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L’USCITA DELLA FIAT DA CONFINDUSTRIA E LA QUESTIONE CRUCIALE DEL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE

LA QUESTIONE DEL RAPPORTO TRA CONTRATTO AZIENDALE E NAZIONALE PUO’ E DEVE ESSERE AFFRONTATA IN TERMINI NUOVI – TORNARE A PARLARE, A QUESTO PROPOSITO, DI “ARROGANZA” DI MARCHIONNE, O DI “RICATTO”, SIGNIFICA IGNORARE IL COROLLARIO FONDAMENTALE DEL PRINCIPIO CONTRATTUALISTICO, CIOE’ LA POSSIBILITA’ CHE IL CONTRATTO NON VENGA STIPULATO AFFATTO

Articolo pubblicato su il Foglio del 14 dicembre 2010 e in corso di pubblicazione su Mondoperaio, gennaio 2011 – Sullo stesso tema v. la mia Lettera sul lavoro pubblicata sul Corriere della Sera del 6 dicembre 2010 [1] 

   1. – Il 10 dicembre scorso Sergio Marchionne ed Emma Marcegaglia hanno annunciato da New York che anche nello stabilimento Fiat di Mirafiori, come in quello di Pomigliano d’Arco, il lavoro sarà regolato soltanto da un contratto aziendale e non dal contratto nazionale del settore metalmeccanico; e che per ottenere questo effetto la newco di Mirafiori, come quella di Pomigliano, non sarà affiliata a Confindustria.
   Arroganza di Marchionne? Forse no, se è vero che In tutti gli altri numerosi Paesi in cui la Fiat opera, dagli U.S.A. al Brasile, dalla Polonia alla Serbia, le condizioni di lavoro possono essere assoggettate al solo contratto aziendale: possono, cioè, essere negoziate interamente nel luogo stesso di lavoro e quindi adattate punto per punto alle esigenze specifiche del singolo piano industriale. Anche in Germania, Paese nel quale il sistema delle relazioni industriali è sempre stato imperniato sulla contrattazione collettiva nazionale di settore, oggi è consentito e largamente praticato che la singola impresa contratti le condizioni di lavoro al proprio livello; e in tal caso è soltanto il contratto aziendale ad applciarsi, non quello nazionale. Di fatto, in Germania il contratto collettivo nazionale funge da rete di sicurezza e da benchmark: la contrattazione nei luoghi di lavoro è costretta a confrontarsi con lo standard nazionale, pena il rischio di perdita di consensi tra i lavoratori, ma è giuridicamente libera di discostarsene, per sperimentare forme diverse di organizzazione e inquadramento professionale del lavoro, di distribuzione dei tempi di lavoro, di struttura delle retribuzioni, ivi compresa la ripartizione tra zoccolo fisso e parte variabile in funzione della produttività e/o della redditività aziendale.

   2. – Ora, l’attuale modello tedesco di struttura della contrattazione collettiva può piacerci o non piacerci; sta di fatto, però, che se riusciamo nel capolavoro di rompere definitivamente la trattativa con Marchionne, oggi non abbiamo alcuna altra multinazionale dell’automobile interessata a investire in Italia, alle condizioni che poniamo noi. Le altre, in giro per il mondo, insediano i loro stabilimenti negoziando le condizioni di lavoro esclusivamente al livello aziendale. Sembra avere ben presente questo dato il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, quando (su Repubblica del 4 dicembre) apre a questa prospettiva: “non mi scandalizzerebbe né un contratto solo per il settore auto né un contratto per ciascuno degli stabilimenti, a seconda delle loro caratteristiche. Non si tratta di tabù. D’altronde Mirafiori non è Pomigliano, la situazione è differente su diversi fronti…”.
    Cinque anni fa, quando ancora le vertenze odierne di Pomigliano e di Mirafiori erano di là da venire, ho scritto un libro per mostrare come nell’ottobre 2000, quando la Fiat annunciò la chiusura dello stabilimento Alfa Romeo di Arese, proprio questo nostro sistema di relazioni industriali imperniato sul principio della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale abbia contribuito in modo decisivo a impedire che quello stesso stabilimento si candidasse per l’insediamento in Italia della produzione della Micra coupé da parte della Nissan (A che cosa serve il sindacato [2], Mondadori, 2005). Questo non perché la Nissan intendesse pagare retribuzioni inferiori ai minimi previsti dal contratto nazionale dei metalmeccanici: al contrario, il suo piano industriale prevedeva livelli di produttività che avrebbero consentito retribuzioni molto più alte. Il problema era che quel piano prevedeva un’organizzazione del lavoro – la c.d. lean production – incompatibile con il sistema di inquadramento professionale previsto dal nostro contratto nazionale; e un sistema di determinazione delle retribuzioni, basato sulla performance review individuale (pur con l’assistenza del sindacalista di fiducia del lavoratore) anch’esso incompatibile con la struttura della retribuzione stabilita dal nostro contratto nazionale (per maggiori dettagli in proposito rinvio alle slides Hire your best employer! [3], 2008). Così stando le cose, o Cgil Cisl e Uil erano tutte e tre d’accordo per la deroga (e non lo erano), oppure la deroga non si poteva pattuire. E infatti la trattativa non venne neppure aperta.

