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NUOVI INTERVENTI SUL LABOUR LAW AND ECONOMICS

Un dibattito tra giuslavoristi sull’importanza e la portata del dialogo tra diritto del lavoro ed economia del lavoro

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Messaggi ricevuti in riferimento al mio scritto 
Perché i giuslavoristi non possono ignorare l’economia del lavoro [1], pubblicato il 29 maggio 2017: ivi i riferimenti e i link ai miei scritti precedenti sull’argomento – In proposito v. anche gli interventi precedenti della professoressa Maria Vittoria Ballestrero [2], del 21 e quello del professor Bruno Caruso [3]   .
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La profewssoressa Maria Vittoria Ballestrero

La profewssoressa Maria Vittoria Ballestrero

La controreplica di Maria Vittoria Ballestrero: un’altra idea (e un’altra economia) del lavoro è possibile

Caro Pietro,
anzitutto grazie per la simpatia, che ricambio e non da ora. Ho letto la tua lunga risposta [1], e mi concedo una replica, molto breve per evitare di diventare stucchevole.
Mi fa piacere che la mia lettera ti abbia fornito l’occasione per scrivere una sentita e circostanziata difesa degli studi di law and economics, ma non ho mai messo in dubbio che questi studi possano essere interessanti e anche utili, così come non avrei ragione di criticare il giurista che coltiva studi di economia, allargando così i propri orizzonti culturali. Le chiusure mentali sono sempre negative e a volte addirittura deleterie: in questo sono d’accordo con te. Sfortunatamente i miei orizzonti culturali sono rimasti più circoscritti, e dunque non mi sento di entrare nel merito delle tue riflessioni dedicate al rapporto tra teorie economiche e diritto; mi pare tuttavia che l’oggetto e il metodo degli studi giuridici restino distinti dall’oggetto e dal metodo degli studi economici: il confronto tra giuristi ed economisti è certamente interessante, arricchisce il bagaglio delle conoscenze, ma ognuno poi deve fare il suo mestiere, maneggiando i ferri che gli competono.
Torno invece per un attimo sulla critica, che rivolgi a me come ad altri autori dei saggi e degli interventi pubblicati sul fascicolo 4/2016 di LD, di avere una concezione giusnaturalistica del diritto del lavoro. Essendo giuspositivista per formazione culturale e per pratica professionale, non credo di avere mai scritto e neppure pensato che  il diritto del lavoro “vero” sia quello degli anni ’70 del secolo scorso. Il “glorioso modello statutario” è un’espressione ironica, come è ironica la battuta sulle “indigeribili polpette” renziane: mi spiace che l’ironia, alla quale talvolta faccio ricorso, non sia stata colta.
Essendo giuspositivista, il diritto del lavoro, per me, non può che essere quello che è: un insieme di regole, di diversa fonte, che disciplinano il mercato del lavoro. Ma so, per averlo studiato da cinquant’anni a questa parte, che il diritto del lavoro ha conosciuto fasi diverse, ha svolto funzioni diverse, si è evoluto e trasformato, e oggi è quell’insieme, spesso mal assemblato, di disposizioni e norme che, come giuslavoristi, siamo chiamati ad interpretare. Rilevare irrazionalità e irragionevolezza delle disposizioni che interpretiamo fa parte del nostro lavoro di studiosi; non ha nulla a che fare con il giusnaturalismo la critica del diritto vigente basata (anche) sul richiamo ai valori fondanti della nostra repubblica. Richiamare quei valori non è oscurantismo, è avere opinioni (politiche) diverse sul lavoro e sulla sua regolazione.
La questione insomma mi pare un’altra: tu pensi che la strada imboccata dal diritto del lavoro negli anni duemila sia quella giusta; a me, come a molti altri, pare invece che si debba cambiare strada,  e che questo diritto del lavoro debba essere riformato, ripartendo dai valori costituzionali del lavoro e della dignità delle persone (papa Francesco – che è credente – lo dice in altro modo, ma l’idea è la stessa). Non mi sfugge il rapporto tra economia e diritto: ho tuttavia ragione di pensare che questo diritto del lavoro non sia determinato da leggi economiche falsificabili come le leggi fisiche, ma sia invece il frutto di politiche economiche largamente influenzate da dottrine economiche di destra, e ho non minori ragioni di pensare che altre politiche economiche siano possibili, così come sono possibili altre dottrine economiche diverse da quelle attualmente dominanti in Europa (e abbiano eguale dignità scientifica, anche se minore successo). Ho dunque ragione di augurarmi che anche un diritto del lavoro diverso da quello attuale sia possibile; ma sono abbastanza realista per sapere che non è probabile.
Maria Vittoria (*)
(*) della quale v. anche la prima replica alla mia recensione del fascicolo 4/2016 della rivista Lavoro e Diritto [2]

