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LA FINE DELLA STAGIONE DEL NOSTRO AMORE

“[…] La casa nella pineta di Pietro Ichino racconta le speranze e il disincanto del secondo Novecento”

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Recensione, a cura di Olimpia Ammendola, de
La casa nella pineta. Storia di una famiglia borghese del Novecento, pubblicata sul quotidiano Roma il 1° maggio 2018 – Gli altri documenti, foto, recensioni e commenti sul libro sono raccolti nella pagina ad esso dedicata [1]   
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È difficile non ritrovare in questo testo di Pietro Ichino, La casa nella pineta, gli interrogativi di una generazione, la generazione del dopoguerra, vissuta tra l’espansione economica, la certezza di un futuro migliore e il dover toccare con mano quanto di fallace vi era in quella visione delle magnifiche sorti e progressive; quante insidie in una società che, uscita dalla miseria, aveva imbroccato la strada dello sviluppo e quanto in quello sviluppo, si perdeva in termini di collante sociale, di riferimenti valoriali.

In un quadro di veloce evoluzione, la famiglia Ichino è un simbolo di unione, di amore, di sobrietà, di parsimonia, una famiglia che ha una stella polare salda e incrollabile: cambiare il mondo richiede innanzitutto cambiare il nostro modo di guardare il mondo. Un convincimento che stride fortemente con chi affermava che il mondo andava trasformato e non interpretato, un convincimento che ha prodotto infelicità  se non addirittura causato tragedie. Avere la consapevolezza che la nostra vita non è determinata dall’esperienza ma dal nostro modo di interpretarla, ci rende responsabili e attori della nostra esistenza. Ritenere il contrario ci  rende succubi delle alterne vicende della vita e alla mercè degli eventi.

Il protagonista di questo romanzo non è Pietro Ichino, ma una casa costruita in una pineta, un luogo dove il mondo della vita scorre e dove gli affetti, le idee, le vicende si intrecciano in una sinfonia di intenti che, a monte, gode di una incrollabile certezza: in ogni accadimento , il più nefasto, se cerchi il bene lo trovi. È questa fede che rende forti i componenti di questa famiglia. Non è la retorica del bicchiere mezzo pieno o il luogo comune che ritiene che nella vita vi sono aspetti positivi e negativi, quasi a voler vedere una simmetria tra il bene e il male, ma è il modo in cui ci poniamo di fronte al male che fa la differenza. Come pure il comprendere che l’alternanza tra le stagioni non è un diritto: ringraziare per il dono che riceviamo ogni giorno, modifica il nostro modo di rapportarci verso la vita. In un’epoca in cui la rabbia e il rancore sono i motori immobili dell’agire sociale e delle scelte di gruppi politici che vivono di rendita sulla frustrazione di tanta gente, leggere questo libro è una sorta di terapia e un invito all’etica della responsabilità. La famiglia Ichino è una famiglia agiata, borghese e finalmente,  questo aggettivo viene pronunciato senza sensi di colpa. Essi infatti, non si sentono i nemici della classe operaia, non si sentono i padroni. Anzi, Pietro Ichino rinuncia ad assecondare il desiderio del padre che lo vorrebbe nel suo studio. Egli vuole mettere in gioco le sue capacità senza protezione e così inizia il suo rapporto con la Fiom, con la Cgil, per scoprire ben presto l’ipocrisia, l’arretratezza del sindacato più importante d’Europa il cui scopo è quello di far permanere l’operaio in stato di soggezione, uno stato in cui il sindacato deve sempre fungere da protettore e il lavoratore costretto a chiedere la tutela.

Da sottolineare il rapporto con la differenza di genere: da un lato la matrice cattolica portatrice di una visione maschilista, dall’altro l’anticonformismo di Francesca, madre di Pietro Ichino, anticonformismo derivante dalla cultura ebraica. Questo intreccio tra cattolicesimo, ebraismo e appartenenza politica alla sinistra è estremamente interessante: è un intreccio che alla fine risulta essere un antidoto all’ideologismo, alla cultura della riserva indiana, alla faziosità e al bisogno dell’appartenenza a prescindere. La questione identitaria, più volte leit motiv di questi anni che ha spaccato, disgregato la sinistra, non tocca chi ha una forte identità culturale, un vissuto esperienziale, la cui unica pregiudiziale è l’onestà intellettuale e del sentimento.