   3. – Il punto è che in Italia oggi quasi tutti considerano la “deroga” al contratto collettivo nazionale come sinonimo di “peggioramento delle condizioni di lavoro”, “rincorsa al ribasso”, “concorrenza tra poveri”, “dumping sociale”. Ma le cose non stanno così: la deroga al contratto collettivo nazionale può anche consistere in una modifica della disciplina dei tempi di lavoro che consente all’impresa di sfruttare meglio gli impianti e ai lavoratori di guadagnare di più; o nell’introduzione di una franchigia in materia di trattamento di malattia che consente di sradicare un abuso diffuso del relativo diritto, dannoso per i lavoratori stessi prima e più che per l’impresa; oppure ancora in una diversa struttura della retribuzione funzionale a un aumento di produttività di cui saranno i lavoratori per primi a beneficiare; e gli esempi di scostamenti dalla disciplina nazionale potenzialmente vantaggiosi anche per i lavoratori potrebbero moltiplicarsi all’infinito (cfr. la mia relazione sul tema Struttura della contrattazione collettiva e pluralismo sindacale [4]). Questa possibilità di migliorare le condizioni di lavoro proprio attraverso la deroga al contratto collettivo nazionale è tanto più estesa quanto più il contratto nazionale è vecchio e quanto maggiore è il volume normativo in esso contenuto; il nostro contratto metalmeccanico è per nove decimi ancora quello scritto nel 1972 – quando nelle aziende non soltanto non c’erano i pc e internet, ma neppure le fotocopiatrici e i fax – ed è estremamente pervasivo: consta di centinaia di disposizioni, che coprono ogni possibile aspetto del rapporto di lavoro.
   “Forse – scrive Luciano Gallino, ancora su Repubblica del 4 dicembre – il problema per la Fiat  […] è il contratto stesso. Troppo ingombrante, troppo complicato, troppo lungo, con le sue 136 pagine di testo. La competitività esige che non solo la produzione sia snella, ma lo siano pure i contratti”. Ma non è tanto un problema di snellezza: è un problema di flessibilità, di adattabilità. Cambiare il contratto nazionale è operazione lunga, complessa, suscettibile di essere compiuta soltanto a determinate scadenze e con il consenso di numerosi altri attori; solo il contratto aziendale consente un adattamento rapido e autogestito dalle due sole parti interessate, nel luogo di lavoro.

