- Pietro Ichino - https://www.pietroichino.it -

UN INVITO A CONTINUARE LA BATTAGLIA FUORI DAL SENATO

L’ECONOMISTA E OPINIONISTA  EX-SENATORE DELL’ULIVO MI CONSIGLIA DI PROSEGUIRE LA BATTAGLIA DAI GIORNALI E DALLA CATTEDRA, LIBERANDOMI DAI VINCOLI DELL’ATTIVITÀ PARLAMENTARE E DELLA DISCIPLINA DI GRUPPO – GLI RISPONDO CERCANDO DI FARE UN CENSIMENTO DEGLI ARGOMENTI PRO E CONTRO LA SOLUZIONE DA LUI PROPOSTA

Messaggio di Franco Debenedetti, 16 maggio 2012, a proposito del quarto anniversario di questo sito e della [1]Nwsl [1] – V. anche l’articolo sul [2]Corriere della Sera [2] del 21 febbraio 2008 [2], con il quale lo stesso F.D. cercò quattro anni fa di dissuadermi dall’accettare la candidatura al Senato; e l’articolo con cui allora gli risposi sul [3]Corriere della Sera dello stesso giorno [3]Segue in questo post una mia risposta meditata e articolata e, in un post diverso, una selezione dei molti messaggi ricevuti in proposito [4]

E così, tutte le domeniche notte, puntuale come un orologio, una settimana dopo l’altra, siamo arrivati alla cifra tonda: 200 numeri della Newsletter, chiari, precisi, completi, ordinati, facili da interrogare. Sono la descrizione di un progetto intellettuale e la storia di una battaglia politica, sviluppatisi nei primi quattro anni di questa legislatura. Per chiunque vorrà ripercorrerne la storia, conoscere idee e persone, questi 200 numeri sono un imprescindibile reference book. Quindi bravo Pietro, complimenti, applausi e champagne.
Non si sarebbe raggiunto questo risultato senza la sua puntigliosa precisione, la ferrea costanza, il sereno equilibrio: ma soprattutto, senza la sua passione politica. E questo rimanda al  bilancio politico dell’esperienza raccontata in queste 200 Newsletter: non solo quello suo personale, ma quello del Paese e della sua classe politica. E su quest’ultimo il mio giudizio è molto severo: si tratta di un bilancio nettamente negativo. Ed è grandemente per la   caparbietà di Pietro, per la sua pazienza per i piccoli passi e i consensi costruiti uno ad uno, per la sua capacità di “vendere” le proprie idee (e lo strumento del portale ha sicuramente aiutato a diffonderle nel Paese) se alla fine, sul piano pratico, qualcosa si è potuto raccogliere, sia per le pensioni che per la legislazione del lavoro. Ma se di giudizio politico si tratta, si deve riconoscere che la riforma delle pensioni è stata fatta grazie a una fortunata congiunzione astrale, e che quella del lavoro non è stata compiuta nonostante una situazione politica eccezionalmente favorevole.
Riforma delle pensioni: quel progetto era la summa della vita di lavoro accademico di Elsa Fornero. Messa a capo del dicastero dal veto frapposto a un altro candidato, lo porta avanti con la tranquilla semplicità di chi arriva al potere provvisto solo della convinzione nelle proprie idee. È stata la persona giusta, con il progetto giusto, nel momento giusto: è stato il primo atto politico del Governo Monti, e andò in porto con fluidità. Ma grazie a questa serie di fortunate combinazioni.
Non ha avuto invece la sua buona stella la riforma del mercato del lavoro. In Parlamento, erano venute le tasse del “Salva Italia”, le polemiche sulla  crescita; nel Governo, la consapevolezza dei rischi, e la preoccupazione del durare. La freschezza era appassita, l’”ingenuità” perduta. L’articolo 18, per il suo valore altamente simbolico, è la prima sconfitta sulla strada del Governo: tutti hanno visto che, messo alle strette, Monti arretra. Non ci andava molto a sottrarre al giudice il licenziamento per giustificato motivo economico: così non è stato, e così non sarà per chissà quanto tempo. Il duale della sconfitta di Monti sono i balbettii dei partiti:  dovevano capire che era l’occasione per riprendersi il ruolo di protagonisti, far fare un balzo in avanti al paese, dandogli una vera riforma del mercato del lavoro: invece l’hanno usata in modo strumentale, la destra per mettere in difficoltà la sinistra, la sinistra per aggregare consenso tra le sue varie anime.
È stato dunque inutile il lavoro del senatore Ichino? Impossibile saperlo, le idee corrono sottotraccia, misteriosi sono i modi in cui si formano e si cambiano le opinioni. Altra è la domanda da porsi: ci sono modi più efficaci, o meno dispendiosi, per diffondere le proprie idee? Chi scegliersi come interlocutori, gli eletti o gli elettori, i politici o i cittadini? Quando Pietro stava per candidarsi, gli scrissi sul Corriere una “lettera aperta”, in cui cercavo di dissuaderlo [2]: continua a diffondere le tue – le nostre – idee dalle colonne del Corriere, i tuoi articoli sono più efficaci delle battaglie in Commissione e dei discorsi in Aula. Oggi riconosco che sbagliavo: se Pietro avesse seguito il mio suggerimento, non solo non avremmo i 200 numeri di questo opus magnum, ma soprattutto non ci sarebbe stato il tentativo più serio e coerente di introdurre la riforma per via parlamentare, e questo sia con un Governo “normale” sia con un Governo nominato per le emergenze. Invece, si è dimostrato, perlomeno, il teorema di impossibilità di questo Paese di darsi una riforma chiara e risolutiva.
Con il che il mio suggerimento, sbagliato allora, diventa giusto oggi. Se questa riforma, come tante altre riforme liberali, con questa classe politica non passa, e non si vede sorgere chi possa farla passare, bisogna trarne le conseguenze, e considerare l’esperienza parlamentare avviata alla sua fine naturale: per il futuro, credo sia meglio rivolgersi alla gente direttamente, senza mediazioni. Il risultato, almeno nell’immediato, non cambia: ma l’esperienza è meno frustrante.

