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IL DECRETO SUL “RIORDINO DEI CONTRATTI”: LUCI E OMBRE

È POSITIVO CHE IL MINISTRO DEL LAVORO ABBIA FATTO PROPRIA LA SFIDA DELLA CHIAREZZA E DELLA SEMPLIFICAZIONE, MA LO SCHEMA PROVVISORIO PRESENTA ALCUNI DIFETTI CHE VANNO CORRETTI

Messaggio pervenuto il 21 settembre 2015 – Segue la mia risposta

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Caro Pietro,
congratulazioni davvero per il decreto sul contratto a tutele crescenti, al Governo Renzi e a te come ispiratore prima e promotore principale poi in Parlamento […]. Siete stati davvero bravi a tenere la barra ferma nella direzione giusta e a non lasciare che il compromesso inquinasse la chiarezza e la coerenza sistematica di questo testo legislativo. Anzi, in questa versione definitiva le avete perfezionate. I risultati non tarderanno a farsi vedere; e andranno interamente ascritti a vostro merito. […] Mi preoccupa, invece, il decreto sul cosiddetto “riordino contrattuale”: sbaglio, o nella presentazione di questo testo dobbiamo leggere l’addio al progetto del Codice semplificato? […] Che giudizio dai di questo pezzo ulteriore della riforma? […]
Gabriele