   4. – Cesare Damiano è intervenuto nei giorni scorsi sul Corriere della Sera [5] per sostenere che l’iderogabilità del contratto collettivo nazionale sarebbe indispensabile per la tutela dei “diritti e tutele fondamentali di tutti i lavoratori”. Gli ho risposto che identificare le clausole di un contratto collettivo nazionale con i diritti fondamentali è scorretto: questi sono contenuti nella Costituzione e nelle grandi convenzioni internazionali, che sono le sole fonti di regole assolutamente inderogabili. I contratti collettivi nazionali sono diversi da settore a settore: basta questo per escludere che le loro disposizioni possano assurgere al rango di tutele fondamentali.
    A mio avviso Cesare Damiano, adottando questo argomento, cade sostanzialmente nello stesso errore che ha commesso la Fiom, quando ha denunciato l’accordo di Pomigliano come un attentato alla legge e alla Costituzione, cioè come uno scambio tra lavoro e diritti fondamentali. L’accordo di Pomigliano deroga al c.c.n.l. dei metalmeccanici, ma non viola alcuna norma di legge e tanto meno di Costituzione o di convenzione internazionale. Si può ovviamente dissentire sulla mia proposta di una piena derogabilità del contratto nazionale da parte di un contratto aziendale stipulato da una coalizione sindacale che ne abbia i requisiti di rappresentatività e radicamento territoriale; purché sia chiaro che solo di questo si tratta: di modifica di disposizioni contrattuali; e non di rinuncia a diritti fondamentali.

   5. – Certo, è ben possibile che la deroga al contratto nazionale stipulata per un’azienda o stabilimento sia destinata a rivelarsi dannosa per i lavoratori. Ma non si può, per paura dell’innovazione cattiva, sbarrare le porte anche a quella buona. A meno che il vero scopo sia quello di proteggere le imprese nazionali in un tessuto produttivo un po’ sonnacchioso, dalle più dinamiche imprese straniere (questo potrebbe spiegare la tiepida e perplessa accoglienza delle proposte di Marchionne da parte dell’apparato di Confindustria). Forse proprio questo è l’errore più grave in cui è caduto fin qui il movimento sindacale italiano: col difendere la regola generale della rigida inderogabilità dello standard fissato al livello centrale ha protetto l’imprenditoria indigena contro l’imprenditoria più innovativa che poteva irrompere dall’esterno a turbare il nostro tran tran nazionale. Per altro verso, non è mai prevedibile dove e come sia destinata a presentarsi l’innovazione buona. Se non vogliamo chiudere ad essa il nostro tessuto produttivo, abbiamo bisogno di un sindacato “intelligenza collettiva dei lavoratori” che sia capace di valutare il piano industriale innovativo e l’affidabilità di chi lo propone; e che, se la valutazione è positiva, sappia guidare i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore su quel piano, negoziandone il programma di attuazione a 360 gradi.

   6. – Dovremmo per questo mandare il contratto collettivo nazionale in soffitta? Niente affatto: esso ben può – come in Germania – conservare la funzione di benchmark e di disciplina applicabile per default, laddove manchi una disciplina collettiva negoziata da una coalizione maggioritaria a un livello più prossimo al luogo di lavoro: questo è l’assetto del sistema della contrattazione collettiva previsto nel disegno di legge n. 1872/2009 [6] (parte del “Progetto Semplificazione” [7]). E chissà che in questo modo, oltre agli investimenti di Marchionne, non riusciamo ad attirare anche quelli di molte altre multinazionali, che finora la vischiosità del nostro sistema di relazioni industriali ha contriubito a tenere alla larga dall’Italia.

   7. – Quale che sia la scelta dei lavoratori italiani, sarebbe comunque il caso che la sinistra politica e quella sindacale smettessero di gridare all'”arroganza” e al “ricatto padronale” quando Marchionne pone condizioni per dislocare i suoi investimenti in Italia invece che altrove. Per un verso, se abbiamo come interlocutore (di questo calibro) solo lui e non anche altri come Nissan, Ford, Volkswagen o Volvo, dobbiamo prendercela soltanto con le nostre chiusure e non certo con lui né con gli altri che si tengono alla larga dall’Italia, Ma, soprattutto, dobbiamo finalmente abbandonare l’idea che la sottoscrizione del contratto collettivo, da parte di un’impresa o di una associazione di imprese, sia un obbligo. Un contratto è veramente tale solo se la sua stipulazione è veramente libera. Corollario fondamentale del principio contrattualistico è la possibilità che, nel caso di insuccesso della negoziazione, alla stipulazione del contratto non si arrivi affatto.
   Prima di protestare contro le condizioni poste da Marchionne per firmare un contratto con noi, faremmo bene a chiederci perché nessun’altra multinazionale dell’automobile sia neppure disposta ad aprire una trattativa per venire a produrre da noi.