IPOCRISIE BIANCHE

Articolo di Tito Boeri e Pietro Ichino pubblicato da lavoce.info il 16 aprile 2007

 

Abstract

     Sulle morti bianche si dicono e scrivono una marea di ipocrisie.  E’ un problema di lunga data del nostro paese, non un’emergenza degli ultimi giorni.  Affrontarlo con nuove leggi non serve semplicemente perché le morti bianche sono per lo più frutto della disapplicazione delle leggi già in vigore.  Il sindacato oggi, forse più che in passato, segnala il problema.  Ma se non si fosse opposto a suo tempo alla riconversione del personale del collocamento, avremmo oggi un corpo di ispettori del lavoro in grado di effettuare molti più controlli. E’ ancora possibile rafforzare subito gli ispettori a costo zero, se il sindacato lo consente.�
 
Un’emergenza da anni, non da venerdì scorso

 
            Molti politici sembrano essersene accorti solo sabato scorso quando i giornali hanno dato ampio risalto alle 4 morti bianche avvenute il giorno prima.  Ma è da anni che in Italia c’è un più alto numero di incidenti mortali sul lavoro che negli altri paesi europei con un livello di reddito pro capite comparabile al nostro.  Le statistiche non sono strettamente comparabili perché in paesi con un forte settore informale, molte morti bianche vengono fatte passare come incidenti automobilistici.  Ad esempio, è noto che in molti cantieri irregolari, le vittime di incidenti mortali vengono portate ai bordi di una strada, fingendo che siano stati investiti da una macchina.

               In ogni caso, le statistiche disponibili (fonte BLS, Eurostat e ILO) dicono che in Italia ci sono ogni anno 6 incidenti mortali ogni 100.000 lavoratori, sei volte l’incidenza  di questi incidenti nel Regno Unito, quattro volte la Svezia, due volte la Germania.  Questo divario negativo esiste da decenni, non è certo un fatto recente. Semmai, l’incidenza degli infortuni mortali, soprattutto se escludiamo quelli avvenuti a bordo di un mezzo di trasporto nel corso del lavoro, è fortemente diminuita negli ultimi 10 anni.  Questo non tanto perché si sia trovato un modo più efficace per affrontare il problema quanto perchè sono diminuiti in Italia gli occupati in agricoltura, edilizia e trasporti: i tre settori in cui si concentra il più alto numero di questi infortuni (la somma delle quote dei 3 comparti è diminuita dal 20,5 del 1995 al 19,4 del 2005, la quota agricoltura passa da 7,6 a 5,2; ma le costruzioni da 6,8 a 7,7 e nei trasporti da 6,1 a 6,5). E l’automatizzazione ha progressivamente assorbito molte operazioni manuali.


Non è un problema di leggi, ma di controlli

            Da più parti è stata invocata negli ultimi giorni la rapida approvazione di una nuova legge contro gli infortuni sul lavoro.  Ma la legislazione italiana attuale è stata allineata nel corso degli anni ’90 agli standard comunitari, considerati i migliori su scala mondiale. Nessuna legge, comunque, potrà mai affrontare in modo efficace il problema delle morti bianche finché le normative di sicurezza continueranno a essere largamente disapplicate come lo sono oggi in Italia.  Il problema vero è quello dei controlli sull’applicazione delle norme di sicurezza nella vasta area dell’economia sommersa e anche in molte imprese cha agiscono alla luce del sole, ma in cui c’è un insufficiente radicamento della cultura della sicurezza.

            Questi controlli richiedono una presenza più capillare su tutto il territorio degli ispettori del lavoro (dotati di competenza generale) e di quelli delle Asl  (dotati di competenza specifica per la materia antinfortunistica). L’apparato esistente degli ispettorati del lavoro consta di circa duemila ispettori, che sono stati negli ultimi anni quasi tutti promossi (quasi il 50 per cento ha oggi l’inquadramento più alto contro il 10 per cento che lo aveva nel 2000): il che riduce il numero di quelli che operano quotidianamente nel vivo del tessuto produttivo.Le responsabilità del sindacato.            È difficile dare torto al segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani quando dice che ogni morte bianca è una sconfitta del sindacato, ma al tempo stesso denuncia che “resta irrisolto il problema degli ispettori del lavoro” e in particolare della grave insufficienza dei loro organici (Repubblica del 15 aprile). Va, però, anche detto che all’insufficienza degli organici degli ispettorati del lavoro, come di quelli delle Asl, hanno contribuito e contribuiscono in modo determinante le rigidità caratteristiche dell’impiego statale.

