa, lo Stato può rendersi utile facendo tre cose: innanzitutto ridurre drasticamente l’Irpef sui primi 1000 euro di reddito di lavoro mensile; inoltre, dettare in via sussidiaria le regole di democrazia sindacale necessarie per la validità dell’accordo sul piano industriale, visto che il sistema della contrattazione collettiva non riesce a darsele da solo; infine migliorare le infrastrutture circostanti e i servizi all’impresa, a partire da quelli di riqualificazione professionale dei lavoratori. A me sembra che a Pomigliano il Governo non abbia fatto e non stia facendo nessuna di queste tre cose: anzi, il ministro del Lavoro teorizza la necessità di non intervenire in alcun modo.

Quale potrebbe essere a suo parere un buon modello di relazioni sindacali a cui ispirarsi per un’eventuale riforma?
Non ne sceglierei uno in particolare. Abbiamo molte cose da imparare dal modello scandinavo, da quello tedesco, ma anche da alcune esperienze anglosassoni.  L’importante è che ci dotiamo di una cornice di regole che consentano a visioni e strategie sindacali diverse di confrontarsi e anche competere tra loro, senza paralizzarsi a vicenda. Poi occorre un sindacato-intelligenza collettiva dei lavoratori che sappia e voglia guidarli nel difficile compito di “ingaggiare” e portare in casa loro il meglio dell’imprenditoria mondiale. Per questo occorre un sindacato che sappia e voglia valutare i piani industriali innovativi e l’affidabilità dell’imprenditore che li propone; e, se la valutazione è positiva, sappia guidare i lavoratori nella scommessa comune su quei piani.