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PROSEGUE IL DIALOGO CON MARIUCCI SULLA RIFORMA DELLE RAPPRESENTANZE SINDACALI

IL GIUSLAVORISTA BOLOGNESE REPLICA PUNTO PER PUNTO ALLE MIE RISPOSTE AL SUO ULTIMO SCRITTO IN ARGOMENTO: “IL TUO PROGETTO FA IL GIOCO DI MARCHIONNE”, MI OBIETTA – GLI RISPONDO CHE IL PROGETTO VIENE MOLTO PRIMA DI MARCHIONNE ED E’ UTILE A TUTTO IL SISTEMA ITALIANO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI

Intervento di Luigi Mariucci, professore di diritto del lavoro nell’Università di Venezia e responsabile per il Lavoro del Pd dell’Emilia Romagna – 10 febbraio 2011 – in risposta punto per punto alle mie risposte a un suo precedente intervento sul sito della Cgil [1] (le quali, per la migliore comprensibilità della discussione in corso, sono state numerate con la stessa numerazione di queste repliche) – Le mie controrepliche sono inserite nel testo con la consueta evidenziazione in azzurro e paragrafo rientrato

1.-2. – Non mi sono dimenticato naturalmente del fatto che la Corte costituzionale ha ammesso la legittimità dell’attuale versione dell’art.19 dello Statuto, come essa risulta, a ritaglio, dal referendum abrogativo del 1995. Ritengo tuttavia del tutto improprio, ed anzi strumentale, ricavare da quelle sentenze una presunta legittimazione della esclusione dai diritti sindacali dei sindacati a causa non della loro insufficiente rappresentatività, ma del loro dissenso su uno specifico contratto collettivo. E’ innegabile che questa paradossale eterogenesi dei fini produca un risultato abnorme: la sottoscrizione dei contratti collettivi non sarebbe più un indice di rappresentatività, cui consegue il legittimo utilizzo dei diritti sindacali, ma un requisito assoluto. Con il risultato di immettere nell’ordinamento una sorta di coercizione a contrarre, pena la perdita della agibilità sindacale nei luoghi di lavoro. Mi stupisco di come si possa non cogliere l’irrazionalità di tale esito, ancora prima che la sua evidente illegittimità, in ragione del contrasto con i principi elementari della libertà sindacale

 Se questo esito fosse irragionevole o abnorme, la Corte costituzionale non lo avrebbe consentito; e invece essa lo ha consentito sia in sede di ammissione del quesito referendario, sia – più volte – in sede di controllo della legittimità costituzionale della norma come modificata dal referendum del giugno 1995. Che esso non sia affatto irragionevole, peraltro, è dimostrato dal fatto che regimi simili o comunque con effetti pratici simili, in materia di individuazione del soggetto sindacale riconosciuto in azienda, sono applicati da molti decenni in gran parte dei Paesi di common law. La verità è che questo regime si concilia meglio con la cultura sindacale e industriale tradizionale anglosassone che con la nostra, fortemente legata al principio del pluralismo sindacale anche nei rapporti endoaziendali (e questo è il motivo per cui una riforma della materia che ripristini la garanzia del pluralismo sindacale anche dentro i luoghi di lavoro mi sembra opportuna). Ma l’incostituzionalità è tutt’altra cosa.

3. – So bene che l’art. 19 dello Statuto lascia per così dire “in bianco” le modalità di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali. Quella norma entrò in vigore a cavallo tra crisi delle Commissioni interne e consigli di fabbrica, e fu quindi volutamente scritta in maniera tale da lasciare alla autonomia sindacale la scelta sulle forme della rappresentanza: basti rileggere, sul punto, il magistrale commento di Federico Mancini. E so bene che in molti casi non esistono rappresentanze elettive nel settore privato, a partire dalle piccole imprese. Ciò non toglie che l’assenza di rappresentanze elettive non debba essere considerata una anomalia. O forse si ritiene che il ritorno a rappresentanze burocratiche nominate dalle singole organizzazioni debba considerarsi un progresso? Che sia un segno di “modernità” che alla Fiat vi siano rappresentanze della Fismic e della Ugl, paritetiche con Cisl e Uil, con esclusione della Fiom? Quanto al profilo comparato a me risulta che in tutti i paesi civili, a partire da quelli europei, sia prevista, in forme diverse, comunque una rappresentanza elettiva dei lavoratori. La Fiat, in questo senso, appare più che una anomalia un caso riferibile a ciò che una volta si chiamava “terzo mondo” e che oggi con formula più elegante si definiscono “paesi emergenti”, a partire dalla Cina.