LA MIA RISPOSTA A FRANCO DEBENEDETTI

A distanza di quattro anni mi trovo di nuovo a dover rispondere a Franco Debenedetti, che mi invita a considerare anche questa mia seconda esperienza parlamentare (la prima è stata quella 1979-83, nella quale sono stato deputato) come un’esperienza in sé conclusa, e a continuare la mia battaglia nella veste di studioso e di opinionista. Non più dallo scranno del Senato ma dalla cattedra universitaria e dalla prima pagina di un grande giornale come il Corriere della Sera, se il quotidiano di via Solferino vorrà riattivare la collaborazione professionale sospesa con la mia elezione nell’aprile 2008. Poiché alla fine della legislatura manca ormai meno di un anno, è ora di incominciare a riflettere su questa alternativa; e voglio farlo come sempre nel modo più trasparente, condividendo con i miei lettori ed elettori tutto quello che penso.
Ne ho discusso con lo stesso F.D. e con alcune altre persone a me vicine, raccogliendo alcuni argomenti assai rilevanti a favore della scelta di accettare la nuova candidatura, se mi verrà offerta, e alcuni argomenti altrettanto rilevanti in senso contrario. Li sintetizzo nella tabella, nella quale le ragioni per accettare la ricandidatura sono evidenziate in blu, mentre quelle per non accettarla sono evidenziate in verde.

A1 – Per qualsiasi parlamentare, la prima legislatura è un po’ un periodo di apprendistato, nel quale si impara a conoscere i meccanismi interni dell’istituzione; la seconda legislatura e la terza sono quelle in cui si mettono meglio a frutto le esperienze della prima e l’azione svolta è, quindi, più efficace.
A2 – In realtà, però, questa per me è già una seconda legislatura: dopo la VIII, la XVI. Ci sono arrivato, dunque, conoscendo già abbastanza bene i meccanismi parlamentari e i giochi della politica. Nella prossima legislatura dubito comunque di essere in grado di fare più e meglio di quello che sono riuscito a fare in questa.