Non parlerei di un “addio al progetto del [1]Codice semplificato [1]”: semmai di una proposta alternativa di attuazione dello stesso progetto, con il riordino di una legislazione caotica e in larga parte illeggibile per chi deve applicarla, talvolta anche per gli esperti del diritto del lavoro. Lo schema di decreto sul c.d. “riordino” si colloca in questo ordine di idee, caratterizzandosi per una scrittura chiara e per un risultato niente affatto disprezzabile sul piano della riduzione del volume della legislazione sulle materie trattate, oltre che per alcuni spunti di alleggerimento dei vincoli vigenti. Fermo dunque l’apprezzamento per il fatto che il ministro del Lavoro abbia fatto propria questa sfida, colgo l’occasione offertami da questa lettera per esporre qui i difetti che vedo nell’impianto e in alcune tra le scelte contenute in questo schema di decreto.
1. Non viene compiutamente adempiuta la delega contenuta nella legge n.183/2014, dove si parla di “testo organico semplificato delle discipline dei contratti e dei rapporti di lavoro”: nei 55 articoli dello schema di decreto c’è solo il riordino delle norme legislative in materia di part-time (nove articoli), lavoro intermittente (sei), lavoro a tempo determinato (undici), somministrazione (undici), apprendistato (sette), collaborazioni continuative autonome (tre), lavoro accessorio (uno) e mutamento di mansioni (uno): non siamo ancora al testo organico semplificato dell’intera disciplina richiesto dalla legge delega.
2. Pur realizzando, come ho detto sopra, una notevole riduzione di volume e un notevole guadagno in chiarezza rispetto alla legislazione vigente, la scrittura di questo schema di decreto è ancora in qualche misura affetta dall’ipertrofia del passato: basti osservare come gli stessi otto capitoli, che nello schema di decreto occupano cinquantacinque articoli, ne occupino soltanto nove nell’ultima versione del progetto del [1]
Codice semplificato [1]. E nessuno è stato ancora in grado di dimostrare che in quest’ultimo sia stato dimenticato qualche cosa. Se dunque si possono dire le stesse cose in modo più semplice in nove articoli, perché dirle in cinquantacinque, aggravando i costi di transazione nel mercato del lavoro?
3. In realtà, però, non si dicono proprio le stesse cose. La cultura giuslavoristica che si esprime in questo schema di decreto è, a tratti, ancora legata allo schema inaugurato nella seconda metà degli anni ’70, caratterizzato dalla norma rigidamente restrittiva che può essere derogata mediante contratto collettivo stipulato con il sindacato maggioritario: disposizioni di questo genere sono disseminate in tutto il decreto. Si rispolvera, così, la funzione del “sindacato-rubinetto” (ovvero regolatore) della flessibilità, assegnando questa funzione alle confederazioni maggiormente rappresentative: ma così facendo non si fa un buon servizio né alle confederazioni stesse – che farebbero bene a chiedere di essere esonerate da questa funzione – né alle imprese.
4. In alcune disposizioni riemerge la diffidenza della vecchia sinistra nei confronti del lavoro a tempo parziale: ne è spia anche solo il fatto che a questa materia si dedichino – a differenza degli altri maggiori ordinamenti europei – nove lunghi articoli, quando esso può essere disciplinato in uno solo di una decina di commi brevi. E poi, perché mai nel
part-time il lavoro supplementare e i patti di elasticità o flessibilità dell’orario dovrebbero essere consentiti soltanto là dove e nei limiti in cui un contratto collettivo lo autorizzi? E perché, se si vuole davvero semplificare la disciplina, conserviamo come figura a sé stante il lavoro intermittente, quando basterebbe liberalizzare le clausole elastiche nel part-time per consentire questa forma di organizzazione del lavoro, indispensabile in diversi settori, tra i quali quello del turismo, della ristorazione e dello spettacolo? Infine, qualcuno può spiegare che cosa ha mai fatto di male quella forma particolare di part-time che va sotto il nome di lavoro ripartito o job sharing (nella quale viene spinta al massimo grado l’autogestione del tempo di lavoro da parte dei due part-timers), che ora viene vietata?
5. Veniamo alla questione politicamente più calda: quella del contrasto all’elusione del diritto del lavoro per mezzo dei contratti di lavoro autonomo o associato. Qui (articoli 47-50) l’intendimento degli estensori dello schema di decreto corrisponde precisamente a quello del progetto originario del
Codice semplificato: estendere la protezione giuslavoristica all’area del lavoro che, pur qualificato come autonomo e magari svolto in condizioni di effettiva assenza di un vincolo di eterodirezione, sia però caratterizzato da una situazione di sostanziale dipendenza economica. Il progetto del [1]Codice semplificato [1], però, persegue questo obiettivo: a) rispettando la struttura della prestazione contrattuale voluta dalle parti (in particolare la sussistenza o no del vincolo di orario, o del vincolo di obbedienza); b) evitando attentamente il rischio di overshooting, cioè di impedire od ostacolare anche rapporti di collaborazione che non presentano alcun profilo di possibile pericolosità sociale; c) individuando i tratti distintivi della dipendenza economica in modo tale che essi siano facilmente individuabili e che non si determinino spazi di incertezza sull’applicazione, quindi di contenzioso giudiziale. La soluzione delineata nello schema di decreto, invece, pur ricalcando per alcuni aspetti quella del progetto originario, per altri aspetti mi sembra difettosa in riferimento alle tre esigenze testé enunciate. In estrema sintesi:
   a) che bisogno c’è di imporre – come si propone nello schema – la struttura del lavoro subordinato, e in particolare il vincolo dell’eterodirezione, che di per sé costituisce un aggravio della posizione del prestatore, in rapporti nei quali le parti effettivamente non lo hanno voluto, quando basterebbe assoggettare quei rapporti, quando presentino nel caso concreto i tratti propri della dipendenza, alle protezioni essenziali (in particolare quelle relative a licenziamenti, apposizione del termine, orario, ferie, impedimenti)?
   b) che bisogno c’è di sopprimere tipi contrattuali con radici secolari, come la collaborazione autonoma avente per oggetto un servizio a carattere continuativo (articolo 2222 del Codice civile), o il contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro (articolo 2549), solo perché in alcuni casi di effettiva dipendenza economica del lavoratore essi vengono utilizzati per eludere le protezioni giuslavoristiche? non basterebbe disporre sic et simpliciter l’applicazione di quelle protezioni dove si configuri la situazione di effettiva dipendenza?
c) infine – e forse è questo il rilievo di maggior peso – come si può pensare che il tratto distintivo decisivo della nuova fattispecie allargata di riferimento per l’applicazione del diritto del lavoro sia costituito dal “contenuto ripetitivo” della prestazione lavorativa? (*) quale mai attività professionale non ha un contenuto nel quale qualsiasi giudice possa ravvisare in qualche misura il carattere della ripetitività? come si conciliano gli spazi enormi che in questo modo si dischiudono alle disquisizioni bizantine di avvocati e giudici, con l’esigenza fondamentale di ridurre il contenzioso giudiziale in materia di lavoro, che in Italia ha raggiunto livelli abnormi proprio in conseguenza di disposizioni “aperte” come questa?
L’individuazione dei tratti essenziali della situazione di dipendenza sostanziale del prestatore di lavoro dal creditore, ai fini dell’estensione selettiva della protezione giuslavoristica, costituisce la questione più difficile e delicata in tema di contrasto all’elusione delle protezioni: qui meno che mai si deve lasciare spazio all’improvvisazione. Benissimo discostarsi anche radicalmente dalla soluzione proposta nel progetto del
Codice semplificato (centrata – secondo l’articolo 2094 – sui caratteri della continuità nel tempo della prestazione, della monocommittenza e del basso reddito, agevolmente desumibili con certezza e precisione da quanto accaduto nell’anno fiscale precedente); ma occorre che la soluzione alternativa sia competitiva rispetto alla prima per tutti e tre gli aspetti qui considerati. Insomma, su questo tema dobbiamo ancora lavorare.    (p.i.)

(*) Articolo 47, comma 1: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

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