 “Anomalo” significa “contrario alla legge, alla norma”. Se riferiamo questa espressione alla legge vigente, lo stesso Mariucci riconosce che l’accordo di Mirafiori non può considerarsi “anomalo”: egli infatti dà atto che l’articolo 19 St. lav. “lascia per così dire ‘in bianco’ le modalità di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali”. La sua affermazione secondo cui quell’accordo configura una “anomalia”  può dunque essere riferita soltanto a un “dover essere” di altra natura: per esempio a una valutazione di opportunità politico-sindacale, oppure a una prescrizione desumibile dalla letteratura in materia di relazioni industriali (attendiamo una precisazione in proposito). Sta di fatto, comunque, che nessuno di noi può conoscere il modo in cui Cisl, Uil, Ugl e Fismic eserciteranno la discrezionalità lasciata loro dagli accordi di Mirafiori e Pomigliano: se decideranno di far eleggere i loro rappresentanti e a chi riconoscere l’elettorato attivo. Quanto alla qualificazione dei contratti di Mirafiori e di Pomigliano, per questo aspetto, come contratti “da Terzo Mondo”, chiedo a L.M.: allora dovremmo considerare “Terzo Mondo” anche tutte le numerosissime aziende britanniche nelle quali gli shop stewards sono eletti soltanto dagli iscritti al sindacato?  

4. – La mia proposta consiste in questo. Aggiungere all’art. 19 dello Statuto una lettera b) in cui si dice “dei sindacati che rappresentano almeno il 5% degli iscritti, ovvero una media del 5% tra iscritti e voti ottenuti nella elezione di rappresentanze sindacali unitarie”. Lascerei in altri termini del tutto indeterminati i modi di formazione della rappresentanza. Penso infatti che nelle condizioni date una tale proposta di legge avrebbe un forte significato politico e anche mobilitativo, dato che essa potrebbe essere approvata agevolmente dal Parlamento, se lo si volesse. La questione dei 2/3 nella composizione delle rsu previsti dal protocollo del 1993 riguarda invece le modalità di costituzione delle rsu su cui la legge non dovrebbe interferire.

La legge in cui comparisse l’espressione “voti ottenuti nella elezione di rappresentanze sindacali unitarie”  darebbe vita a un istituto che oggi sul piano legislativo non esiste: la “rappresentana sindacale unitaria”, appunto, composta da membri obbligatoriamente elettivi. Questo è proprio ciò che la Cisl non accetta e non ha mai accettato: cioè l’istituzione per legge di un siffatto organismo, che assumerebbe una soggettività anche negoziale autonoma e distinta rispetto alle associazioni sindacali. La Cisl è disponibile a dar vita alle rappresentanze aziendali unitarie soltanto mediante la contrattazione collettiva, o mediante accordi tra confederazioni circa le modalità di utilizzazione dei diritti sindacali in azienda (come già previsto esplicitamente dall’articolo 29 St.lav.). Se non si arriva a un accordo interconfederale che risolva la questione, la soluzione legislativa deve realizzare un compromesso accettabile tra gli orientamenti divergenti delle due confederazioni maggiori: la Cgil, nel senso della necessità di dare voce a tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti, nella formazione delle rappresentanze sindacali, la Cisl nel senso di salvaguardare il rapporto organico tra rappresentanti e associazione. Il  d.d.l. n. 1872/2009 [2] propone appunto questo compromesso: una norma legislativa che attribuisca a tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti, il potere di scegliere il sindacato da cui intendono essere rappresentati (distribuendo i rappresentanti in proporzione ai voti), lasciando poi libero ciascun sindacato di determinare, per conto proprio o d’accordo con gli altri, le modalità di scelta dei rappresentanti.

5. – Qui Ichino mi muove una obiezione di carattere politico alla quale potrei rispondere lungamente e con ampia particolarità di dettagli. Ichino sa bene che ho qualche dimestichezza in argomento e che è difficile affibbiarmi la parte del neofita, di chi pensa che dall’opposizione si debba solo vociare e non fare proposte. Al contrario, ritengo che l’opposizione dovrebbe fare proposte credibili, possibilmente univoche e ben calibrate sui tempi: in politica infatti i tempi giusti sono tutto o quasi. Ad esempio, appare poco sensato che da parte di deputati e senatori del PD si presentino dozzine di diversi disegni di legge in tema di contrasto alla precarietà, contratti unici, contratti di inserimento, partecipazione, regole della rappresentanza sindacale e via elencando. Di fronte a tale pletora di proposte è ben fondata la domanda che mi viene fatta in innumerevoli dibattiti: ma qual’è la proposta del PD? Non ce la si può cavare, come tento fare anch’io, dicendo che il PD è un partito pluralista ecc. Al fondo deve esserci, se si vuole essere un partito, e non un assemblaggio di diverse opinioni provvisoriamente confederate, se non una “linea” quanto meno un orientamento di fondo comune. La mia critica qui più che al PD è rivolta ai suoi gruppi parlamentari che dovrebbero esercitarsi nel costruire proposte unitarie, riconoscibili come tali, e non dare libero sfogo alla fantasia solipsitica e talora narcisistica di ciascun parlamentare.