B1 – Anche la maggiore notorietà acquisita nel corso di una legislatura conferisce maggior peso all’azione svolta in quella successiva. Interrompere l’impegno parlamentare dopo quattro o cinque soli anni significa lasciare le cose a mezzo.
B2 – In realtà, però, sono arrivato a questa seconda esperienza parlamentare con la notorietà che mi era data da trent’anni di attività universitaria e dieci di editorialista per il Corriere della Sera: la conoscenza delle mie tesi era ed è già abbastanza diffusa. E non è detto affatto che, nella situazione attuale, il modo più efficace per continuare a sostenerle non sia proprio quello di tornare all’attività di giornalismo militante sorretta dall’attività di ricerca, di insegnamento e di confronto diretto, quotidiano, con gli studiosi di tutto il mondo.

C1 – Per svelare gli arcana imperii occorre stare dentro il Palazzo. Per esempio, non avrei mai potuto scoprire e denunciare la vicenda scandalosa della sostanziale rendita vitalizia garantita ai dipendenti dei partiti defunti [5], se non dal di dentro del Senato.
C2 – Resta il fatto, però, che a quella mia denuncia non è stato dato alcun seguito dalla stampa nazionale. Per scoprire e denunciare gli arcana imperii occorrono talvolta “competenze anfibie” e strumenti di cui dispone chi ha conosciuto il Palazzo dal di dentro ma opera senza condizionamenti dal di fuori di esso. In particolare, senza i condizionamenti della disciplina di gruppo.

D1 – Già, la disciplina di partito e di gruppo. Io stesso ho sostenuto che l’etica politica [6] impone il coraggio di “sporcarsi le mani” con le esigenze dell’efficacia del lavoro politico concreto [7], quindi anche con le pesantezze dei meccanismi di partito e istituzionali. Troppo facile salvarsi l’anima coltivando la purezza delle proprie idee, predicando senza assumersi responsabilità, elaborando progetti di riforma astratti nelle aule universitarie senza confrontarsi con l’infinita complessità del Paese reale.
D2 – La buona politica, però, non ha bisogno soltanto dei politici professionisti, impegnati stabilmente nella ricerca e costruzione del “consenso utile” (cioè di quello che arriva entro le prossime elezioni): ha bisogno anche degli intellettuali-politici di complemento un po’ “fuori linea” nell’immediato, ma capaci di cogliere in anticipo i segni dei tempi, impegnati nella costruzione di un ponte tra il consenso di oggi e quello di domani, disposti ad andare controcorrente restando in minoranza nel loro partito oggi, per preparare la cultura politica di cui il partito stesso avrà bisogno domani. Senza questa dialettica interna, qualsiasi partito corre un forte rischio di demagogia, di populismo. Il mio ruolo, pur modestissimo per importanza, negli ultimi quarant’anni del centrosinistra italiano, si è caratterizzato per questo impegno ad ampliare gli orizzonti della politica del lavoro. Per svolgere questo ruolo non occorre, e forse può essere  persino di ostacolo, lo stare continuativamente in Parlamento: è sufficiente anche starci nelle sole legislature multiple di otto (la mia prossima, dunque, potrebbe essere la XXIV).

