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È DAVVERO “LA PRIMAVERA DEL LAVORO”?

PER MOLTI ASPETTI I DATI PUBBLICATI GIOVEDÌ DAL MINISTERO DEL LAVORO SUL FLUSSO DELLE NUOVE ASSUNZIONI NEL MESE DI MARZO SONO DAVVERO STRAORDINARI, MA È ANCORA PRESTO PER QUALIFICARLI CON SICUREZZA IN TUTTO O IN PARTE COME EFFETTO DELLA RIFORMA

Articolo pubblicato nella Newsletter [1]dello Studio Ichino Brugnatelli e Associati [1], 24 aprile 2015 – La seconda parte dell’articolo riprende quello pubblicato su il Foglio il 23 marzo 2015: Gli errori da non commettere nella valutazione degli effetti del [2] Jobs Act [2]

Per quanto ancora molto grezzi, i dati tratti dalle Comunicazioni obbligatorie del mese di marzo, pubblicati il 23 aprile 2015 dal ministero del Lavoro, sono per diversi aspetti straordinariamente positivi. Quasi centomila nuovi contratti regolari in più (la differenza tra le 641.572 attivazioni di nuovi contratti verificatesi nell’arco del mese e le 549.273 cessazioni). Aumento del 49,5 per cento delle assunzioni a tempo indeterminato rispetto al marzo 2014: da 108.647 a 162.498. Tra il marzo 2014 e il marzo 2015 aumentano dell’81 per cento le trasformazioni da contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, quasi un raddoppio: da 22.116 a 40.034. E tutto questo avviene in concomitanza con una drastica riduzione del numero di ore di intervento della Cassa integrazione: ritornano al lavoro molte decine di migliaia di persone che non figuravano come disoccupate, in quanto il loro rapporto di lavoro era solo sospeso ma non interrotto.

Nei giornali del 24 aprile predominano i toni trionfalistici: “Marzo, boom delle assunzioni” (Corriere della Sera); “Boom di contratti e stabilizzazioni” (la Repubblica); “Lavoro, 92mila posti in più a marzo” (il Messaggero); “Effetto Jobs Act” (la Stampa); “Questo Jobs Act funziona” (il Foglio). Forse il più bello è il titolo del fondo di Alberto Orioli sul Sole 24 Ore: “La primavera del lavoro”.

Che in questi dati possa leggersi un forte indizio dell’impatto positivo del decreto n. 23/2015 in materia di contratto di lavoro a tutele crescenti – entrato in vigore il 7 marzo – sulla quantità e qualità delle nuove assunzioni, è difficile negarlo. Nei due mesi immediatamente precedenti l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato rispetto al bimestre gennaio-febbraio 2014 era stato del 20,7 per cento: un possibile effetto della riduzione del prelievo contributivo e fiscale sui rapporti a tempo indeterminato, disposta dalla legge di stabilità del dicembre 2014; ma nel corso del marzo 2015, nonostante che la riforma sia entrata in vigore soltanto il 7, l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato rispetto al marzo 2014 è stato del 49,5 per cento. Ancora più marcata è stata la differenza, rispetto ai due mesi precedenti (nei quali ha operato soltanto l’incentivo economico) dell’aumento delle trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato: più 81 per cento.

L’invito alla prudenza nella valutazione di questi dati, però, è d’obbligo. Per diversi ordini di motivi. I dati relativi a un solo mese, nel quale oltretutto la riforma ha operato effettivamente soltanto per tre quarti della sua durata, non possono essere significativi degli effetti stabilmente prodotti dalla riforma stessa nel funzionamento del mercato del lavoro nazionale. Inoltre non ci si deve fermare ai dati delle Comunicazioni Obbligatorie al ministero del Lavoro, inerenti al flusso delle nuove assunzioni, perché saranno importantissime anche le variazioni dello stock degli occupati e dei disoccupati, che risulteranno dai dati forniti dall’Istat, oggi non ancora disponibili, e i dati disaggregati che fornirà l’Inps sul genere e l’età dei lavoratori assunti nelle varie forme nonché sull’entità delle retribuzioni.

Soprattutto, occorre stare molto attenti alle trappole in cui si può cadere nella lettura di questi dati.

Incominciamo coll’osservare che la riforma del lavoro, se sarà efficace, produrrà una riduzione del numero complessivo dei nuovi contratti di lavoro stipulati mese per mese; e ci sarà motivo di rallegrarsene. Perché se molte persone che nel 2014 hanno avuto una sequenza di contratti a termine, con una stessa azienda o con più d’una, magari con intervalli di disoccupazione tra l’uno e l’altro, nel 2015 per effetto delle nuove misure vengono assunte a tempo indeterminato, questo si tradurrà in una riduzione del numero complessivo di nuovi contratti. Ma corrisponderà a un tasso di occupazione complessivamente più elevato; e corrisponderà soprattutto a una migliore qualità del lavoro che quelle persone svolgeranno.

