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NON C’E’ NULLA DI BIANCO NELLE MORTI BIANCHE

TRE PROPOSTE ETERODOSSE PER COMBATTERE GLI INFORTUNI SUL LAVORO

La denuncia di un rappresentante per la sicurezza e, nella risposta, alcune proposte non convenzionali su quel che si potrebbe fare subito e a costo zero, in alternativa alla pratica auto-assolutoria e inconcludente di emanare nuove leggi e proclamare scioperi.

 

6 giugno 2008
Giovedì 29 Maggio nel giro di poche ore sono morti sul lavoro 5 lavoratori. Quando questi poveri lavoratori muoiono, molte volte non si sa neanche il nome, come fossero solo dei numeri, invece non è così, sono persone in carne e ossa:

Santino Guida, 54 anni, muratore;

Stefano Locatelli, 30 anni, operaio;

Dario Ubertoli, 30 anni, operaio;

Salvatore De Moro, 73 anni, agricoltore;

Ermiono Croda, 54 anni, agricoltore.

Mercoledì 4 giugno, Dilawar Singh, un operaio indiano è morto sul lavoro, colpito al capo dal braccio meccanico di un macchinario. Aveva solo vent’anni!

La politica è stata fortemente impegnata con il

decreto sulla sicurezza pubblica, e con l’emendamento “salva retequattro”, come se fossero le priorità del paese. E’ vero, c’è un emergenza sicurezza nel nostro paese, ma sul LAVORO, che io oserei definire una vera e propria emergenza nazionale, perchè non è degno di un paese civile che ci siano così tanti infortuni e morti sul lavoro.

Abbiamo una media impressionante di morti sul lavoro (4 al giorno). Questi sono numeri da paese

del “terzo mondo”, non da paese civile. Cosa aspetta la politica ad occuparsi di questa emergenza? Ma soprattutto cosa aspettano i sindacati confederali a proclamare uno sciopero generale di otto ore, con manifestazione nazionale a Roma?

O i 5 morti sul lavoro di giovedì 29 e quelli che ci sono stati nelle settimane passate e tutti gli infortuni e gli invalidi sul lavoro non sono abbastanza?

Come disse a suo tempo il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani, intervistato da La Repubblica: “Dobbiamo tornare in prima linea. Dobbiamo tornare con fatica a sporcarci le mani con la

condizione del lavoro……è di un’ «autoriforma» che ha bisogno anche il sindacato, senza nascondersi dietro le responsabilità e le debolezze degli altri. Ogni morto – spiega – è per noi una sconfitta.
Qual è la nostra principale funzione se non quella di tutelare l’integrità, innanzitutto fisica, del lavoratore? C’ è anche una nostra quota di responsabilità, accanto alla mancanza di controlli e alle colpe delle imprese che spesso non si curano della sicurezza in nome del profitto”.

Lo ripeto nuovamente, il Dlgs per un testo unico per la sicurezza sul lavoro è stata solo una “pezza” che è stata messa, ma non è, ripeto, non è, la soluzione di tutti i mali che affliggono i luoghi di lavoro, ci vorrà molto, ma molto di più, per fermare tutti questi omicidi nei luoghi di lavoro.

Vorrei rivolgere un invito a tutti: la si smetta una volta per tutte di chiamarle morti bianche: sono dei veri e propri assassinii sul lavoro, non c’è nulla di bianco in una morte sul lavoro.

Marco Bazzoni, Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

bazzoni_m@tin.it [1]

 

Hai ragione, Marco: il testo unico per la sicurezza non basta; ci vuole molto di più per fermare la serie degli infortuni sul lavoro: di quelli mortali come degli altri. Anzi, per certi aspetti l’intervento legislativo immediato, all’indomani di una strage, ha persino una possibile valenza negativa, perché sottintende una sorta di autoassoluzione: se il problema sta in un difetto della legislazione, nessuno ha colpa, non occorre correggere i comportamenti quotidiani delle istituzioni e delle persone, di ciascuno di noi.

La realtà è che la nostra legislazione in materia di sicurezza e igiene del lavoro è allineata agli standard comunitari , che sono tra i più avanzati del mondo. Anch’essa, certo, è sempre perfettibile,  ma non è lì il problema maggiore; la causa del nostro tasso di infortuni più alto rispetto agli altri Paesi europei va cercata semmai nel tasso troppo alto di ineffettività di questa nostra legislazione. Anche la migliore delle leggi è del tutto inutile se resta disapplicata.

