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MARIUCCI: PERCHE’ IL PROGETTO ICHINO PER LA RIFORMA DEL DIRITTO SINDACALE E’ SBAGLIATO

IL GIUSLAVORISTA BOLOGNESE CRITICA DURAMENTE LA PROPOSTA, SOSTENENDO ANCHE L’INCOSTITUZIONALITA’ DELLA NORMA VIGENTE IN MATERIA DI RAPPRESENTANZE AZIENDALI E RIPROPONENDO LE SUE TESI GIURIDICHE E DI POLITICA SINDACALE – GLI RISPONDO PUNTO PER PUNTO

Articolo di Luigi Mariucci pubblicato on line sul sito della Cgil il 31 gennaio 2011 – Le mie chiose e repliche punto per punto sono inserite in carattere corsivo, in paragrafi rientrati evidenziati dal colore azzurro – A queste mie chiose e repliche lo stesso Mariucci ha risposto punto per punto [1]: per facilitare la comprensione di questo scambio ho dato la stessa numerazione ai paragrafi contenenti i miei interventi e, nel nuovo post, a quelli contenenti le sue risposte

Sono molti gli aspetti problematici dell’accordo Fiat di Mirafiori, anche sul piano della stretta legittimità. Non intendo qui svolgere una analisi sistematica del testo. In via generale mi limito a dire che condivido largamente le opinioni critiche formulate da molti interventi (cfr. in particolare Vincenzo Bavaro, “Dall’”archetipo” al “prototipo” nella vicenda FIAT”, in Diario del lavoro, 2011; qualche iniziale osservazione ho svolto nel mio intervento pubblicato nel Il fatto quotidiano del 27 dicembre 2010  e in forma più estesa nel sito di Pietro Ichino sotto il titolo Perché il modello proposto dalla FIAT va respinto [2]). Ma su un punto specifico, e in verità il più rilevante sul piano sistemico, ritengo necessario svolgere alcune considerazioni anche per contrastare una vulgata che sta prendendo piede, tra i colti e gli incliti, sul disinvolto ricorso a ipotetici interventi di legge diretti, a loro dire, a sanare l’aspetto più macroscopico della vicenda: l’abolizione della rappresentanza elettiva dei lavoratori alla FIAT e la conseguente esclusione della FIOM CGIL dai diritti sindacali in azienda.
Il punto è in effetti cruciale, sotto molti aspetti. Per un verso ha un carattere sismico rispetto all’intero sistema delle relazioni industriali. Certamente appare poco realistica l’idea di generalizzare il modello Fiat all’universo delle aziende meccaniche, dato che la FIOM CGIL in molte realtà (come l’Emilia-Romagna) non solo è il sindacato largamente maggioritario anche in termini di soli iscritti ma costituisce un protagonista indiscusso delle relazioni contrattuali. In larga parte del tessuto industriale italiano insomma appare impraticabile l’idea di espellere la FIOM dalle aziende. In questo senso la vicenda FIAT costituisce sicuramente una anomalia: dato che si tratta di una impresa multinazionale, che a dispetto del suo logo sembra avere uno scarso tasso di italianità, monopolistica sul piano produttivo ma minoritaria  nelle vendite sul mercato interno.
Sul piano giuridico l’allegato 1 sui “diritti sindacali” dell’accordo Mirafiori (poi esteso a Pomigliano, e in seguito, a quanto si prospetta, a Melfi e Cassino, vale a dire a ciò che resta della FIAT in Italia)  costituisce un vero e proprio capovolgimento di quella che una volta si chiamava l’intentio legis. Il dispositivo dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come risultante dal ritaglio effettuato da un (infausto) referendum abrogativo del 1995 (per la serie “l’avevo detto” rinvio al mio Poteri dell’imprenditore, RSU e contratti collettivi pubblicato nel Giornale di diritto del lavoro, n. 66, 1995), per il quale il diritto dei lavoratori di costituire rappresentante sindacali aziendali si esercita nell’ambito dei sindacati firmatari di contratti collettivi applicati nei luoghi di lavoro, viene rovesciato nel suo contrario. Quella norma nella sua genesi aveva questo significato: un sindacato  non ammesso alle trattative e quindi alla stipulazione del contratto collettivo non è evidentemente rappresentativo, e quindi non merita di accedere alla fruizione dei diritti sindacali. La normativa FIAT rovescia l’assunto: il sindacato indubbiamente rappresentativo che non stipula il contratto perché dissente dal suo contenuto viene escluso dai diritti sindacali. Si tratta di una evidente distorsione dei principi elementari del diritto alla libertà sindacale sancito dal primo comma dell’articolo 39 Cost. e di un rovesciamento della logica dello Statuto dei lavoratori, che rafforza la libertà sindacale con il divieto delle discriminazioni (articolo 14), attribuisce ai lavoratori il diritto di costituire rappresentanze sindacali aziendali, e, non ultimo, vieta la costituzione di sindacati di comodo (art.17).