L’inamovibilità dei “collocatori”

            Quando, dieci anni or sono, in ossequio a una sentenza della Corte di Giustizia europea, la legge Treu ha abolito il monopolio statale dei servizi di collocamento, è stata subito rilevata la sovrabbondanza degli organici addetti ai vecchi uffici di collocamento – circa 8000 impiegati – e l’opportunità di un trasferimento di gran parte di essi a funzioni di assistenza agli ispettori presso gli ispettorati del lavoro, i cui organici (allora circa 1500 ispettori sull’intero territorio nazionale) erano già gravemente insufficienti, o presso gli ispettorati delle Asl. Logica avrebbe voluto che almeno due terzi, se non tre quarti, dei “collocatori” – di fatto quasi del tutto inutili per l’incontro fra domanda e offerta di lavoro ‑ venissero prontamente trasferiti agli ispettorati delle rispettive città: questo avrebbe consentito un forte potenziamento della capacità ispettiva di questi organi, con costi ridottissimi o nulli per le casse statali. Se questo non è avvenuto, lo si deve alla paralisi di quel potere di trasferimento, che la legge attribuisce al management pubblico con una norma identica a quella vigente nel settore privato, ma che nel settore pubblico i sindacati di fatto consentono di esercitare soltanto mediante accordo con i rappresentanti locali dei lavoratori, cioè soltanto quando i singoli lavoratori accettano di trasferirsi.

             L’operazione di trasferimento dei collocatori agli ispettorati avrebbe potuto essere compiuta senza alcun grave sacrificio per loro, salvo quello di dover frequentare un corso di riqualificazione e incominciare a svolgere una funzione veramente utile e impegnativa. Il sovradimensionamento degli uffici del lavoro meridionali avrebbe consentito un corrispondente maggiore rafforzamento degli ispettorati proprio nelle regioni dove il lavoro nero è più diffuso e dove il tasso di disapplicazione della legge è più alto. Senonché questa operazione è stata impedita dall’inamovibilità di fatto degli impiegati pubblici, efficacemente presidiata, come sempre, dai sindacati del settore. 7000 statali addetti agli uffici di collocamento sono stati, sì, trasferiti con il d.lgs. n. 469/1997: ma solo nominalmente, nel senso che quel decreto ha imposto la sostituzione sulla porta dei loro uffici della denominazione di “ufficio statale del lavoro” con quella di “ufficio regionale”, poiché la funzione del collocamento veniva, appunto, decentrata alle Regioni. E, a scanso di equivoci, su pressante richiesta dei sindacati del settore, quello stesso decreto si premurava di precisare che struttura e funzione degli uffici avrebbero dovuto rimanere inalterate.

Quali sono le vere priorità del sindacato?

           Ora Epifani e gli altri dirigenti sindacali confederali giustamente chiedono un rafforzamento degli organici degli ispettorati. Operazione sacrosanta; e attuabile con costi davvero ridottissimi per l’Erario. A condizione che le confederazioni stesse consentano di fare oggi ciò che i loro sindacati di settore non consentirono di fare dieci anni fa. Si tratta di trasferire d’ufficio, nell’ambito di ciascuna provincia, dunque senza alcun mutamento di residenza, un congruo numero di impiegati pubblici dagli uffici in cui oggi sono male o per nulla utilizzati agli ispettorati del lavoro, affidando agli ispettori più esperti e qualificati il compito di introdurre questo nuovo personale alle funzioni che esso potrà svolgere in affiancamento a loro e, dopo qualche mese di addestramento, anche in loro sostituzione.

            Per favorire questa operazione, può essere utile anche istituire un premio una tantum riservato ai trasferiti, attingendo agli oltre tre miliardi stanziati per il rinnovo dei contratti collettivi degli statali (purché questo non significhi reintrodurre il principio della “volontarietà” del trasferimento, che significherebbe ancora una volta l’insabbiamento sine die dell’operazione). Sarebbe un primo modo concreto di attuare quel nesso tra recupero di efficienza e premio retributivo, che il Memorandum Governo-sindacati del 18 gennaio scorso prevede, ma che corre un elevatissimo rischio di rimanere sulla carta, dato che l’accordo raggiunto prima di Pasqua concede subito gli aumenti e rimanda nel tempo le riforme.

            Con o senza premio una tantum, dalla rapidità con cui questa operazione verrà concordata e attuata da sindacati e Governo – assai più che dalla rapidità con cui verrà emanata l’ennesima legge sulla materia – si vedrà se e quanto la lotta contro gli infortuni sul lavoro costituisca davvero, per i primi e per il secondo, una priorità assoluta.

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