In un’epoca di analfabetismo dei sentimenti, di anaffettività e di assenza di risonanza emotiva, la vicenda privata e pubblica di Ichino e della sua famiglia, risulta decisamente controcorrente. La relazione pubblico/privato, anch’essa risulta dissonante con la generale atmosfera di offuscamento dei confini tra le due sfere. L’autore narra della sua intimità: eppure non risulta fastidiosa, esibizionistica, narcisistica. Si avverte la delicatezza e la pudicizia in questo fare riferimento ad aspetti estremamente riservati. In un’epoca in cui non c’è distinzione tra sincerità e spudoratezza, il racconto di Ichino rimarca la sua valenza pedagogica. Come pure l’essere permeato tutto il testo da una sorta di religiosità laica.

La forza che sprigiona dalle pagine di esso quando narra delle feste, delle regole non scritte che presiedevano ad esse e che garantivano quella sintonia con il prossimo che ha a fondamento una regola chiara e semplice, sintesi di tutta la filosofia degli Ichino, dei Pellizzi e dei Pontecorvo: l’avere ciò che si è donato. Ma dove si avverte un forte capovolgimento dei valori della sinistra soprattutto di quella estremista è nella relazione con don Milani, amico di Carla, figlia di Iole Pontecorvo. Don Milani farà poi la scelta di entrare nel seminario a Firenze per seguire la sua vocazione. Pietro Ichino, che sarà poi il pierino della lettera alla professoressa, simbolo dei bambini avvantaggiati dallo status sociale, si sentirà inferiore ai ragazzi di Barbiana. Questo è il capovolgimento che opererà don Milani, capovolgimento che può avvenire solo se si crede nella forza della cultura, l’unica che può sconfiggere lo svantaggio sociale. I ragazzi di Barbiana sono portatori di una cultura lontana da Pietro/Pierino, il quale si vorrebbe sentire uno di loro ma sente tutto il peso della propria appartenenza sociale ed economica.

Sicuramente la radicalità del comunismo di don Milani, un comunismo vissuto soprattutto come imperativo etico, ha inciso sulla formazione di Pietro Ichino, costituendo una sorta di imprinting che lo accompagnerà per tutta la vita e costituirà la barra del suo impegno politico e della sua militanza. Sarà questa struttura morale che gli darà la forza per superare l’isolamento a cui viene tacitamente e subdolamente condannato quando proverà a contestare l’idea che i diritti dei lavoratori non possono essere confusi con gli abusi, e che questa confusione costituisce alla lunga un danno all’intera classe lavoratrice. Purtroppo la miopia dei dirigenti sindacali sarà tale che, anche se qualcuno condivide il punto di vista di Ichino, non può manifestarlo apertamente. Quando oggi constatiamo con sgomento la fine della stagione del nostro amore, ci chiediamo come sia potuto accadere che due strutture (la Cgil e il Pci) che non temevano rivali, si siano condannate alla residualità. Ebbene questo libro chiarisce molte cose e fa capire come certe degenerazioni sono cominciate molto tempo fa, negli anni ’70-’80, quando abbiamo confuso disciplina e obbedienza, unità e annullamento delle differenze, eguaglianza e appiattimento. Ma quello che ha condannato la sinistra a essere una forza residuale è stato il suo ritenersi superiore, diversa, portatrice di una missione storica di salvezza. A ben vedere una visione per nulla laica della politica e della funzione di un partito e di un sindacato. Una visione che ha prodotto le stragi degli anni di piombo che tanti, colpevolmente definivano azioni di compagni che sbagliavano.

Il libro di Ichino getta una luce sulla generazione che ha vissuto le speranze e il disincanto del secondo Novecento, ma è una luce non abbagliante, è piuttosto del meriggio, quasi umbratile. Una luce somigliante forse, a quella che si intravvede tra i pini, velata, come deve essere la verità che, se è profonda, autentica e consapevole della sua provvisorietà, non può non risiedere nella penombra.

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