1. –  Qui Luigi Mariucci sembra dimenticare che la Corte costituzionale ha dichiarato la formulazione attuale dell’articolo 19 St. lav. compatibile con il primo comma dell’articolo 39 della Costituzione non soltanto in sede di ammissione del referendum del 1995, ma anche dopo, per ben tre volte.

Al dunque, e in concreto, se da qui a qualche mese, a Pomigliano o Mirafiori dovesse accadere che la FIOM CGIL chiede di indire una assemblea retribuita ai sensi dell’art. 20  dello Statuto dei lavoratori e la FIAT rispondesse “no, perché non avete siglato il contratto aziendale”, qualsiasi “pretore di campagna” (come ha detto Umberto Romagnoli)  non potrebbe che dichiarare antisindacale quel comportamento e, al massimo, deferire alla Corte Costituzionale il giudizio di costituzionalità, la quale Corte Costituzionale, in base alla sua costante giurisprudenza, non potrebbe che dichiarare, con una sentenza interpretativa di accoglimento, che il criterio di cui all’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori va interpretato nel senso che il  requisito della stipula dei contratti collettivi applicati  nei luoghi di lavoro va inteso come un indice di rappresentatività, e non come un indicatore assoluto, di modo che la legislazione di sostegno dello Statuto non  può non applicarsi ai sindacati rappresentativi che non stipulano il contratto collettivo perché dissentono dal contenuto, e possono farlo proprio in forza della loro indubbia, sia pure non maggioritaria, rappresentatività.

2. – La costante giurisprudenza della Consulta, come ho osservato nella chiosa precedente, è orientata in tutt’altro senso. 

Lo scopo di questo intervento non sta tuttavia, come già detto, nell’analisi dei molteplici contenuti problematici dell’accordo FIAT Mirafiori, ma nel prendere in esame uno specifico punto: l’esclusione della FIOM CGIL dalla agibilità alla FIAT, ovvero dai diritti sindacali di cui alla parte III dello  Statuto dei lavoratori (assemblea, permessi retribuiti e non retribuiti, uso dei locali ecc.); esclusione che consegue a una decisione ancora più grave contenuta in quell’accordo: la pura e semplice abolizione della rappresentanza elettiva dei lavoratori. Cosicché la FIAT in Italia sarebbe l’unica impresa in Europa e, si può aggiungere, nel mondo democratico dell’occidente in cui i lavoratori non hanno più diritto ad eleggere proprie rappresentanze. La rappresentanza elettiva dei lavoratori verrebbe invece sostituita da ben quattro (se non cinque considerando l’associazioni quadri Fiat) rappresentanze nominate burocraticamente dai sindacati firmatari e tutte fruitrici paritariamente dei diritti sindacali assicurati dallo Statuto: FIM CISL, UIM UIL, Fismic (erede del sindacato aziendale “giallo”, Sida), UGL (derivata dal vecchio sindacato corporativo-fascista della Cisnal).

3. – Per questo aspetto, la formulazione attuale dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori ha contenuto identico rispetto alla formulazione originaria del 1970: esso lascia libere le associazioni sindacali titolari di rappresentanza aziendale circa la modalità di scelta dei membri della rappresentanza stessa: ogni associazione è pertanto libera di adottare il metodo della elezione, coinvolgendo soltanto i propri iscritti o anche gli altri lavoratori, o altra procedura. Non è vero che questo accada soltanto alla Fiat: è accaduto comunemente in numerose aziende prima del Protocollo del 23 luglio 1993, è sempre accaduto nell’ultimo quarantennio nel settore bancario e – nei Paesi stranieri – accade in tutte le aziende nelle quali la rappresentanza sindacale in azienda conserva il proprio rapporto organico con l’associazione di appartenenza.