Nell’ultimo quinquennio, il numero dei nuovi contratti di lavoro stipulati in Italia è stato di circa dieci milioni ogni anno: questo dato impressionante, fornito dal Sistema delle Comunicazioni Obbligatorie del ministero del Lavoro, è la conseguenza del fatto che per circa cinque sesti si è trattato di contratti a termine, molti dei quali venivano rinnovati tra le stesse parti più volte in un anno, in alcuni casi addirittura dieci o venti volte; oppure del fatto che l’impresa, per non assumere una persona in forma stabile, assumeva in sequenza due o tre persone diverse sullo stesso posto nell’arco di un anno. Se ora ciascuna di queste posizioni sarà occupata da una sola persona assunta una volta sola a tempo indeterminato, ciò determinerà un calo del numero delle assunzioni. Per valutare gli effetti della riforma occorrerà dunque tenere d’occhio soprattutto il numero delle assunzioni a tempo indeterminato, che negli ultimi anni sono andate diminuendo dai due milioni all’anno a poco più di un milione e mezzo nel 2014; e che – queste sì – ora devono invece incominciare ad aumentare in misura rilevante; e più rilevante da marzo 2015 in poi rispetto all’aumento dei primi due mesi, imputabile soltanto alla riduzione del prelievo contributivo e fiscale. E allo stesso modo, se la riforma funziona, devono aumentare le conversioni di rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato.

Può anche accadere che nella prima fase di applicazione della riforma, se essa produce effetti coerenti con gli intendimenti del legislatore, aumenti il tasso di disoccupazione. Questo aumento, infatti, potrebbe significare che, essendosi rimesso in moto il mercato, anche per effetto delle nuove norme, molte persone scoraggiate dalla crisi, che negli ultimi tempi avevano smesso di cercare un’occupazione, hanno ricominciato a cercarla senza trovarla immediatamente. Il dato importante da tenere d’occhio sarà piuttosto quello relativo al tasso di occupazione; ma anche qui con l’avvertenza che non sapremo in quale misura la sua variazione sia dovuta al mutamento della congiuntura economica generale, in quale misura alla riduzione drastica del cuneo fiscale e contributivo, e in quale misura alla riforma dei licenziamenti.

La riduzione del cuneo fiscale e contributivo è entrata in vigore – come si è detto – con la legge di stabilità il 1° gennaio 2015; la nuova disciplina dei licenziamenti è entrata in vigore, invece, il 7 marzo: ciò consentirà di osservare le variazioni nella dinamica delle nuove assunzioni in corrispondenza con queste due date e trarne qualche indicazione interessante. Ma occorrerà comunque tener conto degli effetti distorsivi che potrebbero essere stati generati anche dall’attesa dei nuovi provvedimenti: per esempio, molte imprese potrebbero aver evitato di assumere in novembre o dicembre per assumere a gennaio beneficiando della riduzione del prelievo fiscale e della fiscalizzazione totale dei contributi. Allo stesso modo, molte imprese potrebbero aver evitato di assumere in gennaio o febbraio in attesa che entrasse in vigore il decreto sulle tutele crescenti.

L’osservazione di gran lunga più utile e interessante sul piano scientifico per misurare l’effetto della nuova disciplina dei licenziamenti sarà quella che riguarda la differenza di crescita dei contratti a tempo indeterminato nel settore delle imprese al di sotto della soglia dimensionale dei 16 dipendenti di qualche unità, dove la disciplina dei licenziamenti è rimasta quasi del tutto invariata, rispetto alle imprese che si collocano subito sopra quella soglia, molto simili alle prime per ogni altro aspetto, ma per le quali il mutamento della disciplina è stato rilevantissimo. Sarà altrettanto utile e interessante osservare se scomparirà l’effetto di inibizione al superamento della soglia dimensionale dei 15 dipendenti ben visibile nei dati rilevati fino a oggi. Se risulterà: a) che l’occupazione è sensibilmente aumentata di più nelle imprese sopra quella soglia rispetto a quelle che si collocano al di sotto; b) che essa si è trasformata da occupazione prevalentemente a termine in occupazione a tempo indeterminato; e c) che quella soglia non ha più sulle imprese di piccole dimensioni l’effetto di inibizione alla crescita che si è osservato fin qui; beh allora occorrerà convenire che la riforma sta producendo davvero dei risultati importanti. Per la precisione, sarà la prima volta in mezzo secolo che una misura di politica del lavoro avrà prodotto risultati coerenti con gli intendimenti del legislatore, e in misura non omeopatica. Ma prima che queste osservazioni siano state compiute con il dovuto rigore, qualsiasi conclusione sarà arbitraria, o addirittura fuorviante.