Un orientamento di fondo comune c’è, eccome, nei quattro disegni di legge (primi firmatari rispettivamente Ichino e Nerozzi al Senato, Madia e Bobba alla Camera) volti al superamento del dualismo fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro: nientemeno che l’idea – comune a tutti quei progetti – di definire una fattispecie di riferimento nuova, cui applicare un diritto del lavoro unico e a quel punto davvero universale, individuandola mediante la nozione di “lavoro in posizione di dipendenza economica”.  Che poi gli organi dirigenti del Partito Democratico non abbiano fatto ufficialmente propria questa idea, preferendo battere strade più tradizionali, questo dispiace anche a me; ma se il partito stesso funzionasse come il vecchio PCI, nel quale nessun parlamentare poteva presentare un disegno di legge che non esprimesse la linea ufficiale, elaborata secondo il metodo del “centralismo democratico”, a quest’ora il dibattito su questa materia sarebbe molto più indietro di quanto sia.

Quanto all’idea di presentare ora, nel febbraio 2011, nelle condizioni date e ben note, un disegno di riforma dell’articolo 39 della Costituzione, proprio mentre l’agonizzante Berlusconi-ter propone una grottesca riforma dell’articolo 41 Cost., questo sì è veramente troppo. Iniziativa “delirante”, l’avevo definita nella nota precedente. Di riforma dell’articolo 39 Cost. si parlò già più di vent’anni fa, in tutt’altro contesto: vi furono proposte di legge presentate da Gino Giugni e Giorgio Ghezzi. Ma come si fa a sollevare ora il problema, nelle condizioni date?

Quella dell’attuazione o modifica dell’articolo 39 è questione cruciale per il nostro diritto sindacale; e la sua attualità  e urgenza è stata sottolineata con forza straordinaria dalla vicenda Fiat dei mesi scorsi. Un grande partito di Centrosinistra che, in circostanze come queste, si astenesse dall’affrontare la questione indicando come intende risolverla, non potrebbe presentarsi come partito che pone il lavoro al centro della propria elaborazione e mobilitazione. Quanto alla “regola” enunciata da Luigi Mariucci, secondo la quale l’opposizione non deve presentare proposte di modifica della Costituzione se vuole contrastare altre modifiche della Costituzione proposte dalla maggioranza, mi permetto di pensarla in modo diametralmente contrario: possiamo contrastare con maggior forza le riforme cattive se proponiamo quelle buone, non se ci arrocchiamo in difesa dell’esistente e – addirittura, come nel caso dell’articolo 39 di cui stiamo discutendo – in difesa degli inadempimenti costituzionali!

La critica appena formulata riguarda anche altri temi. Si prenda quello del pubblico impiego, su cui varrebbe la pena di svolgere un confronto specifico. Ora Ichino con iniziative e dichiarazioni varie denuncia meritoriamente l’esito grottesco della conclamata riforma Brunetta, a partire dagli esiti risibili, se non peggio, della vicenda degli organismi deputati alla valutazione dei pubblici dipendenti, riassumibili nella antica massima del quis custodiet custodes. Ma che sarebbe finita così non lo si poteva capire prima? Non era meglio sul tema marcare fin dall’inizio una proposta alternativa del PD piuttosto che accettare di farsi affibbiare la formula della “legge Brunetta-Ichino”, avallata anche da autorevoli esponenti parlamentari del PD?