Sanare questa evidente distorsione del sistema della rappresentanza sindacale sarebbe facile. Se avessimo un Governo e una maggioranza  capaci di guardare all’interesse generale e non alla loro  claudicante sopravvivenza, e non un  Governo accecato dall’inseguire le convenienze di breve periodo, dominato dall’idea di lucrare sulle divisioni sindacali e quindi impegnato nell’incentivarle, si dovrebbe fare una cosa semplice. Emanare un provvedimento urgente, un decreto legge che aggiungesse al requisito di cui al vigente articolo 19 dello Statuto la seguente breve formula: “nonchè nell’ambito dei sindacati rappresentativi, che superano la soglia dell’x per cento calcolata come media tra percentuale degli iscritti e voti ottenuti  nella elezione delle rappresentanze aziendali”.

4. – Questa soluzione sarebbe praticabile soltanto se la stessa norma chiarisse che cosa si intende per “elezione delle rappresentanze aziendali” e individuasse una soluzione per conciliare l’elezione “dal basso” con la sussistenza del rapporto organico tra r.s.a. e associazione esterna all’azienda. Se non si scioglie questo nodo, il problema non è risolvibile. Il Protocollo 23 luglio 1993 ha realizzato quella conciliazione attraverso la ripartizione dei membri delle rappresentanze unitarie: per due terzi eletti dal basso, per un terzo nominati dalle associazioni firmatarie del Protocollo stesso; ma Luigi Mariucci sa bene che questa soluzione non può essere meccanicamente trasferita sul piano legislativo, perché la legge non può fare riferimento alle associazioni firmatarie di un accordo.

Il Partito Democratico dovrebbe proporre questo semplice intervento legislativo e non impancarsi nella vana ricerca di chissà quale riforma globale della rappresentanza sindacale o evocare improbabili interventi di legge sulla partecipazione, dalla  rappresentanza dei lavoratori nei consigli di sorveglianza fino a formule stravaganti di partecipazione agli utili e di azionariato tra i dipendenti. Tutte cose su cui siamo in ritardo da sessanta anni, e che certo non possono essere  recuperare nel breve periodo, specie considerando le condizioni date.

5. – Non mi è chiaro come si possa recuperare un ritardo, per lungo che esso sia, se non presentando un progetto di legge. Né mi è chiaro a quali “condizioni date” L.M. qui si riferisca: intende forse dire che quando si è in minoranza in Parlamento non si possono presentare progetti di legge?

Accade invece che prenda un certo consenso, sul piano mediatico e della propaganda, un ipotetico intervento di legge che con l’aria di volere sanare la ferita FIAT in realtà ne codifica il modello. Mi riferisco al disegno di legge n. 1872 proposto dal sen. Pietro Ichino (vedilo in www.pietroichino.it [3]).

6. – Questo disegno di legge non è stato presentato affatto “con l’aria di volere sanare la ferita FIAT”, poiché e stato presentato l’11 novembre 2009, cioè un  anno prima dell’accordo di Mirafiori.

Quel disegno di legge, in breve, propone di attribuire ai sindacati e/o alle coalizioni sindacali maggioritarie il potere di negoziare contratti collettivi aziendali, derogatori e/o sostitutivi dei contratti nazionali di lavoro, con efficacia giuridica generalizzata, anche verso i lavoratori iscritti a sindacati dissenzienti.
Sul piano sostanziale il disegno di legge in parola propone una aziendalizzazione delle relazioni contrattuali, del tutto fuori tempo e in antitesi alla consolidata tradizione italiana (e europea) fondata sulla prevalenza di sindacati e modelli contrattuali di tipo generale (confederali o nazionali di categoria). Ciò accade proprio mentre la crisi della industria automobilistica negli Usa, e in particolare della Crysler, dimostra il drammatico collasso del modello aziendalistico: in quella realtà al fallimento dell’impresa sarebbe conseguita non solo la perdita dei posti di lavoro, ma anche dei trattamenti pensionistici e sanitari per tutti i dipendenti e gli ex dipendenti dell’azienda. Perciò Bob King e l’UAW non avevano scelta: dovevano convertire in azioni i loro crediti salvo perdere tutto, e accettare l’accordo negoziato tra Obama e Marchionne.

7. – Luigi Mariucci sembra dimenticare che in Germania, cioè nella patria del centralismo contrattuale, da oltre quindici anni è ammessa la contrattazione aziendale sostitutiva del contratto nazionale. E che questo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro è in atto anche nell’altro Paese che ha sperimentato il centralismo contrattuale per decenni: la Svezia.