Il professor Antonio Padoa Schioppa

Il professor Antonio Padoa Schioppa

Antonio Padoa Schioppa: il confine tra le regole necessarie e la necessaria libertà del mercato

Caro Pietro, è magistrale il tuo intervento Perché i giuslavoristi non possono ignorare l’economia del lavoro [1].  Lo condivido completamente, anche da storico del diritto.
Mi sembra che  chi la pensa come il mainstream dei nostri giuslavoristi ignori quanto sia vivace la dialettica all’interno del mondo stesso degli economisti. Ma davvero pensiamo che tra le tesi di Milton Friedman o degli ordo-liberisti tedeschi  e  quelle di Amartya Senn o di  Stigliz non ci siano differenze di fondo sull’idea di mercato? Il fulcro dela questione è, mi sembra, che il mercato è, e non può non essere, una struttura “artificiale”, che può funzionare correttamente solo entro un perimetro di regole. Ma entro questo perimetro deve essere libero e non ingessato: sennò entriamo nel mondo dell’economia non socialdemocratica ma socialista e pianificata coattivamente, rivelatasi funesta.
Dove debba collocarsi il confine tra regole e libertà, tra vincoli legislativi e autonomia, tra Stato e mercato, qui sta il problema, che richiede via via soluzioni  e  “punti di caduta” nuovi, con l’evolvere dei sistemi produttivi, della globalizzazione, delle nuove tecnologie e delle nuove sensibilità sociali. Proprio qui sta, mi pare,  il bello del lavoro del giurista. O no?
Grazie per queste tue limpide pagine che spero (o m’illudo?) facciano meditare soprattutto i giovani studiosi di oggi.
Antonio Padoa Schioppa, professore emerito di Storia del Diritto Italiano nell’Università degli Studi di Milano

Il professor Lorenzo Zoppoli

Il professor Lorenzo Zoppoli

Lorenzo Zoppoli: la qualità del lavoro non è una questione puramente economica o di mercato