Ricordo a Luigi Mariucci che: i) il disegno di legge del Pd per la riforma delle amministrazioni pubbliche, di cui sono primo firmatario (n. 746/2008 [3]), è stato presentato al Senato prima e non dopo, rispetto al disegno di legge del ministro Brunetta (n. 847/2008 [4]); ii) quest’ultimo disegno di legge non conteneva affatto la previsione di un  sistema di valutazione indipendente della performance delle amministrazioni (ispirato al modello delle audit commissions britanniche), né il principio della trasparenza totale, che invece costituiscono la chiave di volta del progetto del Pd; iii) solo nel corso del dibattito sui due disegni di legge, in Senato, la maggioranza si è orientata a far propria queste due idee, anche se in modo riduttivo e in parte contraddittorio (esponendosi per questo alle nostre puntuali critiche [5]); iv) i parlamentari democratici hanno seguito con grande attenzione le fasi di attuazione della legge Brunetta nel suo primo anno di vita, non mancando mai di denunciare con forza, sia in sede di sindacato ispettivo parlamentare, sia con interventi sui media, le mancanze, gli errori e i ritardi gravi del Governo negli adempimenti di sua competenza, che hanno portato al collasso della riforma cui assistiamo in questi giorni (v. la sezione Lavoro pubblico [6] di questo sito) . Proprio  l’impegno progettuale che ha caratterizzato la nostra iniziativa politica su questo terreno ci legittima oggi a candidarci a fare ciò che Brunetta non ha saputo fare. Su questo terreno più che su qualsiasi altro – come ha detto Veltroni il 22 gennaio al Lingotto [7] – la parola-chiave dell’opposizione non può essere “difendere”, ma “cambiare”.

6. – So bene che il disegno di legge di Ichino [qui L.M. si riferisce al d.d.l. n. 1872/2009 [2] in materia di diritto sindacale – n.d.r.] è precedente alla vicenda Fiat: ne parla da circa dieci anni, fin dal suo A cosa serve il sindacato?  [in realtà fin da Il lavoro e il mercato, 1996 – n.d.r.].  A Pietro va riconosciuta su questo una indubbia coerenza. Né si può dire che le sue osservazioni sulle disfunzionalità e persino sulla anchilosi del nostro sistema di relazioni industriali siano infondate. Sulla diagnosi si può largamente convenire. E’ sulle terapie che divergiamo. Inoltre, in tempi in cui la “flessibilità” viene invocata come valore universale, si dovrebbe anche essere “flessibili” sul piano se non delle convinzioni quanto meno delle proposte tecniche. Poiché, appunto, le proposte assumono diversi significati a secondo del contesto. E’ innegabile che, nell’attuale contesto, il disegno di Ichino sembra fatto apposta per muoversi a rimorchio della vicenda Fiat, all’inseguimento delle iniziative di Marchionne. Il quale comunque va troppo svelto dato che, stando alle ultime notizie, il vero disegno sarebbe quello di portare fuori dall’Italia il cervello strategico dell’impresa, e lasciare qui solo modeste attività di assemblaggio, come si farebbe in qualsiasi paese in via di sviluppo. Ma questo rinvia a un altro piano di analisi.

 In altre parole, se ben capisco quello che il collega Mariucci sostiene, sta bene che 55 senatori democratici abbiano presentato il loro progetto di riforma del diritto sindacale nel 2009; ma poi, non appena si sono accorti che questo progetto “fa il gioco di Marchionne”, essi avrebbero dovuto precipitarsi a ritirarlo. Osservo al riguardo che:  i) per fortuna i lavoratori della Fiat hanno deciso a maggioranza di “stare al gioco di Machionne”, per tentare di mantenere in Italia non solo la testa, ma anche una parte consistente del corpo della Fiat;  ii) questa scelta, che i lavoratori della Fiat hanno compiuto anche a costo di sacrifici non piccoli a proprio carico, presenta delle “esternalità positive” rilevantissime per tutto il Paese: si calcola, infatti, che da quell’investimento dipenda almeno il 2 per cento del nostro prodotto interno lordo nei prossimo futuro;  iii) sarebbe dunque ben curioso il comportamento di una forza politica candidata a governare il Paese che ritirasse un proprio progetto solo perché esso “fa il gioco” di una grande multinazionale intenzionata a investire nel Paese medesimo;  iv) sta di fatto, comunque, che il disegno di legge n. 1872/2009 [2], nella parte in cui garantisce  il diritto della coalizione sindacale maggioritaria di negoziare in azienda contratti anche sostitutivi del contratto collettivo nazionale con efficacia verso tutti i dipendenti, non fa il gioco di Marchionne soltanto, ma di tutti coloro che si propongono di lanciare in Italia piani industriali innovativi: quei piani di cui l’Italia ha assoluto bisogno per tornare a crescere e poter ridurre il proprio devastante debito pubblico (v. in proposito editoriale per la Newsletter n. 139 [8]); e al tempo stesso “fa il gioco” del pluralismo sindacale che giustamente sta a cuore a Luigi Mariucci, poiché garantisce voce e rappresentanza riconosciuta in azienda anche al sindacato minoritario che – come la Fiom alla Fiat – sceglie di non firmare. E’ dunque proprio “nell’attuale contesto” che quel disegno di legge acquista particolare attualità; ed è perciò che in questi giorni tutti i protagonisti del sistema italiano delle relazioni industriali – Cgil compresa – lo stanno studiando molto attentamente.