In questa sede tuttavia interessa essenzialmente il profilo giuridico della analisi. Il disegno di legge qui criticato va considerato non solo sbagliato in termini sostanziali, ma per più versi improponibile in quanto illegittimo sullo stesso piano costituzionale, come del resto riconoscono gli stessi proponenti dato che in parallelo si propone una revisione dell’art.39 cost (cfr. il d.d.l a firma Ceccanti e altri, pubblicato in www.pietroichino.it [3]): nientemeno che una riforma costituzionale  della norma cruciale in tema di libertà sindacale e contrattazione collettiva. Di questi tempi: si può immaginare qualcosa di più delirante?

8. – Di nuovo: L.M. ritiene che quando si è all’opposizione non si devono presentare progetti di legge costituzionale?

La prima osservazione riguarda il fatto che il disegno di legge in parola propone un modello sindacale di tipo seccamente maggioritario, secondo la logica del “chi vince piglia tutto”, del tutto in antitesi rispetto al modello costituzionale, fondato invece sul principio della “proporzionalità” rispetto agli iscritti della “rappresentanza unitaria”.

9. – Non è così: il progetto mira a un equilibrio tra diritto della coalizione sindacale maggioritaria (a contrattare con efficacia generale) e diritto del sindacato minoritario (ad avere comunque voce in azienda, cioè rappresentanza riconosciuta e relative prerogative, anche se rifiuta di firmare il contratto).

Sulle infinite controindicazioni della applicazione brutale del principio di maggioranza alla rappresentanza degli interessi esiste una infinita letteratura, a partire dagli scritti di Norberto Bobbio  fino ai classici di Max Weber. Quando si tratta di decidere sulla rappresentanza di interessi diversi, come sono quelli che si realizzano nella attività produttiva, il principio di maggioranza va usato con estrema cautela, per extrema ratio, e non come principio ordinario. Basti fare l’esempio dei recenti referendum della Fiat di Pomigliano e di Mirafiori: è sensato, ancora prima che legittimo, un referendum che pone l’alternativa tra il dire sì e perdere il posto di lavoro?  Si prenda un esempio più generale. In una azienda si deve decidere il ricorso alla cassa integrazione e alla mobilità per una parte dei dipendenti : anche se i nominativi non vengono dichiarati, i lavoratori sanno perfettamente chi sarà destinato al licenziamento collettivo e chi no. Si fa un referendum e la maggioranza decide per il sì. Non è questo un classico modo attraverso cui il voto da strumento di democrazia si traduce nel suo contrario, nel prepotere delle maggioranze ai danni delle minoranze? Perciò da sempre i buoni maestri ci hanno insegnato che nelle relazioni contrattuali il principio di maggioranza è l’ultima istanza: prima vengono la negoziazione, la mediazione, la ricerca di un compromesso tra diversi interessi.

10. – Ma non al punto da generare un diritto di veto in capo alla minoranza: quel diritto di veto che genera la vischiosità e inconcludenza del sistema italiano attuale delle relazioni industriali.

In secondo luogo il disegno di legge qui criticato propone di trasferire la clausola di tregua (ovvero antisciopero) dalla sfera delle obbligazioni collettive, in capo ai sindacati, a quella dei rapporti individuali di lavoro, in evidente contrasto con gli artt. 39 e 40 della costituzione, come interpretati univocamente dalla migliore dottrina (per tutti: Mancini, Giugni, Ghezzi, Romagnoli) e dalla univoca giurisprudenza.

11. – Nella dottrina giuslavoristica italiana attuale prevale la tesi opposta a quella sostenuta da Luigi Mariucci. In  ogni caso, l’articolo 40 della Costituzione riserva proprio alla legge ordinaria la funzione di regolare questa materia: non si vede, pertanto, come potrebbe una legge ordinaria – che allineasse il nostro ordinamento a quello della grande maggioranza dei Paesi occidentali – violare quella norma costituzionale.

