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QUANDO L’ARTICOLO 18 METTE A REPENTAGLIO I POSTI DI LAVORO

IL MODO IN CUI LA NORMA DELLO STATUTO PIÙ CONTROVERSA VIENE DI FATTO APPLICATA SPIEGA MEGLIO DI QUALSIASI TRATTAZIONE GIURIDICA LA NECESSITÀ DI ADOTTARE UNA TECNICA DIVERSA DI PROTEZIONE

Lettera pubblicata sulla Rivista italiana di diritto del lavoro (2003, III, pp. 185-186), poi ripresa dal Corriere della Sera il 7 agosto 2003 – Per una rassegna di casi e documenti sullo stesso argomento pubblicati su questo sito v. Articolo 18: una norma che merita di essere cambiata. [1]

Caro professor Ichino,
dal 1970 lavoro come tecnica-modellista e responsabile della qualità in un’azienda di confezioni a conduzione familiare che occupa circa 50 dipendenti, ditta presso la quale inizialmente ero dipendente, poi ne sono diventata socia avendone acquisito una piccola quota di partecipazione.
Nel 1990 la ditta assunse un’operaia cucitrice che, dopo circa 6 mesi di regolare lavoro, si rese assente dal lavoro con regolare certificazione medica per 13 mesi consecutivi: motivo della malattia, un forte esaurimento nervoso causato dalla morte della madre, avvenuta cinque anni prima. Allo scadere del periodo di comporto, la dipendente, non avendo più diritto a restare assente senza perdere il posto, si presentò al lavoro e subito ebbe una discussione con me in quanto non trovò nello spogliatoio la propria divisa lasciata lì 13 mesi prima, giungendo a minacciare di rovinare dei capi in lavorazione. Passata una settimana, la stessa dipendente incominciò a insultare l’amministratore accusandolo di essere un ladro in quanto non le aveva retribuito alcuni giorni di malattia (questi le erano stati trattenuti in quanto durante il periodo di malattia era risultata assente dalla sua abitazione a un controllo dell’Inps). Durante questa discussione la dipendente finse di cadere a terra come fosse stata spinta o addirittura picchiata dal datore di lavoro, aggressione smentita da tutte le altre dipendenti presenti alla scena.
Da qui ha inizio l’odissea della nostra azienda. Su consiglio dell’Unione industriali di Bergamo l’operaia viene licenziata per insubordinazione; la stessa impugna il licenziamento e avvia la causa, a seguito della quale dopo un anno il giudice del lavoro di Treviglio dà ragione all’azienda. In appello, anche il Tribunale di Bergamo conferma la legittimità del licenziamento. La dipendente allora propone ricorso alla Cassazione, la quale rimanda il fascicolo al Tribunale di Brescia per appurare alcuni punti. Il tutto si risolve nuovamente con una sentenza favorevole all’azienda.
A questo punto la dipendente propone un secondo ricorso alla Cassazione, la quale nuovamente rimette la causa al giudice di appello. Si arriva così alla data maledetta del 6 marzo 2003, quando il Tribunale condanna l’azienda al reintegro della dipendente e alla corresponsione di tutte le mensilità dalla data del licenziamento (anno 1992) sino alla data del reintegro (2003), con interessi e rivalutazione monetaria, contributi previdenziali e relative sanzioni per l’omissione nell’arco di undici anni, oltre a tutte le spese processuali per i sei gradi del giudizio. Oltre a ciò ‑ non dimenticando che abbiamo comunque sostenuto enormi spese per l’assistenza prestata dal nostro legale ‑ poco dopo la sentenza la dipendente ha comunicato che rinunciava al posto di lavoro, ottenendo così, sempre a norma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il pagamento di ulteriori quindici mensilità di retribuzione.
E adesso, come fare a pagare un debito così grosso, per una ditta che lavora nel settore tessile, noto per avere margini di guadagno bassissimi? Si sono prospettate due soluzioni: portare i libri in Tribunale e chiudere la ditta lasciando senza lavoro cinquanta persone, oppure ipotecare i beni personali dei soci (nel mio caso un appartamento ad uso di prima casa acquistato dopo 25 anni di lavoro con mutuo; lo stesso per quanto riguarda l’amministratore). Tra le due ipotesi abbiamo scelto la seconda, perché siamo persone corrette, che amano il proprio lavoro e la realtà che sono riuscite a costruire in oltre trent’anni di attività; e che altrimenti si sentirebbero in colpa verso gli altri dipendenti dell’azienda, che hanno anch’essi dei figli da mantenere e il mutuo da pagare. Così mi ritrovo a 58 anni a ipotecare di nuovo il mio appartamento per altri 15 anni, per poter pagare undici anni di retribuzioni e contributi a una persona, che per questo periodo dice di non aver mai lavorato (ma siamo in una zona con tasso di disoccupazione praticamente inesistente).
Caro professor Ichino, io ho sempre avuto fiducia nella giustizia, ma adesso non più. Mi scuso per lo sfogo e le faccio i miei complimenti per l’obbiettività con cui lei ha illustrato sul Corriere i gravi difetti di funzionamento della nostra legge sui licenziamenti.
Antonia Lavelli