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LA PAROLA FINE SULLA RIFORMA BRUNETTA

BASTA UNA SEMPLICE INTESA SINDACALE PER ELIMINARE GLI EFFETTI DELLA RIFORMA – MA SAREBBE STATA DECISAMENTE PIÙ OPPORTUNA UNA VERA AUTOCRITICA, CON UNA NUOVA RIFORMA CHE IMPONESSE VALUTAZIONI SERIE, MERITOCRATICHE E DIFFERENZIATE

Articolo di Luigi Oliveri pubblicato su lavoceinfo l’11 febbraio 2011 – In argomento leggi anche la mia Lettera sul lavoro pubblicata dal Corriere della Sera  [1]la replica del ministro sullo stesso quotidiano, con la mia controreplica [2]; e il documento programmatico sulle amministrazioni pubbliche [3] presentato dal Movimento Democratico all’Assemblea nazionale del Pd svoltasi a Roma la settimana scorsa


Il re è nudo o la montagna ha partorito un topolino oppure tanto rumore per nulla. Sono molti i modi di dire a cui far ricorso per stigmatizzare la certificazione del sostanziale fallimento dell’esperimento di introdurre in modo forzato nel pubblico impiego una valutazione differenziata che deriva dall’intesa governo-Cisl-Uil dello scorso 4 febbraio. Ma la sostanza non cambia.
Ormai è chiaro il gioco al ribasso voluto dai sindacati e al quale il governo si è prestato sull’applicazione della riforma del ministro Brunetta, per manifesta impossibilità di far funzionare in modo razionale il sistema delle “fasce di valutazione”.

L’OSSESSIONE DELLA CACCIA AL FANNULLONE
L’accordo del 4 febbraio, infatti, nella sostanza finisce per disapplicare proprio uno dei punti maggiormente qualificanti della riforma: l’obbligatoria distribuzione dei dipendenti in tre livelli di valutazione.
Non è detto, tuttavia, che di per sé ciò sia un male. Certo, la riforma Brunetta (il decreto legislativo 150/2009 [4]) non è sicuramente nata e cresciuta sotto una buona stella. È stata impostata in modo da andare a regime nel 2011 (per gli enti locali, in parte nel 2012), ma una serie di incertezze interpretative dovute alla non felice formulazione del testo, la feroce opposizione delle organizzazioni sindacali alla sua completa attuazione, una serie di sentenze dei giudici del lavoro secondo le quali la riforma non potrebbe essere applicata se non dopo la nuova contrattazione nazionale collettiva, l’hanno resa sostanzialmente una norma-slogan. Molto pubblicizzata, poco attuata.
Su queste pagine più volte si è rimarcato l’errore di impostazione insito nella riforma e che consiste nell’insistere eccessivamente nella valutazione della prestazione individuale come sistema meritocratico. L’ossessione della “caccia al fannullone” ha fatto perdere di vista che anche nelle aziende i premi sono per lo più assegnati per la produttività dell’impresa o di gruppi di lavoro. Difficilmente, se non per particolari categorie di lavoratori (ad esempio gli agenti di vendita) si insiste troppo sui premi individuali. Troppo alto il rischio che da una sana competizione si trascenda in una competitività fine a se stessa, senza benefici per l’organizzazione. In fondo, questa è stata una delle principali motivazioni delle clamorose dimissioni di Pietro Micheli [5] dalla Civit (Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche), che dovrebbe garantire la corretta applicazione della riforma.
L’accordo del 4 febbraio, tuttavia, in piena contraddizione con gli intenti della riforma impone di salvaguardare il salario dei dipendenti pubblici, compreso quello discendente dalla valutazione della produttività. Rendendo impossibile modificare il sistema di valutazione e, dunque, la distribuzione in fasce di premio e, di conseguenza, la differenziazione del merito.
A questo punto, l’intero sistema di valutazione immaginato dalla riforma, che prevede documenti complessi, scadenze, organismi interni di valutazione di nuovo conio, un ente nuovo e oneroso (8 milioni di euro l’anno) come la Civit, perde oggettivamente di senso. Anche considerando, come lavoce.info ha avuto modo di evidenziare, che – almeno per il comparto Regioni-enti locali, in media i premi per il merito ammontano a circa 400 euro lordi.
L’accordo certifica come fosse forzato e poco giustificato pretendere che il 25 per cento dei dipendenti pubblici (fascia di merito d’eccellenza) fosse di per sé produttivo, mentre un 50 per cento fosse capace di lavorare in modo ordinario (fascia mediana), e sicuramente il restante 25 per cento (ultima fascia valutativa) non meritevole di alcun incentivo economico. Troppo semplicistico e draconiano ridurre il problema – se tale davvero è – della produttività dei dipendenti pubblici a un risultato valutativo precostituito in laboratorio.
Inevitabile, dunque, giungere a una disapplicazione (sotto mentite spoglie) della relativa norma. Sarebbe stata più opportuna una vera e seria autocritica, mediante una riforma legislativa che imponesse valutazioni serie, meritocratiche e differenziate, ma senza prefissarne i risultati. Il legislatore dovrebbe esentarsi dall’agire come un capo ufficio e gestire direttamente i rapporti di lavoro.

DOPO IL 4 FEBBRAIO
Due considerazioni finali e una domanda. Prima considerazione: dopo anni di gran parlare e approfondire la riforma, una semplice intesa sindacale ne elimina sostanzialmente gli effetti, lasciando in piedi, però, l’onerosissimo sistema di valutazione. Occorre chiedersi se il costo valga il beneficio. Seconda considerazione: la Civit, in barba a qualsiasi regola di efficienza aziendale, aveva di recente imposto alle amministrazioni di garantire il contraddittorio per la valutazione, rendendo obbligatoria la conciliazione, che il recente collegato lavoro (legge 183/2010 [6]) ha reso facoltativa. Rendendo, così, il processo valutativo ancor più farraginoso e incerto, esposto a continui ricorsi.
La domanda: a sottoscrivere l’accordo del 4 febbraio col governo, in un’ottica di ipertutela di lavoratori non poco protetti, come i dipendenti pubblici, sono quegli stessi sindacati che, sul piano delle relazioni sindacali con la grande industria, hanno invece decisamente lasciato molto terreno sulle tutele?