 Qui davvero si fa come Esaù: si vende la primogenitura per un piatto di lenticchie. Si rinuncia a un valore strategico (la libertà sindacale, il diritto di sciopero inteso come habeas corpus del singolo lavoratore, pure connesso ad un esercizio collettivo) per assecondare le esigenze contingenti di una singola impresa.
Infine il citato disegno di legge si pone in contrasto con i principi di fondo della libertà, della autonomia e del pluralismo sindacale nel momento in cui intreccia sul piano regolativo profili del tutto diversi: l’accertamento degli indici di rappresentatività dei sindacati, l’efficacia dei contratti collettivi e la regolazione del sistema contrattuale. Quest’ultimo è il punto più critico: quando si pretende di attribuire al sindacato e/o alla coalizione sindacale maggioritaria il potere contrattuale derogatorio e/o sostitutivo a livello aziendale rispetto ai contratti nazionali di lavoro si legifica il sistema contrattuale, in totale contraddizione con le culture gius-sindacali italiane e gli stessi storici orientamenti dei due principali sindacati, la CGIL e la CISL, che, pur divisi tra loro nel contingente, condividono tuttavia una concezione di fondo, quella per cui le scelte relative alle relazioni contrattuali devono essere riservate alla autonomia collettiva e al rapporto tra le parti sociali. Le diverse questioni vanno dunque distinte, e non ammucchiate in maniera confusa e strumentale.

12. – Dove il sistema delle relazioni industriali non sia in grado di produrre la cornice normativa necessaria – e proprio questa è la situazione in Italia oggi – l’intervento legislativo è indispensabile per consentire l’esercizio stesso dell’autonomia collettiva.

Tre sono i principali problemi che abbiamo di fronte. Il primo consiste nel definire i criteri di accertamento della rappresentatività dei sindacati, al fine intanto di accedere alla legislazione di sostegno di cui allo Statuto dei lavoratori. Il secondo riguarda il procedimento di stipulazione dei contratti collettivi anche al fine di attribuire efficacia giuridica generalizzata e cogente verso tutti gli interessati. Il terzo riguarda il sistema contrattuale, ovvero la regolazione del rapporto tra contratti collettivi di diverso livello.
La questione più urgente e anche più semplice da risolvere è la prima. Qui, come già detto, il problema si può risolvere aggiungendo una riga all’art.19 dello Statuto dei lavoratori, nei termini sopra detti.

13. – Ma abbiamo visto che la “riga” redatta “nei termini sopra detti” da L.M. non scioglie il nodo cruciale: non basta quindi a risolvere il problema.

Il secondo problema, relativo al nesso tra indici di rappresentatività, procedimenti negoziali ed efficacia giuridica dei contratti collettivi di diverso livello, è straordinariamente complesso: non a caso in Italia se ne discute da 60 anni, senza essere riusciti ancora a risolverlo. E’ del tutto irrealistico che di tale tema possa occuparsi di questi tempi il Parlamento, in tutt’altre faccende affaccendato.

14. – Temo di non comprendere bene: L.M. vuol forse dire che, nel momento in cui la maggioranza vorrebbe impegnare il Parlamento nelle leggi ad personam mirate a risolvere i problemi personali del premier, l’opposizione non dovrebbe attivarsi perché il Parlamento si occupi invece di risolvere i veri problemi del Paese, incominciando da quelli più importanti e più antichi allo stesso tempo? Che cosa dovrebbe fare, invece, l’opposizione secondo lui? Quale idea della politica ha il mio contraddittore?

 E’ da auspicare che talune regole di fondo si possano intanto stabilire a livello intersindacale per poi essere sancite in un accordo interconfederale. Tali regole, nell’essenziale, possono essere così riassunte: si dovrebbe ripartire dall’accordo tra Cgil-Cisl-Uil del 2008 e riconfermare quanto stabilito nel protocollo del luglio 1993, che attribuisce il diritto di partecipare alla elezione delle rappresentanze sindacali unitarie ai sindacati firmatari dell’accordo e alle organizzazioni che raccolgono nelle aziende almeno il 5% delle firme dei lavoratori.
Il terzo problema, infine, relativo alla definizione dei rapporti tra diversi livelli contrattuali, ivi inclusa la questione dei poteri negoziali derogatori a livello aziendale, di tipo parziale e/o sostitutivo, rispetto ai contratti nazionali di lavoro, è di esclusiva competenza delle parti sociali: in tema deve essere lasciato campo libero alla dinamica del concreto svolgersi delle relazioni negoziali tra le parti, essendo in materia sicuramente impropria, invasiva e con larga probabilità persino illegittima una regolazione di legge.

15. – A me sembra vero il contrario: questa materia non potrà mai essere disciplinata compiutamente ed esclusivamente da un accordo interconfederale, poiché potrà sempre comparire sulla scena delle relazioni industriali un soggetto nuovo – imprenditore non iscritto alle associazioni stipulanti, oppure formazione sindacale non firmataria – che pretenda di non essere soggetto all’applicazione di quell’accordo. Lo insegna proprio la vicenda Fiat da cui questo dibattito ha preso le mosse.   (p.i.)