Tutti i dati empirici mostrano – sia nel confronto tra Paesi, sia nel confronto tra regioni italiane – una forte correlazione diretta del tasso degli infortuni sul lavoro rispetto al tasso di lavoro irregolare, o una correlazione inversa rispetto agli indici di diffusione e radicamento della cultura della legalità, del senso civico (quello che nella lingua delle sicenze sociali viene chiamata civicness, o civic attitudes). E su questo terreno tutti siamo in qualche misura responsabili, se non altro per quella forma di opportunismo farisaico che ci spinge a chiudere gli occhi sul fenomeno del lavoro totalmente irregolare anche quando esso si presenta in modo macroscopico nel cuore delle nostre città (rinvio in proposito al bel libro di Paolo Berizzi, Morte a tre euro. Nuovi schiavi nell’Italia del lavoro, ed. Baldini Castoldi Dalai, 2008).

Una sola nota critica su quel che scrivi: in materia di sicurezza del lavoro il sindacato può e deve fare qualche cosa di più che proclamare uno sciopero. Anche l’ennesimo sciopero, come l’ennesimo intervento legislativo, rischia di avere un significato auto-assolutorio; come dire: la responsabilità di quel che accade è tutta dello Stato e delle imprese. Anche il sindacato e i lavoratori, invece, hanno delle responsabilità e possono fare di più su questo terreno.

Qualche idea su quel che potremmo tutti – Stato, imprese, enti locali, sindacato e lavoratori – concretamente fare subito, più di quanto abbiamo fatto finora:

   – sul piano amministrativo, intensificare i controlli sia contro il lavoro irregolare in generale (di competenza degli Ispettorati del lavoro), sia contro le violazioni della normativa di prevenzione (di competenza degli Ispettorati delle Asl); per questo occorre potenziare immediatamente entrambi gli Ispettorati; e lo si può fare subito e a costo zero assegnando a ciascun ispettore come assistenti, mediante trasferimento d’ufficio, uno o due impiegati male o per nulla utilizzati in altri comparti delle amministrazioni pubbliche locali: in questo modo si potrebbe raddoppiare in brevissimo tempo l’efficienza degli ispettorati (è quanto ho proposto con Tito Boeri su lavoce.info l’anno scorso, nell’articolo Ipocrisie bianche [2]); certo, questo implica che i lavoratori del settore pubblico e i loro sindacati accettino il trasferimento da un ufficio a un altro nella stessa città, rinunciando alla regola – non scritta, ma di fatto rigorosamente applicata – della consensualità, che oggi lo impedisce;

   – in azienda, stimolare il controllo reciproco tra lavoratori, anche pari grado, sul rispetto delle misure di sicurezza: imprese e sindacati dovrebbero negoziare premi individuali per chiunque segnali misure utili di perfezionamento della prevenzione e premi di reparto che scattano soltanto se nel mese precedente non si è verificato neppure un infortunio di minima entità; questo sarebbe molto utile per sensibilizzare tutti gli interessati sulla prevenzione di ogni rischio, anche il più piccolo (osservo per inciso che il premio di reparto contribuirebbe anche a combattere il fenomeno, che in qualche azienda ha una diffusione non del tutto trascurabile, della simulazione dell’infortunio lieve finalizzata a una breve assenza abusiva);

   – fuori dell’azienda, combattere più efficacemente gli infortuni stradali, che per un verso costituiscono metà degli infortuni sul lavoro, per altro verso sono, nel loro complesso, dieci volte più numerosi di quelli sul lavoro; anche su questo terreno l’Italia, con il suo tasso abnorme di mortalità da traffico stradale, è purtroppo il fanalino di coda tra i maggiori Paesi europei; e qui la responsabilità riguarda non soltanto tutti i guidatori, ma anche i responsabili degli enti locali e di tutti gli altri enti competenti per la sicurezza della circolazione, ivi compresa la polizia stradale e i vigili urbani. Se incominciassimo a far dipendere una parte cosistente delle retribuzioni dei dirigenti di questi enti dalla frequenza degli infortuni che si registrano nella parte di rete stradale di loro competenza, molto probabilmente il numero dei morti e dei feriti incomincerebbe a diminuire. Ai dirigenti apicali, in particolare, si dovrebbe assegnare l’obiettivo dell’allineamento entro due o tre anni anni del nostro tasso di infortuni stradali alla media europea, legando al conseguimento di questo obiettivo almeno il 30 per cento delle loro laute retribuzioni (rinvio in proposito all’articolo 12 del disegno di legge sulla valutazione e misurazione nelle amministrazioni pubbliche [3] presentato nei giorni scorsi).

p.i.