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CETA, TISA E TTIP: I DEBOLISSIMI ARGOMENTI CONTRARI DI UNA EURODEPUTATA DEL M5S

I TRATTATI DI LIBERO SCAMBIO POSSONO PRODURRE LA CHIUSURA DELLE AZIENDE MENO PRODUTTIVE, MA QUESTA È SEMPRE STATA AMPIAMENTE COMPENSATA DALL’AUMENTO DELL’OCCUPAZIONE NELLE AZIENDE PIÙ FORTI – LA SPECIALIZZAZIONE PRODUTTIVA INTERNAZIONALE FA BENE NON SOLO ALLE IMPRESE, MA ANCHE AI LAVORATORI

Messaggio pervenuto il 20 giugno 2016 – Segue la mia risposta – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico Stop TTIP: come crearsi un falso nemico per non indicare quello vero [1]    .
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Gentile professore Ichino, sono da tempo abbonato alla sua Newsletter [2]. Credo anch’io, come lei [3], che la conquista di Roma e Torino da parte del M5s, sia un’occasione per vedere se emerge una sua anima razionale oltre al manifesto politico anti-sistema. Vorrei condividere con lei l’opinione di un deputato europeo pentastellato sul TTIP [4]. I toni sono pacati e le motivazioni sono argomentate in modo ragionevole, come vedrà. Ma io gradirei molto una opinione perché avrei biogno di un contraltare dialettico non avendo gli strumenti per fare valutazioni realmente informate. Ci sono due affermazioni della deputata che meriterebbero una risposta fattuale: “col NAFTA gli USA hanno perso 600.000 posti di lavoro ed i campesinos messicani le loro terre” e la questione della PMI: conterà di più la rimozione delle complicazioni certificative che attualmente le zavorrano o – come dice la deputata – il fatto che il mercato americano vuole numeri tali, come distribuzione, da impedire “de facto” una entrata delle PMI europee in tale ambito?
Roberto Rondoni

globalizzazione1. Non so da dove sia tratta la stima di 600.000 posti di lavoro perduti negli U.S.A. per effetto del NAFTA; ma mi colpisce il fatto che la eurodeputata parli (e l’intervistatore le chieda) solo dei posti di lavoro persi e non di quelli che, per effetto di quello stesso accordo tra i Paesi nell’America settentrionale e centrale, si sono creati. Qualsiasi trattato internazionale di questo genere ha come conseguenza una specializzazione produttiva dei Paesi partecipanti: dunque ciascun Paese vede chiudere dei posti di lavoro nei settori nei quali è meno forte, ma ne vede anche aprire nei settori nei quali è più forte (in Italia: macchine utensili, meccatronica, alimentare, abbigliamento, moda, oreficeria, cuoio e pelletteria, occhiali, e l’elenco potrebbe continuare). Perché sulla contabilità di questi settori la nostra eurodeputata tace? Come può considerarsi serio un discorso così scopertamente focalizzato su di una parte soltanto degli effetti del trattato e non sull’altra? Nella storia del mondo la progressiva specializzazione produttiva internazionale ha sempre portato, sì, alla chiusura di posti di lavoro, ma – sulla distanza – complessivamente ha portato dappertutto a un aumento dell’occupazione, della produttività del lavoro e del benessere diffuso. Il problema – certo – è proteggere e indennizzare chi ci perde nella transizione; ma il M5S non vuole questa transizione: ne vagheggia un’altra, che però non è in grado di definire con precisione. Né mostra di avere le idee chiare in proposito l’eurodeputata Tiziana Beghin.

2. Quanto alla questione dell’impatto dei trattati di libero scambio con gli U.S.A. sulle imprese piccole e medie, che costituiscono il 97 per cento del nostro tessuto produttivo, il discorso di Tiziana Beghin è davvero singolare: secondo l’eurodeputata M5S queste imprese ne sarebbero danneggiate perché si troverebbero di fronte a una domanda troppo ingente dei loro prodotti! Vorrei sapere quanti imprenditori italiani piccoli o medi paventino questa eventualità come una sciagura.  Se le piccole e medie imprese avranno uno stimolo a ingrandirsi o consorziarsi per affrontare l’immenso mercato statunitense, ne deriverà soltanto del bene per loro e per tutto il nostro Paese. E poiché questo è – in ultima analisi – l’arg0mento principale addotto da Tiziana Beghin contro la stipulazione dei tre accordi transatlantici, mi sembra proprio che la sua tesi non sia affatto bene argomentata.

carrello della spesa3. Resta da dire dell’argomento secondo cui il TTIP obbligherebbe i Paesi europei ad abbassare la guardia in materia di tutela della sicurezza ambientale e della salute: sull’argomento rinvio al mio editoriale già segnalato in epigrafe, Stop TTIP: come crearsi un falso nemico per non indicare quello vero [1]. Qui aggiungo solo una osservazione: su Io Donna (inserto del Corriere della Sera, non del Fatto quotidiano!) del 18 giugno scorso è comparso un articolo di Fausta Chiesa sul TTIP intitolato “Ma che TTI(P) metteranno nel piatto?”, richiamato in copertina con questa frase: “Se l’accordo Europa-Usa passa, noi mangeremo così”. Nell’articolo, sette pagine di foto impressionanti sull’agricoltura statunitense industrializzata e di notizie sui criteri differenti con cui la sicurezza alimentare e ambientale è normata negli U.S.A. rispetto all’UE; ma non una parola per informare il lettore sui paletti già fissati dal Parlamento europeo alla Commissione UE per la trattativa, in tema di intangibilità, in sede di futura applicazione del TTIP, delle normative comunitarie e nazionali del vecchio continente in materia di sicurezza alimentare e ambientale; né per chiarire che in ogni caso sarà mantenuto l’obbligo di informazione compiuta del consumatore circa la provenienza e le modalità di produzione di ciascun alimento che attraversi l’Atlantico. Il TTIP, dunque, non ci “metterà nel piatto” niente che ciascuno di noi non abbia scientemente deciso di metterci. Esso, semmai, consentirà a 300 milioni di statunitensi di mettere nei loro piatti molti cibi di produzione mediterranea, incomparabilmente più gustosi di quelli a cui sono abituati: ma anche di questo, nell’articolo di Fausta Chiesa, neppure un cenno.      (p.i.)

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