E1 – Interrompere l’impegno in Parlamento alla fine di questa legislatura può apparire come un darla vinta a chi vuole mantenere la politica del lavoro del Pd ancorata a posizioni conservatrici, difensive dell’esistente, poco autonome rispetto ai sindacati.
E2 – È anche vero, però, che chi vuol mantenere il Pd ancorato a quelle posizioni ha già perso la partita: dopo aver sostenuto fino al febbraio scorso con toni ultimativi che “l’articolo 18 non si tocca”, chi si collocava su quelle posizioni voterà ora in Parlamento una riscrittura integrale dello stesso articolo 18, che segnerà comunque una svolta importante nel nostro diritto del lavoro. Certo, la riforma Fornero non mi soddisfa affatto; ma essa pone pur sempre al centro dell’agenda politica italiana per l’oggi e per il prossimo futuro il tema del superamento del dualismo di protezioni fra insiders e outsiders nel mercato del lavoro e quello dell’allineamento del nostro ordinamento del mercato del lavoro con i migliori standard del centro e nord-Europa: obiettivi che la sinistra italiana ha finora prevalentemente considerato come falsi problemi. Mi sembra – e per questo aspetto in parte dissento dal giudizio totalmente negativo di F.D. – un risultato non disprezzabile: inferiore, certo, alle speranze suscitate dagli annunci del dicembre e gennaio scorso, ma nettamente superiore a quanto era anche solo ipotizzabile un anno fa. Non abbastanza per poter dire: “missione compiuta”; ma più che abbastanza per poter dire: “questi miei quattro anni di servizio civile in Senato a qualche cosa sono serviti”.

F1 – In Parlamento c’è molto bisogno di competenze tecniche specifiche.
F2 – Ma in questa legislatura non ho avuto la sensazione che la mia competenza specifica sia stata molto valorizzata. Certo non più di quanto siano state valorizzate – come del resto è molto opportuno – le competenze di altri, che parlamentari non sono.

G1 – In giro per l’Italia ci sono molte persone che condividono le mie idee e si sentono rappresentate da me in Parlamento: la mia defezione potrebbe essere vissuta da loro come un tradimento. Per qualcuno potrebbe essere un motivo in più di sensibilità alle lusinghe dell’“antipolitica”.
G2 – Tra tutte queste persone che condividono le mie idee e le praticano, però, ce ne sono molte che hanno venti o trent’anni meno di me e capacità intellettuali maggiori: è bene fare posto alle migliori tra queste in Parlamento. La mia, comunque, non sarebbe una defezione:  continuerei la battaglia in altre sedi non meno importanti per l’evoluzione dell’opinione pubblica.

H1 – In questo momento di crisi economica e sociale gravissima del Paese e di difficoltà altrettanto grave del ceto politico a recuperare la fiducia dei cittadini, il fatto che io ritorni alla maggiore comodità e tranquillità della vita privata e alle più gratificanti attività dell’insegnamento, del giornalismo e della professione forense può apparire come una diserzione, una fuga di fronte al pericolo. O anche un atto di avarizia; e un difetto di costanza e di pazienza, che in politica sono doti essenziali.
H2 – Questo è un argomento che pesa molto. In senso contrario si potrebbe osservare solo che anche il non essere attaccato al seggio parlamentare può essere una manifestazione di  buon costume politico.

I1 – Essere parlamentare consente di girare e conoscere “dal di dentro” tutta l’Italia. Roma, poi, è una città meravigliosa; ed è il luogo dove tutti convergono, nel quale ogni giorno il Sud, il Centro e il Nord d’Italia si incontrano e si confrontano. Dove, nel bene e nel male, si formano le scelte di governo del Paese. Se si vuole influire su quelle scelte, è a Roma che occorre stare almeno metà del proprio tempo.
I2 – È vero. E questi quattro anni di lavoro parlamentare a Roma, e in giro ogni settimana in una parte diversa d’Italia, sono stati un’esperienza appassionante, non meno di quelli dell’VIII legislatura, trent’anni fa. Ma è anche vero che a lungo andare l’impegno parlamentare può anche allontanare dalla vita di tutti i giorni della gente comune. Questo è uno rischio che il politico di professione deve inevitabilmente correre; ma per un politico “di complemento” come me il discorso è forse in parte diverso.

Forse.
Per ora mi fermo qui. Sono assolutamente sincero nel dire che non ho ancora preso alcuna decisione; ma, certo, prima della fine dell’anno la dovrò prendere. Come sempre, i frequentatori di questo sito potranno partecipare alla discussione in proposito; e quella decisione saranno i primi a conoscerla.  (p.i.)