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CHE COSA DICONO VERAMENTE I DATI INPS SUGLI EFFETTI DEL JOBS ACT

GLI INCENTIVI FISCALI ALLE ASSUNZIONI IN VIGORE NEL 2015 HANNO SOLO ANTICIPATO AL PRIMO ANNO DEL BIENNIO 2015-16 L’EFFETTO POTENZIALE DEL JOBS ACT, CHE ALTRIMENTI SI SAREBBE SPALMATO SU TUTTO IL PERIODO; MA RESTA IL DATO DI 815.089 ASSUNZIONI STABILI IN PIÙ RISPETTO AL BIENNIO PRECEDENTE

Editoriale di Andrea Ichino, professore di economia del lavoro all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, pubblicato dal Corriere della sera il 5 dicembre 2016 – In argomento v. anche gli interventi e documenti riportati nella sezione 2 del Portale della riforma del lavoro [1]   

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Andrea Ichino

Andrea Ichino

Era prematuro cantare vittoria nel 2015 sugli effetti del Jobs Act, ma non vi sono motivi oggi per dire che la riforma abbia fallito l’obiettivo di rendere più efficiente l’allocazione delle risorse umane nel mercato del lavoro. Se mai il contrario.

Se confrontiamo il biennio 2015-16 (fino a settembre 2016, ultimo dato disponibile) con il corrispondente biennio 2013-14 (fino a settembre 2014), le nuove assunzioni a tempo indeterminato e le trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato sono aumentate di 815.089 unità. Questa è la variabile principale sulla quale era lecito attendersi effetti del Jobs Act. Gli incentivi fiscali alle assunzioni in vigore nel 2015 hanno solo anticipato al primo anno del biennio 2015-16 l’effetto potenziale del Jobs Act, che altrimenti si sarebbe spalmato su tutto il periodo. Ma nulla in questa anticipazione autorizza ad affermare che la diminuzione di questa variabile nel 2016 rispetto al 2015 indichi un fallimento della riforma.

Per altro verso, molte altre variabili si sono modificate nello scenario economico tra 2013-14 e 2015-16: per esempio una timida ripresa, subito frenata da incertezze sul fronte europeo (Brexit, euro) e interno (crisi bancaria). Quello che è certo è che non possiamo attribuire quegli 815.089 nuovi contratti al solo Jobs Act. Possiamo però confrontare questa variazione con quella osservata, nello stesso arco temporale, per i contratti a tempo determinato, il cui andamento può essere considerato come una approssimazione di quel che sarebbe accaduto per effetto dei soli scenari economici in assenza di Jobs Act e incentivi fiscali alle assunzioni. I contratti a termine sono aumentati di sole 294.188 unità tra 2013-14 e 2015-16 (senza alcuna discontinuità evidente nell’aprile 2014, a seguito del decreto Poletti che ha allargato le maglie della disciplina dei contratti a termine). La differenza tra l’incremento dei contratti a tempo indeterminato e quello dei contratti a termine è di 520.901 unità. Questo dato certamente non consente di dire che il Jobs Act abbia fallito nel promuovere i contratti di lavoro stabili, anche se è comunque ancora troppo presto per confermare un successo.

Ancora meno si capiscono le accuse al Jobs Act basate sull’andamento delle cessazioni di rapporti di lavoro. Sempre guardando alla variazione tra 2013-14 e 2015-16, queste cessazioni sono addirittura diminuite di 24.120 unità per quel che riguarda i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre sono aumentate di 231.374 unità nei contratti a termine. E non poteva che essere così dato che il Jobs Act ha ridotto i costi di licenziamento per i soli nuovi assunti: nulla è cambiato per i rapporti di lavoro iniziati prima. Inoltre, data la forte decontribuzione per gli assunti con le nuove regole del Jobs Act, applicabile per i primi tre anni di durata del rapporto, perché mai un imprenditore dovrebbe licenziare maggiormente questi neo-assunti quando i tre anni non sono ancora passati? I dati, infatti, dicono che gli imprenditori non stanno licenziando lavoratori a tempo indeterminato né più né meno che in passato. Anche riguardo a questo dato è dunque quanto meno prematuro trarre conclusioni.

Questo anche perché la teoria economica afferma che una riduzione dei costi di licenziamento ha come principale effetto una migliore allocazione delle risorse umane tra imprese in espansione e imprese in recessione. Questo guadagno di efficienza passa per un aumento delle assunzioni da parte delle prime e un aumento dei licenziamenti nelle seconde. Solo nel periodo medio-lungo questo aumento di efficienza può tradursi in un aumento dello stock di occupati, e comunque solo se gli scenari economici consentono l’esistenza di imprese in espansione. Senza una prospettiva di espansione, un’azienda non ha motivi per assumere nuovi dipendenti, neanche se i costi di licenziamento sono nulli. Il Jobs Act deve essere considerato come un moltiplicatore degli effetti di una ripresa economica, quando finalmente arriverà, non come una bacchetta magica capace di cambiare la propensione degli imprenditori ad assumere se gli scenari della propria impresa e/o globali restano immutati.

Piuttosto, dovremmo prestare attenzione al rischio di “restare in mezzo al guado”, con gli effetti negativi sia del sistema flessibile sia di quello rigido. Se gli imprenditori avessero buone ragioni per temere che in futuro il Governo possa fare marcia indietro sul Jobs Act, quello che farebbero sarebbe interrompere ogni assunzione, per evitare di rimanere con troppi dipendenti in caso di shock negativo senza poi poterli licenziare, e anzi licenzierebbero prima possibile anche nei casi incerti prima che diventi troppo tardi.

Questo è uno scenario da evitare. Diamo alle riforme il tempo di avere gli effetti per i quali sono state disegnate prima di valutarle, e non lasciamoci influenzare dai dati mensili sull’occupazione che dipendono da infiniti fattori. Il Governo, piuttosto, alla prossima occasione, pensi a realizzare riforme disegnando anche, contestualmente, gli esperimenti necessari per valutarne gli effetti in modo attendibile, come accade per le terapie in campo medico.