Caro Pietro,
aderisco volentieri al Tuo invito alla discussione a partire dal bel fascicolo di Lavoro e diritto n. 4/2016.
Confesso che il primo impulso viene dalla sensazione di essere stato sostanzialmente frainteso in uno dei due punti in cui hai avuto la cortesia di citare il mio contributo sulla questione della subordinazione DEL diritto del lavoro all’economia. Infatti Tu mi annoveri tra quanti ritengono che il “vero” diritto del lavoro sia inscindibile da un orientamento politico socialdemocratico (paragrafo 5), negando che possa esistere una variante della materia di tipo “liberal-democratico oppure schiettamente thatcheriano”. Siccome penso esattamente il contrario – e lo affermo con chiarezza quando dico che mi pare un errore “tagliare con l’accetta la storia del diritto del lavoro italiano” (p. 686) – vorrei precisare che mi riferisco a tutt’altro. Forse esprimendomi male, ho voluto dire che se il c.d. modello statutario di diritto del lavoro aveva necessità di una “razionalizzazione” – come ritiene Giovanni Cazzetta nel saggio introduttivo al suddetto fascicolo a proposito della politica del diritto impersonata proprio da Lavoro e Diritto sin dalla sua nascita – il soggetto politico più idoneo a realizzarla non poteva essere una socialdemocrazia in crisi crescente che si sarebbe vieppiù nel corso dell’ultimo ventennio avvicinata al pensiero liberista (o se preferisci liberal-democratico) abbracciando un progetto di rivisitazione del diritto del lavoro che va ben al di là di una razionalizzazione del modello statutario per realizzare, al contrario, un totale ribaltamento degli equilibri normativi. Non credo sia infatti possibile dubitare che se il modello statutario era in qualche modo sbilanciato verso la tutela dei lavoratori e dei loro sindacati, quello emerso a partire dal 2001 in poi è sempre più sbilanciato sul versante della tutela dell’impresa, in piena sintonia con una visione liberista delle dinamiche socio-politiche. A me questo “nuovo” diritto del lavoro non piace e non convince, allontanandosi per molti versi anche dagli assetti costituzionali. Ma non nego certo che anche questo sia un diritto del lavoro e che nell’ambito di questo diritto dobbiamo cercare applicazioni ed evoluzioni in grado di conservare il più a lungo possibile un sistema democratico fondato sulla valorizzazione del lavoro (almeno finché abbiamo la Costituzione che sappiamo). Non mi pare che questo abbia molto a che vedere con il giusnaturalismo, teoria rispettabile (da te evocata con intento assai critico), ma lontana da quell’ approccio dinamico, pluralista e aperto che a mio parere deve caratterizzare la cultura giuridica contemporanea.
Quanto al ruolo della cultura giuridica, mi pare poi che sia un po’ riduttivo confinarla nella categoria dell’utile più o meno immediato, come Tu fai chiedendoTi, retoricamente, se sia meglio verificare quanto una norma raggiunga davvero i suoi scopi (come farebbe l’economista) o se sia conforme a certe coordinate valoriali e di principio (come farebbero gran parte dei giuristi). Io penso che siano due mestieri diversi, entrambi preziosi, ma che richiedono competenze e strumenti di analisi diversi, come del resto dici anche Tu rivolgendoti soprattutto a Valerio Speziale, che vorrebbe svolgere anche il ruolo dell’economista, analizzando razionalità ed efficacia della legislazione. Certo anche a me piacerebbe saper fare bene entrambi i mestieri perché credo, e non da ora (v. Il diritto del lavoro dalle ideologie alla numerologia? L’insostenibile pesantezza delle politiche, del diritto e dei tecnici del diritto, in ADL, 2015, quaderno n. 13, p. 147 ss.; e, ancor prima, Il licenziamento tra costituzionalismo e analisi economica del diritto, in DLM, 2000, n. 2), che gli studi economici siano senz’altro importanti e utili, pur essendo tutt’altro che univoci. E penso anche, per quanto ne so, che la dottrina giuslavorista non abbia mai ignorato la realtà socio-economica e i relativi studi (basta ricordare il nome e il metodo di Giugni, ma si potrebbe fare un elenco davvero lungo di nomi e di Maestri del diritto del lavoro di ieri e di oggi). Dunque dissento radicalmente da chi afferma che la sensibilità verso l’efficacia della regolazione sia nata con gli studi di Law and Economics, che hanno assunto una consistenza solo relativamente da poco (30 anni?; già Sergio Magrini nei primi anni ’60 si interrogava sulle teorie economiche in materia di discriminazione e su quanto il giuslavorista ne avrebbe dovuto tener conto: v. Il significato giuridico della parità retributiva, in DL, 1962, n. 4-5). Il punto è piuttosto che le teorie economiche che alimentano quegli studi sono essenzialmente incentrate sulla coerenza della legislazione con l’efficienza dell’impresa di mercato: ovvero danno per acquisito il discorso sugli scopi che la legislazione deve realizzare e quegli scopi li assumono da un certo assetto dei rapporti economici come se fossero retti da “leggi di natura” (v. più diffusamente il mio scritto del 2015, prima citato, p. 153-154). Insomma, se vogliamo, anche gli economisti non sono immuni dal vizio giusnaturalistico di presumere un “ordine naturale” delle relazioni socio-economiche. Se così è, resta da spiegare perché scopi, finalità, ispirazione della regolazione debbano essere individuati dagli economisti di un determinato orientamento e non da altri studiosi dell’economia o della società o, perché no, del diritto. Si pensi al tema , attualissimo, del lavoro da promuovere per tutti i cittadini (art. 4 della nostra costituzione): alla domanda cruciale che riecheggia da settant’anni nelle nostre istituzioni “quale lavoro?” (v. l’intervento del democristiano Mario Zotta nella fase ormai conclusiva dell’Assemblea Costituente, l’8 maggio 1947: ora nel volume Prima di tutto il lavoro. La costruzione di un diritto all’Assemblea Costituente, a cura di L. Gaeta, ES, 2014, p. 98), i giuristi hanno titolo a rispondere almeno quanto gli economisti, perché la qualità del lavoro condiziona indirizzi e politiche volte a garantirne quantità e ripartizione e la qualità del lavoro non è una questione puramente economica o di mercato, se non vogliamo dare un significato del tutto vacuo e tautologico ai valori fondanti del nostro vivere civile. Dopodiché anche i giuristi torneranno a dividersi sulle qualità imprescindibili che il lavoro deve avere per essere tale (i diritti fondamentali dei lavoratori?) e quelle invece che possono essere lasciate alle scelte autonome dei contraenti; oppure sull’opportunità di fissare il “giusto” salario con legge e con contratto collettivo. E magari terranno conto degli studi economici. Ma i ragionamenti e gli argomenti non possono identificarsi perché nessuna disciplina, per quanto rigorosa ed epistemologicamente compatta, è depositaria della verità. Le scelte alla fine non può che farle il potere politico, auspicabilmente democratico e con un costante controllo sul rispetto dei valori e principi fondamentali così come sono di volta in volta acquisiti da chi ha il potere di esercitare quel controllo (cioè la giurisprudenza e, in particolare, i giudici costituzionali; l’opinione pubblica, il dibattito scientifico, il corpo elettorale).
Naturalmente il discorso potrebbe continuare all’infinito (e continuerà, mi auguro). Ma se andassi oltre,  trasborderebbe dal genere epistolare, che qui abbiamo privilegiato.
Perciò, sperando di aver dato ancora un piccolo contributo a un dibattito tanto importante quanto difficile, Ti saluto con la solita grande cordialità, ringraziandoTi per la generosa ospitalità
Lorenzo Zoppoli
professore di diritto del lavoro nell’Università di Napoli

 

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